[Una polemica scientifica: l'asserzione "Il pensiero matematico è nato in Grecia e si è sviluppato in Occidente", è un "dogma" eurocentrico, o è invece un decente "teorema" di Storia?! - meglio, se si aggiunge un "principalmente" dopo il termine "sviluppato"]

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L'articolo all'origine della polemica:

Una disciplina nata nella Grecia antica?

Un libro mette in crisi questa visione

Sorpresa, la matematica

non è una nostra invenzione

di PIERGIORGIO ODIFREDDI

L'aritmetica, la geometria, la trigonometria, l'algebra

e il calcolo infinitesimale erano già noti ai babilonesi

Il teorema di Pitagora porta certamente il nome sbagliato,

poiché gli egizi lo conoscevano dal 2000 a.C.*

I testi di storia della filosofia abbondano, ma solo Bertrand Russell ha avuto il pudore di intitolare il suo Storia della filosofia occidentale, quasi tutti gli altri autori, consciamente o no, dimenticano invece l'aggettivo qualificativo. Sembrerebbe solo una innocente svista, ma dietro di essa si nasconde un tacito dogma eurocentrico: che il pensiero sia nato in Grecia e si sia sviluppato in 0ccidente. E, potremmo aggiungere, che abbia raggiunto il suo apogeo in Germania: ad esempio, Martin Heidegger arrivò a dichiarare, in Solo un Dio ci può salvare, che "quando i francesi incominciano a pensare, sono costretti a farlo in tedesco". Di qui l'abitudine dei filosofl continentali, sconcertante e fastidiosa per chiunque creda all'autosufficienza delle varie lingue, di infarcire i propri scritti di vocaboli greci e tedeschi.

Naturalmente la matematica è diversa, se non altro perché una formula rimane sempre la stessa in qualunque modo la si legga: greco, tedesco o francese. O forse no, visto che una delle Massime e riflessioni di Goethe stabilisce che "I matematici sono [tanto per cambiare] come i francesi: non appena si dica loro qaulcosa la traducono nel proprio linguaggio, e subito appare diversa".

Certamente la matematica non è diversa dalla filosofia per quanto riguarda le sue storie occidentali, che dimenticano anch'esse l'aggettivo qualificativo, e professano un dogma analogo al precedente: il pensiero matematico è nato in Grecia e si è sviluppato in Occidente.

Al più, si aggiunge, gli arabi l'hanno custodito nei secoli bui, per riconsegnarlo intatto agli Europei quando la luce è ritornata. Naturalmente tutti sanno che un po' di matematica la conoscevano già babilonesi ed egizi: ma si tratta, come disse il grande storico Morris Kline, di "scarabocchi-di bambini che stanno imparando a scrivere". O forse no, come argomenta appassionatamente George Geverghese Joseph in C'era una volta un numero (Il Saggiatore 2000), un libro che fa piazza pulita dei nostri pregiudizi eurocentrici, e dimostra come la vera storia della matematica sia ben altro da quella che ci raccontano coloro che, troppo spesso, non sono né storici né matematici.

Per convincersene basta riandare brevemente ai concetti fondamentali della matematica, quelli che tutti impariamo a scuola, e chiedersi chi li ha scoperti o inventati per primo.

Le cifre cosiddette "arabe" che usiamo per scrivere i numeri sono in realtà indiane, così come lo zero, che non era noto né ai greci né ai romani, ma è stato scoperto indipendentemente dai maya. Tra parentesi, gli indiani indicavano sia lo zero che le variabili con la parola sunya, "vuoto", che si traduce con sifr in arabo: da questa derivano direttamente "cifra" e indirettamente "zero" (attraverso "zefiro").

Le cifre "arabe", introdotte in Europa da Fibonacci da Pisa nel 1202, vi rimasero a lungo avversate: ancora alla fine del secolo XV un'ordinanza del sindaco di Francoforte tentò di impedirne l'uso ufficiale.

I babilonesi furono i primi ad assegnare valori diversi a una cifra a seconda della sua posizione: il cosiddetto sistema posizionale, che fu poi ritrovato da cinesi, indiani e maya. I numeri negativi furono introdotti, per registrare debiti, da indiani e cinesi: questi ultimi indicavano i numeri positivi in rosso, e quelli negativi in nero, con un'associazione cromatica che si è tramandata (invertita) fino ai nostri giorni. L'uso della virgola per separare le cifre decimali da quelle intere risale invece agli arabi, seicento anni prima che Simon Stevin e John Napier la [sic] reinventassero.

