GALILEO GALILEI E I NUMERI REALI

 

di Umberto Bartocci(*)

 

 

[Il contenuto della presente relazione e' soltanto parte di un piu' ampio studio sui fondamenti della teoria dei numeri reali(1), le cui linee principali verranno comunque nel seguito sinteticamente richiamate].

 

 

1.

 

E' ben noto come, verso l'ultimo terzo del secolo scorso, sulla spinta delle interpretazioni meta-geometriche dei risultati sull'"esistenza" di geometrie non-euclidee, i matematici abbiano cercato di eli minare dal concetto di numero reale ogni riferimento a proprieta' ed enti di natura geometrica, considerati questi come provenienti da un "momento intuitivo e vago della fondazione"(2). Nelle seguenti parole e' chiaramente enunciato il "programma" della cosiddetta "aritmetizzazione dell'analisi": "concepire i numeri reali come strutture concettuali, invece che come grandezze intuitive ereditate dalla geometria euclidea"(3). Lo svolgimento di un tale programma, al quale fece seguito una fase di assiomatizzazione e logicizzazione della stessa aritmetica, fu la necessaria premessa ideologica all'enunciazione prima, ed all'affermazione poi, del punto di vista cosiddetto formalista nei fondamenti della matematica. Il formalismo costituisce ancora oggi la principale "filosofia-guida" della didattica della matematica.

 

 

2.

 

Purtroppo, soltanto una ristretta minoranza di matematici sembra oggi condividere l'opinione che una fondazione di tipo logico-insiemistico della matematica, se elimina apparentemente all'origine il riferimento a concetti che possono essere ritenuti di natura empirico-psicologica, indica pero' come "basi piu' vere ed adeguate della nuova pratica matematica"(4) un terreno ben piu' infido della diretta percezione intuitiva degli enti della geometria euclidea. Per usare le parole di H. Weyl(5), "la roccia solida" sulla quale sembra fondato l'edificio dell'Analisi e' in realta' costituita da "sabbia", ed i problemi di base, "nonostante Dedekind, Cantor e Weierstrass, sono irrisolti oggi non meno di ieri". E si potrebbe aggiungere che "la loro radice va ricercata unicamente nell'arbitrio, commesso fin dall'inizio in matematica, di considerare un campo di possibilita' costruttive come un aggregato chiuso di oggetti esistente in se'". Una matematica che pretende di eliminare dal momento della propria fondazione ogni pur necessario riferimento ad una qualsivoglia "filosofia" dello spazio e del tempo, per cercare di costruirsi letteralmente sul "vuoto"(6), richiama alla mente l'immagine kantiana della "colomba leggera, che portata dalle ali sull'aria, crede di poter volare senza resistenza nel vuoto"(7).

 

 

3.

 

Tanto per limitarci alla questione dei numeri reali, la loro attuale presentazione formalistica rinuncia in linea di principio alla ricerca di cosa possa essere considerato costituire un singolo numero reale, limitandosi ad individuare le proprieta' caratteristiche dell'intera loro totalita'. Ovvero, a fornire una "definizione" del campo di tutti i numeri reali, la quale, per il modo di procedere stesso, non puo' che individuare l'oggetto di proprio interesse soltanto a meno di isomorfismi(8). L'indicazione di tali proprieta', ancorche' interessante, lascia pero' irrisolto tutto il problema di cosa si debba intendere come numeri reali, visto che sembra difficile sostenere che questi, o l'intera loro totalita', costituiscano un dato immediato e primitivo della nostra percezione, come invece i numeri naturali: 1, 2, 3,... .

In effetti, e' piu' usuale introdurre dei precisi "modelli" della teoria, vale a dire, "esempi" di campi ordinati archimedei completi, i quali riconducono, con una serie di costruzioni successive, la nozione di numero reale a quella di numero numero naturale. In altre parole, si cerca di riportare la nozione di numero reale all'aritmetica, considerata questa come un momento abbastanza "certo" della fondazione. I numeri reali vengono cosi' ad esempio ad essere introdotti come "sezioni" (particolari coppie di sottoinsiemi) del campo dei numeri razionali (numeri che si possono esprimere come rapporti di numeri interi relativi); alternativamente, come classi di equivalenza di successioni "di Cauchy" di numeri razionali, etc..

A prescindere dal singolo modello usato, a seconda delle preferenze, si ha comunque a che fare con una costruzione che, se pur logicamente corretta, certamente e' lontana dalla genesi naturale del concetto che vuole definire, e pertanto e' da ritenersi, almeno dal punto di vista didattico, poco conveniente. Potremmo in una parola dire che tale procedimento e' soprattutto "not honest in structure"(9), visto che cancella accuratamente le tracce che hanno consentito di arrivare ad una certa concezione, ribaltando poi il punto di vista con il presentare arbitrariamente per la prima l'idea che era invece nata per ultima.

 

 

4.

 

Ad ulteriore breve chiarimento di quanto appena detto, osserviamo invece che la chiave per un'autentica comprensione della nozione di numero reale risiede piuttosto nell'operare una distinzione tra i due a spetti del numero come misura e del numero come quantita', in quanto pro venienti da categorie (forme) del pensiero da ritenersi primitive ed in dipendenti l'una dall'altra, e nel riconoscere senza pregiudizi ai nume ri reali la loro origine nell'intuizione geometrica. La distinzione di cui trattasi si puo' ritrovare adombrata nelle parole di Leibniz: "Mathesis universalis est scientia de quantitate in universum, seu de ratione aestimandi...scientia de mensurae repetitione seu de numero"(10). Da questo punto di vista allora, il principale difetto di un'introduzione di tipo aritmetico dei numeri reali sarebbe rappresentato da una "con fusione" tra le categorie di spazio e di tempo, indebita, ma soprattutto criptica, visto che un tentativo esplicito di "riduzione" dell'una al l'altra "forma" apparirebbe chiaramente destinato all'insuccesso. Del resto, ad una cattiva presentazione concettuale delle basi dei numeri reali si accompagna spesso, come e' ovvio in questo stato di cose, anche una cattiva presentazione di quelle dei numeri naturali, visto che si accosta di solito questo concetto a quello di numero cardinale (di un insieme finito), e non piuttosto, come dovrebbe invece piu' propriamente essere fatto, a quello di numero ordinale(11).

 

 

5.

 

Oltre al difetto basilare precedentemente indicato, l'attuale presentazione della teoria dei numeri reali mostra anche alcuni altri inestetismi, ai quali sommariamente accenniamo.

Prima di tutto, si e' condotti ad introdurre, sin dall'inizio della pratica matematica, un abuso di linguaggio, quando si dica ad esempio che l'insieme dei numeri razionali e' contenuto in quello dei numeri reali, visto che bisognerebbe fare invece differenza tra un numero razionale concepito ad esempio come una classe di equivalenza di coppie ordinate di numeri interi, e lo "stesso" numero razionale concepito pero' come una sezione di Dedekind del campo razionale. L'abitudine a considerare isomorfismi (non necessariamente suriettivi) come vere e proprie inclusioni e' molto diffusa, e soltanto pochi autori(12) la mettono in rilievo, nel linguaggio oltre che nei simboli. Del resto, "la distinzione tra "vecchi" e "nuovi" razionali sembra artificiale, ma e' essenziale"(13), sicche' il detto abuso di linguaggio non appare neppure troppo scusabile, ed e' da considerarsi in effetti rivelatore di una contraddizione insanabile tra intuizione e linguaggio naturale da un lato, e filosofia formalista dall'altro (allo stesso genere di abuso appartiene il parlare de "il" campo dei numeri reali, anziche' di "un" campo dei numeri reali).

Ancora, quando si introducano sbrigativamente i numeri reali, identificandoli ad esempio con la propria scrittura decimale, come se si trattasse di cosa ovvia, a parte il fatto che nella pratica didattica non si spiega allora di solito in modo chiaro fino a che punto ci sia corrispondenza biunivoca o no tra numeri e loro possibili scritture, si viene ad avere in questo caso come risultato la sgradevole circostanza che tanto un numero razionale quanto un numero irrazionale possano avere una scrittura sostanzialmente infinita, ovvero, lo spartiacque tra i due tipi di numero, che dovrebbe essere indissolubilmente legato alla distinzione tra finito ed infinito, non appare piu' cosi' evidente.

Infine, la presentazione formalista, non permettendo di riconoscere la differenza tra il numero inteso come quantita' ed il numero inteso come misura, rinuncia in fondo alla comprensione stessa di cosa si debba intendere con il concetto di numero. E la questione e' piu' sostanziale, e meno storico-linguistica, di quanto non potrebbe sembrare a prima vista, osservato che ad esempio e' usuale parlare dei "numeri" complessi, dopo averli introdotti mediante un'analoga costruzione formale, trascurando pero' una circostanza che li distingue nettamente come quantita' derivate e non piu' fondamentali, ovvero l'esistenza di automorfismi propri nella loro struttura. In altre parole, mentre due modelli di campi reali sono isomorfi mediante un unico isomorfismo (ogni "numero" e' "uguale" soltanto a se stesso!), la stessa cosa non vale per due modelli di campi complessi, visto che quanto meno, anche se si considerano soltanto isomorfismi che portano il campo reale dell'uno nel campo reale dell'altro, le due unita' immaginarie i e i resteranno sempre assolutamente indistinguibili l'una dall'altra(14).

 

 

6.