Si può dire che tutte le grandi aree della matematica abbiano avuto origine e sviluppi sostanziali in paesi extraeuropei: l'aritmetica, la geometria, la trigonometria, l'algebra, addirittura i calcoli combinatorio e infinitesimale! La famosa formula di risoluzione dell'equazione di secondo grado, che tutti abbiamo imparato, era già nota ai babilonesi. Idem per il teorema di Pitagora, che certamente porta il nome sbagliato: gli egizi lo conoscevano fin dal 2000 a.C., e fu poi riscoperto indipendentemente da indiani e cinesi.

Il seno di un angolo fu definito dagli indiani, e si chiama così per un errore: la parola araba per "mezzacorda", che traduceva correttamente l'originale indiano, ha le stesse consonanti della parola "seno", e confuse un traduttore inesperto, forse distratto dalla sinuosa curva del grafico**. Altre due parole che derivano dall'arabo sono algebra e algoritmo: la seconda è la traslitterazione del nome di Al Khuwarizmi, bibliotecario del califfato di Bagdad, che scrisse un libro su al-jabr, la scienza della "ricostruzione". Nel calcolo combinatorio, il famoso triangolo di Pascal fu pubblicato in India verso il 1000 e in Cina nel 1303, con tanto di figure.

Quanto al calcolo infinitesimale, trecento anni prima di Newton e di Leibniz il matematico indiano Madhava aveva già ottenuto le loro famose serie infinite che calcolano le funzioni trigonometriche e lo sviluppo di pi greco.***

Rivisitare i contributi occidentali alla luce della storiografia extraeuropea, sia pure per svelare l'intricata rete di influenze delle varie scuole fra di loro e con la nostra, significa però persistere ancora in un atteggiamento eurocentrico: una vera decostruzione può passare soltanto attraverso il riconoscimento della specificità delle varie tradizioni. Ad esempio, gli egizi moltiplicavano i numeri secondo un sistema binario simile a quello usato oggi dal computer, e i babilonesi adottarono un sistema sessagesimale del quale rimane una traccia nella divisione dell'ora in sessanta minuti, e dei minuti in sessanta secondi. Mentre il numero più grande per il quale i greci avevano un nome era la miriade (diecimila), in India i jain ne avevano uno per la distanza coperta in sei mesi da un dio che viaggia alla velocità di un milione di chilometri in un batter d'occhio (circa un anno-luce), e distinguevano addirittura fra vari tipi di infinito. I cinesi, infine, svilupparono un gusto particolare per aspetti numerologici quali i quadrati magici, che sono ancor oggi usati a fini astrologici.

La vera storia della matematica extraeuropea non si limita dunque soltanto a correggere date e nomi associati a nozioni e risultati che sono poi stati riscoperti dalla scuola occidentale, ma permette anche di porne i contributi in prospettiva. In particolare, di comprendere meglio le dicotomie tra matematica deduttiva e computazionale da un lato, e tra matematica pura e applicata dall'altro. Se l'influsso greco ha infatti enfatizzato soprattutto dimostrazioni e teorie, la seconda metà del Novecento ha invece sostanzialmente rivalutato calcoli e applicazioni: la matematica moderna si scopre così meno vicina alla tradizione greca che non a quella extraeuropea.

Forse i tempi sono dunque maturi per permettere finalmente la scrittura di una Storia della matematica degna di questo nome, senza rimozioni e finzioni. Una storia dalla quale la matematica possa emergere per quella che è: l'unica impresa culturale senza confini storici o geografici, che abbraccia l'intera vita dell'umanità. Per dirla con Vedanga Jyotisa, un poeta indiano del 500 a.C. citato da Gheverghese nell'epigrafe del suo libro: "Come la cresta del pavone, come gli occhiali del cobra, così la matematica è la corona della conoscenza".

 

[la Repubblica, 21.7.2000]

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Il primo commento:

Mi spiace doverlo dire, anche perché dovrò naturalmente perdere tempo a motivare meglio la seguente opinione, scrivere ad Odifreddi, leggere il libro citato (che a prima vista mi è apparso alquanto mediocre, senza nulla che non fosse già più che noto), etc., ma ritengo la tesi generale esposta in questo articolo del tutto errata.