 

Quanto precedentemente esposto conduce alla convinzione che il successo del punto di vista formalista in matematica possa essere fatto risalire, piu' che alla presenza di condizioni scientificamente oggettive, a quella che potremmo definire soltanto come una "moda positivista"(15), e che le stesse esigenze di rigore della matematica del XIX secolo avrebbero potuto essere soddisfatte utilizzando delle differenti premesse. Del resto, chi volesse oggi (o avesse voluto in passato) tentare una presentazione "geometrica" della teoria dei numeri reali, non dovrebbe neanche fare troppi sforzi di immaginazione, visto che una definizione di numero reale si trova gia' bella e pronta negli stessi Elementi di Euclide; circostanza questa che era peraltro lecito aspettarsi, in accordo con il ruolo essenziale in ogni settore della matematica del numero come misura. A parte ovviamente la terminologia, una tale definizione si ritrova nel Libro V degli Elementi, Definizione V: un numero reale (positivo) viene ad essere, del tutto coerentemente con quella che consideriamo la genesi naturale del concetto, un classe di equivalenza di coppie ordinate di segmenti(16), dove, va da se', tutto il problema e' costituito dal decidere quand'e' che due coppie di segmenti siano da ritenersi equivalenti. Questo e' per l'appunto l'oggetto della richiamata definizione quinta, la quale si puo' considerare "parola per parola la stessa definizione di Weierstrass o di Dedekind"(17). Osserviamo esplicitamente pero' che, se si puo' sostenere che "i greci possedevano una nozione di numero nella stessa generalita' e chiarezza che abbiamo oggi"(18), e' anche vero che, ad una adeguata introduzione "ontologica" dei numeri reali, non si accompagna con la stessa chiarezza la comprensione della loro struttura, anche intesa questa soltanto in relazione alle operazioni fondamentali di somma e prodotto. Questa circostanza potrebbe essere forse ascritta, anziche' ad autentiche difficolta' di tipo concettuale, al semplice fatto che Euclide, con un modo di procedere del tutto "moderno"!, ha voluto nella sua teoria delle proporzioni fare forse "troppo" tutto insieme, considerando al tempo stesso il caso dei segmenti e quello di altre grandezze geometriche, tra l'altro lasciando i suoi successori nel dubbio relativamente a quali classi di grandezze poter applicare quella teoria(19). E chiudiamo questo paragrafo sottolineando che non costituisce impedimento alla presente interpretazione il fatto incontestabile che i greci non considerassero i "numeri irrazionali" come "numeri" alla stessa stregua degli altri, che' forse non avevano neppure troppo torto nell'operare una cosi' drastica separazione, con una consapevolezza intuitiva dei cosiddetti "paradossi dell'infinito".

 

 

7.

 

Pervenuti cosi' alla persuasione che, sulle orme di Euclide, possa essere data su basi geometriche una teoria dei numeri reali altrettanto rigorosa ed "up-to-date" che quella fornita su basi puramente aritmetiche, ecco che sembrerebbe risolto il problema dei fondamenti che ci si era posto. E' a questo punto che diventa pero' interessante fare un passo in piu', e riferirsi a Galileo, e ad alcune sue importanti osservazioni al riguardo. Infatti, verso i suoi ultimi anni(20), questi dedica un suo breve scritto al Libro V degli Elementi di Euclide(21), nel quale fornisce degli spunti di meditazione i quali, in quanto a metodologia della matematica, o, se si preferisce, della didattica della matematica, possono essere considerati del tutto attuali anche ai giorni nostri (o meglio, in particolar modo ai giorni nostri!), a riprova del fatto che "nella maggior parte dei casi la scienza moderna e' piu' opaca, e molto piu' illusoria, della scienza del Cinquecento e del Seicento"(22). E va osservato subito prima di andare avanti che cio' avviene pur non essendo Galileo particolarmente interessato a speculazioni di matematica pura(23), ma che forse e' proprio per questo che le sue riflessioni in materia di metodologia sono tuttora fresche e convincenti.

Prima di tutto, e' evidente come Galileo ritenga che la questione relativa al quando due coppie di grandezze debbano considerarsi tra loro proporzionali, pur appartenendo alla sfera di quei concetti che sono da ritenersi alla base di atti comuni ad ogni umano intelletto ("avendo il lettore concepito gia' nell'intelletto che cosa sia la proporzione fra due grandezze"; "mi sforzero' di secondare con la difinizione delle proporzioni il concetto universale degli uomini anche ineruditi nella geometria"), questa non possa essere considerata come un dato primitivo, e sia necessario di discuterla con attenzione. Inoltre, che la definizione proposta da Euclide, ancorche' logicamente ineccepibile, non soddisfi completamente le esigenze di chiarezza inerenti alla fonda mentalita' della questione. Tutti e tre i protagonisti del dialogo galileiano confessano in effetti tale insoddisfazione: Sagredo ("Questa e' una certa ambiguita' che io o' sempre avuta nella mente intorno alla quinta difinizione del quinto libro d'Euclide"; "non restai con quella chiarezza che avrei desiderato nella predetta proposizione"); Simplicio ("Non ebbi mai il piu' duro ostacolo di questo in quella poca di geometria che io studiai gia' nelle scuole da giovanetto"); e infine lo stesso Salviati ("Io poi confesso che per qualche anno dopo aver istudiato il V libro d'Euclide, restai involto con la mente nella stessa caligine").

Galileo applica allora alla definizione euclidea di proporzione un criterio che dovrebbe essere tenuto sempre presente (non solo in matematica), e che si puo' riassumere nella necessita' di operare una distinzione tra asserzioni le quali, pur logicamente equivalenti, si presentino in una sequenza temporale naturale in momenti diversi della riflessione, tanto da potersi considerare l'una come una derivazione dell'altra, ma non viceversa:

 

"Per dare una difinizione delle suddette grandezze proporzionali la quale produca nell'animo del lettore qualche concetto aggiustato alla natura di esse grandezze proporzionali, dovremmo prendere una delle loro passioni, ma pero' la piu' facile di tutte e quella per appunto che si stimi la piu' intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche",

 

e proseguendo:

 

"Cosi' fece Euclide stesso in molt'altri luoghi. Sovvengavi che egli non disse, il cerchio essere una figura piana, dentro la quale segandosi due rette, il rettangolo sotto le parti dell'una sia sempre uguale al rettangolo sotto le parti dell'altra; ovvero, dentro la quale tutti i quadrilateri abbiano gli angoli opposti uguali a due retti. Quand'anche cosi' avesse detto, sarebbero state buone difinizioni: ma mentre egli sapeva un'altra passione del cerchio, piu' intelligibile della precedente e piu' facile da formarsene concetto, chi non s'accorge che egli fece assai meglio a mettere avanti quella piu' chiara e piu' evidente come difinizione, per cavar poi da essa quell'altre piu' recondite e dimostrarle come conclusioni?".

 

Naturalmente, la possibilita' di operare una siffatta distinzione non appartiene all'ambito proprio della matematica, almeno in una sua accezione ristretta, ma e' comunque, specializzazioni a parte, una delle possibilita' a disposizione del pensiero umano.

La situazione e' perfettamente illustrata da Enriques(24):

 

"Il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel suo desiderio di compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere che questa logica dell'intelletto postula un giudizio superiore della ragione, che lo porta al di la' delle stesse matematiche ... Distinguere una logica della ragione che supera la semplice logica dell'intelletto non e' comune fra i matematici. Il loro amore per cio' che e' chiaro e preciso li induce volentieri a concentrare tutta l'attenzione sui criterii meccanici del rigore formale della deduzione o della definizione ... La discussione sulle definizioni mostra in molti casi quale senso logico piu' largo venga ad assumere il giudizio razionale".

 

 

8.

 

Galileo si pone insomma, in relazione alla definizione V del Libro V degli Elementi di Euclide, sostanzialmente le stesse domande che piu' tardi si porra' in analoga circostanza il De Morgan(25):

 

"- che diritto ha Euclide, o chiunque altro, di aspettarsi che la precedente proposizione, del tutto prolissa e farraginosa, possa essere accettata dal principiante come una definizione di una relazione la cui percezione e' uno dei piu' comuni atti del suo pensiero...?;

 

- dopo aver risposto chiaramente alla questione precedente, come puo' essere mai usata la definizione di proporzione, ovvero come e' possibile paragonare ciascuno degli infiniti multipli di un termine della proporzione con ciascuno dei multipli dell'altro?".

 

Ma mentre De Morgan cerco' soprattutto di chiarire, e quindi di giustificare, l'approccio euclideo alla questione, Galileo assai arditamente, come del resto suo costume, osa proporre una sua propria definizione di uguali proporzioni diversa da quella dell'antico maestro(26).

Non si puo' qui entrare in particolare dettaglio su come Galileo "ritenne di correggere dal punto di vista didattico-intuitivo la definizione V"(27), questione peraltro gia' ben discussa nella relazione di Giusti in questi stessi Atti contenuta. Quello che e' importante sottolineare e' il fatto che egli fu spinto ad operare tale correzione, e comprendere quindi le motivazioni che lo ispirarono.

Vogliamo cio' nondimeno aggiungere qualche commento alla definizione proposta da Galileo. Intanto osservare come oggettivamente questa possa apparire ai matematici moderni alquanto oscura, sicche' tale mancanza di chiarezza nella parte propositiva conduce ad esempio ad un giudizio complessivamente negativo di quest'opera galileiana da parte di L. Lombardo Radice e B. Segre(28), sottovalutando pero' l'interesse filosofico e metodologico del dialogo:

 

"La mentalita' squisitamente operativa di Galileo si manifesta, per quel che riguarda la teoria delle proporzioni, in senso positivo nel "compasso", in senso negativo nel Principio di giornata aggiunta (giornata quinta)...E' una importante controprova del fatto che Galileo non ama le questioni critiche sottili, non ha la mentalita' del matematico puro. Dal punto di vista della matematica teorica, infatti, una delle cose piu' belle e' la definizione euclidea di proporzionalita' ... La definizione generale delle grandezze proporzionali proposta da Salviati e' quanto mai insoddisfacente ... In verita', non ci sembra neppure una definizione, perche' in definitiva presuppone noto quel che si deve definire (implicito in quel "simile" non altrimenti definito)".

 

 

9.