1 - "La matematica non è diversa dalla filosofia per quanto riguarda le sue storie occidentali, che dimenticano anch'esse l'aggettivo qualificativo e professano un dogma analogo al precedente: il pensiero matematico è nato in Grecia e si è sviluppato in Occidente".

Nessun dogma, l'asserzione messa sotto accusa da Odifreddi è invece ben corretta, purché se ne capiscano senso e limiti (per esempio, corrisponde molto più a verità l'opinione di Kline poco dopo riportata).

2 - "Forse i tempi sono maturi etc."

Una sciocchezza, ispirata più da un pregiudizio ecumenico ("l'unica impresa culturale senza confini storici o geografici, che abbraccia l'intera vita dell'umanità"), che da un'attenta ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato la nascita e l'evoluzione della matematica, ovviamente a partire da quel certo livello in poi che è indispensabile per distinguere chi sa calcolare il numero delle scarpe che possiede, da chi si pone il problema della possibile incommensurabilità di due segmenti.

Tanto per anticipare il dibattito, Odifreddi sembra trascurare il fatto che sia la matematica indiana che quella araba sono assai posteriori per dire ad Euclide, e che entrambe debbono tutto, nella loro origine e metodologia, alla matematica greca, diffusasi nelle regioni orientali dopo le conquiste di Alessandro Magno; inoltre, che le matematiche egiziana, babilonese, etc., come l'astronomia di tutti questi popoli, non sono neanche lontanamente paragonabili a ciò che lo "spirito greco" seppe trarre da banali problemi di misurazione della terra (e successiva tassazione, in realtà l'unico scopo dell'intera operazione), o di "calendario".

Agosto 2000, Umberto Bartocci

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Un commento più esteso:

Caro Odifreddi,

perdonami queste relativamente poche pagine, che mi sembrano necessarie ad integrazione del mio rapido messaggio di venerdi' scorso [perdonami naturalmente le poche, e non le pagine, in quanto sono sostanzialmente inadeguate all'importanza e all'estensione dell'argomento (da un docente di Storia delle Matematiche si poteva pretendere qualcosa di meglio)]. Il fatto e' che ho dovuto, e debbo ancora soddisfare, esigenze contrapposte. Da un lato qui a Pg ci sono ancora attivi in questo periodo di "ferie" studenti e docenti a causa del "corso estivo", e sono stato coinvolto in una discussione sul tuo articolo perche' vi si sosteneva la tesi esattamente contraria a quella che ho sempre patrocinato; dall'altro, sono impegnato a pieno tempo con varie cose urgenti da portare a termine entro la fine del mese [ti spedisco come esempio in attachment una versione preliminare di un articolo sul caso Majorana, sia perche' potresti trovarlo interessante in se', sia perche' ha qualcosa a che fare, alla lontana, con il tuo lavoro su Von Neumann - per inciso, ho passato la mattinata di ieri in compagnia di un giornalista di "Panorama", che mi ha detto di averlo trovato scritto in modo veramente esemplare, e che ne ha parlato a diversi suoi colleghi, i quali pure sono stati del medesimo avviso; sapevo in effetti che sarebbe stato cosi' quando te ne ho chiesto il permesso di pubblicazione, grazie per la "promozione" che ne e' conseguita per "Episteme"!], e non vorrei proprio dovermi cimentare nella stesura di un nuovo "lavoro", seppure non originale (ma dovrei comunque cercare riscontri, fonti, etc., mentre mi limitero' a procedere in quel che segue alquanto a memoria e alla svelta), sulla questione che attualmente ci "divide".

I punti su cui volevo attirare la tua attenzione, sinteticamente, sono i seguenti.

1 - In quanto al "metodo", la mia ferma reazione potrebbe sembrare di segno contrario al principio cartesiano che sempre mi ispira, secondo il quale "per esaminare la verita' si deve, una volta nella vita, porre tutto in dubbio, quanto e' possibile". In effetti, non e' che io non voglia porre in discussione il "dogma" che tu contesti, ma gia' l'ho fatto per mio conto (oltre a rifarlo ogni anno per gli studenti, il principio di Cartesio ha una validità "personale"), nel corso di uno studio piuttosto lungo ed approfondito, con la conseguenza di avere raggiunto quella che considero appunto una "verita'", ovviamente fino a prova contraria.