 

A proposito dell'accusa di "circolarita'" contenuta in questo giudizio, che si riferisce alla definizione proposta da Galileo, almeno nel caso (in realta' provvisorio) in cui dice "quattro grandezze esser proporzionali fra loro quando l'eccesso della prima sopra la seconda (qualunque egli sia) sara' simile all'eccesso della terza sopra la quarta", si puo' aggiungere ancora qualcosa. Detti ad esempio i quattro termini della proporzione nell'ordine A, B, C, D, sembra infatti soltanto a prima vista tautologica l'asserzione secondo la quale si deve intendere valida l'uguaglianza A:B = C:D nel caso che sia (A-B) simile a B cosi' come (C-D) lo e' a D (questo naturalmente nell'ipotesi A > B , che si deve accompagnare allora all'analoga C > D ). Invero, interpretato quel "simile" oggetto di dubbio, come la validita' della nuova proporzione (A-B):B = (C-D):D , e successivamente la validita' di questa come di quella della proporzione (A-2B):B = (C-2D):D , etc. (non appena il primo termine della prima coppia diventi minore del secondo, Galileo ci avverte subito di considerare la proporzione in ordine inverso!), appare chiaro allora come la definizione di Galileo, ancorche' non dettagliatamente articolata, possa considerarsi affine al cosiddetto procedimento euclideo delle divisioni successive(29).

E' probabilmente da questa stessa chiave di lettura che origina il seguente commento di Enriques al dialogo di Galileo(30), di ben diverso tenore da quello dianzi richiamato di L. Lombardo Radice e B. Segre:

 

"Siffatte considerazioni non possono ritenersi estranee al pensiero di Eudosso e di Euclide, i quali per certo hanno cominciato col misurare le grandezze come noi lo facciamo; e soltanto per le esigenze della formulazione rigorosa della dottrina furono condotti ad una definizione astratta, che si allontana alquanto dai procedimenti piu' naturali. Galileo rappresenta dunque, di fronte ad Euclide, un pensiero meno critico e raffinato; e tuttavia il ricorso storico e' interessante, per la comprensione dei progressi dello spirito umano; un'epoca creatrice come quella a cui appartiene Galileo deve riprendere i concetti risalendo al loro significato originario e risuscitandone la virtu' di sviluppo, al di la' della forma piu' perfetta imposta dal rigore logico".

 

L'osservazione di Enriques, che fa il paio con il seguente monito dello stesso autore(31):

 

"Pei valori dello spirito come per quelli materiali dell'economia, sussiste una legge di degradazione: non si puo' goderne pacificamente il possesso ereditario, se non si rinnovino ricreandoli nel proprio sforzo di intenderli e di superarli",

 

presenta in realta' una validita' del tutto universale, tanto piu' se ci si riferisce al momento didattico, al fine di evitare un apprendimento acritico e superficiale.

 

10.

 

In conclusione del nostro discorso, possiamo dire che, dopo essere partiti respingendo le costruzioni aritmetiche dei numeri reali, e riproponendo quindi nella fondazione della matematica(32) la centralita' della geometria euclidea (quale unica descrivente la categoria "spazio" dell'intelletto umano(33)), e' merito di Galileo se ci accorgiamo che non e' sufficiente essersi collocati nell'ambito della geometria euclidea per ottenere automaticamente una presentazione la piu' naturale possibile dei vari concetti della matematica, in quanto anche nell'ambito di questa occorrera' prestare ogni attenzione ai dettagli fondazionali, ed esaminare con cura ogni possibilita' di definizione, indagando la conformita' di queste ai processi mentali naturali dell'individuo. Del resto, l'esempio di Galileo, qui come altrove, ci spinge anche a maggiore autonomia e coraggio, nel tentare ogni volta diverse strade, quando non si sia perfettamente convinti della validita' delle opinioni comunemente accettate dalla cultura del momento(34).

Nel caso particolare dei numeri reali, vengono cosi' alla mente altre possibili definizioni, diverse e da quella di Euclide e da quella di Galileo. Accenniamo soltanto a questo proposito alla possibilita' di appoggiarsi per la definizione di uguale proporzione alla geometria del piano ed al "teorema" di Talete. Con un siffatto approccio "statico", contrapposto a quello che si potrebbe dire "dinamico" sia di Euclide che di Galileo (almeno per la parte che abbiamo qui presa in esame), si esce dalla geometria della retta (che potrebbe del resto essere considerata come facente parte di un successivo momento di astrazione), per porre la questione dei fondamenti in relazione alle proprieta' intuitive della geometria del piano (direttamente legate ai processi mentali attraverso il meccanismo della visione).

Si ritrova cosi', come conseguenza abbastanza inaspettata, almeno per chi sia cresciuto nutrito dei "dogmi" del pensiero scientifico moderno, che la teoria delle parallele ed il famoso V postulato di Euclide, piu' che l'aritmetica e la logica, giocano forse un ruolo importante anche nella genesi naturale del concetto di numero come misura.

 

 

NOTE

 

(1) Qualche risultato parziale e' contenuto in "Sui numeri come risultato delle operazioni logiche del contare e del misurare", Pubblicazione interna del Dipartimento di Matematica dell'Universita' degli Studi di Perugia, a cura di L. Guerra, F. Pambianco, E. Platoni, A.A. 1983/84; "Tendenze "monofisite" nei fondamenti della matematica", Incontri sulla Matematica N. 3, Quaderni della Mathesis, Ed. Armando, Bologna, 1986.

 

(2) Da C. Mangione, Logica e problema dei fondamenti nella seconda meta' dell'800; sta in L. Geymonat, Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico, Ed. Garzanti, 1971, vol VI, p. 369.

 

(3) Da C.B. Boyer, Storia della Matematica, I.S.E.D.I., Milano, 1976, p. 642.

 

(4) Loc. cit. nella nota (2), p. 359.

 

(5) Il Continuo, Indagini critiche sui fondamenti dell'Analisi, Ed. Bibliopolis, Napoli, 1977, Introduzione; Filosofia della matematica e delle scienze naturali, Ed. Boringhieri, Torino, 1967, p. 61.

 

(6) Si pensi al ruolo fondante dell'insieme vuoto in certe assiomatiche della teoria degli insiemi!

 

(7) Citato da F. Enriques, Le matematiche nella storia e nella cultura, Lezioni pubblicate per cura di A. Frajese, Ed. Zanichelli, Bologna, 1938, p. 148.

 

(8) "Una scienza non puo', nella individuazione e definizione del proprio campo di indagine, andare oltre una rappresentazione isomorfa di esso. In particolare, ogni scienza rimane del tutto indifferente circa l'"essenza" dei propri oggetti" (H. Weyl, seconda loc. cit. nella nota (5), p. 31). Si faccia pero' anche riferimento alla citazione di cui alla successiva nota (24), e si osservi che tutto sta nell'intendersi sul significato della parola "scienza"!

 

(9) Tanto per usare un'espressione contenuta in una lettera del 1916 di A. Einstein a P. Ehrenfest (da A. Pais, Subtle is the Lord... , Oxford University Press, 1982, p. 261). Il commento di Einstein si riferisce alla presentazione della teoria della relativita' generale elaborata da D. Hilbert, che fu proprio uno dei principali soste nitori della filosofia formalista: "I don't like Hilbert's pre sentation... unnecessarily special ... unnecessarily complicated ... not honest in structure (vision of the Ubermensch by means of camouflaging the methods)...".

 

(10) Citato da F. Enriques, loc. cit. nella nota (7), p. 140.

 

(11) Cfr. ad esempio H. Weyl, loc. cit. nella nota (8), p. 44 e p. 41: "Circa il rapporto in cui il numero si trova con lo spazio e il tempo, si puo' osservare che il tempo, come forma della pura consapevolezza, costituisce un presupposto essenziale, e non accidentale, delle operazioni mentali su cui si fonda il significato degli enunciati numerici"; "occorrono speciali considerazioni per assicurare il fatto fondamentale che il risultato del contare e' indipendente dall'ordine".

 

(12) Tra questi, ad esempio, G. Scorza Dragoni, Elementi di Analisi Matematica, 3 voll., Ed. Cedam, Padova, 1963.

 

(13) Da J.H. Conway, On numbers and games, Academic Press, 1976, p. 4.

 

(14) Si veda a questo proposito anche quanto osservato da J.H. Conway, loc. cit. nella nota precedente, p. 3. Nella affascinante definizione di Conway dei numeri come giochi, che fornisce un "grande" campo di numeri (in termini tecnici, un campo il cui sostegno e' una classe propria, e non un insieme, secondo la distinzione di Von Neumann), ci si imbatte in tutti i numeri reali, tutti i numeri ordinali, e tanti altri "numeri" incredibili, quali "infinitesimi attuali" del tipo gli inversi degli ordinali infiniti, e le loro radici quadrate, o cubiche, etc.; ma non appare mai un numero che elevato al quadrato sia uguale a 1 : "In the system we shall describe, every number has its own unique name and properties...But the number i = sqr(-1) will not arise in the same way, since there is no property enjoyed by i which is not shared by -i".

 

(15) Per usare un'espressione che compare in I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici; in "Critica e crescita della conoscenza", Campi del Sapere, Ed. Feltrinelli, Milano, 1984, p. 240. Molto si potrebbe dire sulla presenza di una tale moda anche nella fisica, a proposito ad esempio del successo di teorie quali quella della relativita' ristretta, etc.. In effetti, la premessa ideologica per la loro affermazione (naturalmente una volta concepita una teoria fisica come un frammento di informazione sulla costituzione della natura, e non come una serie di ricette efficaci) e' identica a quella che si puo' constatare essere presente nella filosofia della matematica nella seconda meta' dello scorso secolo, e non andrebbero da un punto di vista storiografico trascurati gli appoggi che le nuove interpretazioni della matematica e della fisica si sono reciprocamente forniti (con espressione significativa, diciamo lo "spirito di Gottinga"). Si puo' dire in poche parole che essa con sista nel rifiuto del riconoscimento della centralita' delle categorie del pensiero umano nella costruzione della conoscenza, che vengono addirittura considerate come "quella massa di pregiudizi non analizzati che i kantiani chiamano intuizione"(secondo un'espressione di B. Russell, citata nella loc. cit. nella nota (2), p. 369). Nel rimandare per qualche altro commento in proposito alla successiva nota (33), terminiamo qui soltanto con l'osservazione che si comincia ad avvertire in questo ultimo scorcio del secolo una tendenza inversa (si vedano ad esempio gli Atti del Convegno su "Physical Interpretations of Relativity Theory", British Society for the Philosophy of Science, Londra, 1988, e tra questi in particolare la relazione di F. Winterberg, ed il recente testo di F. Selleri, La causalita' impossibile, Ed. Jaca Book, 1988).

 

(16) Questi vanno naturalmente pensati a meno di un punto di applicazione, il che suggerisce l'opportunita' di introdurre esplicitamente sin dall'inizio la nozione di "vettore". Questa conduce poi a sua volta subito al concetto di numero negativo, in relazione alla presenza dei due versi della retta, definito questo quindi come un "rapporto" tra due vettori contraversi (si osservi anche che, sotto questo punto di vista, l'operazione fondamentale non e' tanto il prodotto di un vettore per un numero reale, quanto piuttosto il rapporto tra vettori, che produce un numero). Si sostiene cosi' che anche la nozione di numero negativo debba essere piu' opportunamente considerata come propria della concezione del numero come misura, e legata quindi all'intuizione geometrica, anziche' a considerazioni di natura aritmetica (costruzioni simboliche del risultato di operazioni non ammissibili), o peggio, come pure si fa spesso, attraverso l'introduzione del concetto di "debito"!

 

(17) Secondo un'opinione di M. Simon, condivisa peraltro anche da H.G. Zeuthen, citata da T. L. Heath, The thirteen books of Euclid's Elements, Dover Publications, 1956, Vol. II, p. 124.

 

(18) Loc. cit. nella nota precedente, stessa pagina.

 

(19) Basta tenere presente la lunga controversia sul tema se si potesse applicare la teoria euclidea anche ad angoli curvilinei, quale ad esempio l'angolo di contingenza. Osserviamo peraltro che un'analisi attenta della questione individuerebbe in realta' soltanto i seg menti come enti concettuali ai quali poter applicare le prescritte necessarie proprieta' (se e' vero che Euclide evita accuratamente di parlare di sottomultipli, gia' soltanto il ricorso all'operazione di multiplo, intesa come un'operazione tra "grandezze" che fornisca un risultato univoco, forza la detta conclusione). In particolare, soltanto al segmento sembra potersi applicare la seguente considerazione di Husserl: "permette uno smembramento tale che i pezzi ottenuti appartengono per loro stessa definizione a una specie non diversa da quella determinata dalla totalita' indivisa" (citato da H. Weyl, loc. cit. nella nota (8), p. 64).

 

(20) Ma trattasi probabilmente di questione che Galileo "sentiva" gia' da molto tempo: "avendo io un poco di dubbio gia' antiquato intorno a questa difinizione" (vedi la successiva nota (21)).

 

(21) Si tratta di un Principio di giornata aggiunta ai "Discorsi e Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze", (Giornata quinta), Sopra le definizioni delle proporzioni d'Euclide. Ci riferiremo qui sempre all'edizione Boringhieri, Torino, 1958.

 

(22) Secondo un'opinione di P.K. Feyerabend, Contro il metodo, Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Campi del sapere, Ed. Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 53.

 

(23) Per usare le parole dello stesso Galileo in una lettera al Granduca di Toscana: "Quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei oltre al nome di Matematico, che S.A. ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato piu' anni in filosofia, che mesi in matematica pura" (citazione dalla loc. cit. nella successiva nota (28); per la questione in oggetto si veda anche la citazione relativa alla detta nota).

 

(24) Loc. cit. nella nota (7), p. 148.

 

(25) Citazione dalla loc. cit. nella nota (17), p. 122.

 

(26) Si potrebbe pensare che proprio l'atteggiamento di eccessiva "vene razione" verso il contenuto e l'impostazione degli Elementi di Euclide sia stato responsabile di un cosi' grave ritardo nella comprensione del problema costituito dalle cosiddette "geometrie non-euclidee", la cui "soluzione" non sembra rivestire particolari difficolta' ne' di ordine matematico, ne' di ordine filosofico, a meno di fraintendimenti della questione (vedi anche la successiva nota (33)). In effetti, la stessa attenzione posta fin dall'antichita' nei confronti del V postulato di Euclide sembra originare soltanto dalla particolare forma con cui questo fu proposto da Euclide, il quale anche nella scelta del postulato in oggetto (al posto di altri equivalenti piu' "semplici" e "naturali") appare suscettibile delle stesse critiche che qui vengono in relazione alla teoria delle proporzioni avanzate (sullo stesso argomento vedi anche la nota (19)).

 

(27) Da A. Frajese, Attraverso la storia della matematica, Ed. Veschi, Roma, 1962, p. 158.

 

(28) In "Galileo e la matematica", Saggi su Galileo Galilei, Comitato Nazionale per le manifestazioni celebrative del IV centenario della nascita di Galileo Galilei, Ed. Barbera, Firenze, 1967.

 

(29) Per illustrare brevemente la questione nel caso geometrico, analoga ma non identica a quella relativa al caso aritmetico, si osservi che, mantenendo le notazioni e le ipotesi del testo, se si vuol misurare il segmento A rispetto al segmento B , bisognera' intanto cominciare a vedere quante volte B "sta" in A , ovvero scrivere A = k1 B + R1 , ove k1 e' un numero naturale, e con R1 o uguale a "zero" (il segmento degenere), o R1 < A . Si confrontera' poi B con R1 , scrivendo B = k2 R1 + R2 , ove ancora il resto R2 o e' nullo, o R2 < R1 , e cosi' di seguito R1 = k3 R2 + R3 , etc.. Il procedimento ammette termine se e soltanto se il numero reale A/B e' un numero razionale, ovvero, A e' commensurabile rispetto a B , ed in ogni caso associa univocamente al numero reale A/B (maggiore o uguale dell'unita') la successione di numeri naturali k1 k2 k3 ... (eventualmente "troncata"). La costruzione equivale alla determinazione per ogni siffatto numero reale di uno sviluppo in "frazione continua" del tipo:

A/B = k1 + 1/(k2 + 1/(k3 + 1/(...))).

Naturalmente, la circostanza essenziale e' che i resti delle successive divisioni diventano "sempre piu' piccoli"...

 

(30) Citato da A. Frajese, loc. cit. nella nota (27), p. 159.

 

(31) Loc. cit. nella nota (7), p. 153.

 

(32) Intesa questa rigorosamente, almeno ad un livello iniziale, come una "investigazione delle leggi dell'intelletto", ad imitazione del titolo della celebre opera di G. Boole (1854). E diciamo soltanto ad un livello iniziale, perche' e' giusto, e bello!, che la matematica si trasformi successivamente nello "studio di tutte le possi bilita' di pensiero di una mente infinita" (secondo un'espressione di G. Takeuti, citata da R. Rucker, Infinity and the Mind, The Science and Philosophy of the Infinite, Birkhauser, 1982, Prefazione). Questa trasformazione non deve far dimenticare pero', tanto piu', come si e' spesso qui ripetuto, in un momento didattico, l'ordine naturale con il quale i vari concetti si edificano l'uno sull'altro.

 

(33) Si e' sostenuto spesso con eccessiva facilita' che la "scoperta" delle geometrie non-euclidee avrebbe arrecato un "colpo mortale" alla filosofia kantiana dello spazio; H. Meschkowski sostiene ad esempio che sia "impossibile all'uomo moderno di restare fermo alla concezione spaziale di Platone e di Kant" (Mutamenti nel pensiero matematico, Ed. Boringhieri, Torino, 1973, p. 87). A parte le considerazioni gia' in altri punti di questa relazione accennate, val forse la pena di riportare per intero la confutazione di questa opinione effettuata da G. Simmel nel 1904 (citazione da P. Martinetti, Kant, Ed. Feltrinelli, 1968, p. 47): "Gli assiomi geometrici sono cosi' poco necessari logicamente come la legge causale; si possono pensare spazi, e quindi geometrie, in cui valgono tutt'altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la geometria non euclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente necessari per la nostra esperienza, perche' essi solamente la costituiscono. Helmholtz erro' quindi completamente nel considerare la possibilita' di rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgono gli assiomi euclidei come una confutazione del valore universale e necessario di questi, da Kant affermato. Infatti l'apriorita' kantiana significa solo universalita' e necessita' per il mondo della nostra esperienza, una validita' non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le geometrie anti-euclidee varrebbero a confutare l'apriorita' dei nostri assiomi solo quando qualcuno fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudo-sferico, o a riunire le sue sensazioni in una forma di spazio nel quale non valesse l'assioma delle parallele".

 

(34) Anche se "con lo spirito del tempo non e' lecito scherzare: esso e' una religione, o meglio ancora una confessione, un credo, a carattere completamente irrazionale, ma con l'ingrata proprieta' di volersi affermare quale criterio assoluto di verita', e pretende di avere per se' tutta la razionalita'" (C.G. Jung, Realta' dell'anima, Saggi, Ed. Boringhieri, Torino, 1970, p. 13).

 

 

(*) Dipartimento di Matematica, Universita' degli Studi, Perugia.

 

Acquasparta, Centro Studi sul Pensiero Scientifico, Quarto Seminario di Studi su "Momenti della cultura matematica tra '500 e '600", 1988.