2 - In quanto a "forma", vengo ogni tanto rimproverato recentemente per essere troppo "duro", ma e' ovvio che questa mia "trascuratezza" si accompagna all'aspettativa di essere trattato secondo il principio del diritto romano, "eadem cum diligentia quam in suis rebus". Come dire che io non mi offendo se qualcuno mi dice che scrivo "sciocchezze" su Colombo, su Majorana, sulla relativita', etc., sono solo sempre curioso di conoscere quali sono gli argomenti sui quali si fonda un tale giudizio, e mi dispiace soltanto se non ne vengo fatto partecipe in misura esauriente.

3 - Venendo adesso alle questioni "tecniche", la confutazione del "dogma eurocentrico" potrebbe avvenire solo se un esperto riuscisse a rinvenire, tra i prodotti delle "altre" matematiche, almeno una delle due seguenti cose:

3i - Una qualche forma di "consapevolezza" della necessita' dell'irrazionale in geometria, qualcosa per intenderci di paragonabile alla definizione V del Libro V degli "Elementi" di Euclide. L'esistenza di coppie di segmenti tra loro incommensurabili, e quindi della "non esattezza" del procedimento di misura, e' immediata conseguenza della cosiddetta "razionalizzazione della geometria", frutto probabilmente della discussione di questioni come i paradossi di Zenone, etc., e a me non risulta che ci si sia mai neanche minimamente "avvicinati" in altre civilta' (ne' mi sembra, ma ripeto a prima vista, che il libro che tu tanto lodi dica qualcosa di NUOVO in proposito, vi ho visto finora solo cose abbastanza risapute). A questo proposito ti diro' anzi che, secondo il Boyer (il cui libro, tutto sommato buono, indico d'abitudine come primo testo di riferimento per il mio corso), addirittura "il concetto generale di frazione sembra sia rimasto un enigma per gli egiziani".

3ii - Una qualsiasi forma di "sistema del mondo", con discussioni sulle traiettorie dei corpi celesti, le loro reciproche distanze, etc. (anche qui, non mi risulta nulla del genere in nessuna delle "altre" astronomie, che si limitavano a studi solari per problemi di calendario; tra l'altro, si potrebbe pensare che questi non sarebbero mai stati effettuati se l'asse terrestre non fosse inclinato! - altro episodio da tener presente, la scienza cinese era cosi' "scadente" anche in campo astronomico, che i cinesi dovettero far ricorso all'aiuto dei gesuiti alla fine del secolo XVI, non sto a cercare date esatte, per mettere a posto conti che non tornavano piu').

4 - I greci hanno gia' un sistema del mondo, e una pratica dell'irrazionale sin dal V-IV secolo A.C., e NON hanno preso queste cose da nessuna delle civilta' vicine, che si limitavano per esempio a calcolare l'area di un quadrangolo come prodotto delle medie aritmetiche delle lunghezze dei lati opposti, una formula che non funziona neanche nel caso dei parallelogrammi (regola egiziana contenuta in un atto rinvenuto ad Edfu, risalente a un periodo di circa 1500 anni dopo il papiro Rhind, che e' ca. del 1700 A.C. - e pure la matematica contenuta in questo famoso papiro non e' un gran che, con i suoi semplici problemi aritmetici e geometrici - a riprova che la matematica egiziana non aveva fatto poi troppi progressi neppure in un cosi' lungo lasso di tempo!). Il fatto e' che serviva in pratica soltanto arrivare comunque a un "numero", in base al quale poi operare la tassazione (che era proporzionale all'estensione di terreno sfruttabile posseduta): come il valore dell'area fosse stato ottenuto poco in fondo importava. Potrei scrivere a lungo su tali questioni, che conducono a conferire qualche forma di validita' all'asserzione di Kline che tu critichi, e a quella del gia' citato Boyer: "Che i greci abbiano preso a prestito dagli egiziani qualche nozione di matematica elementare e' probabile ... ma essi hanno certamente esagerato la misura del loro debito". Molto peggiori, nella loro maggiore "generalita'" e perentorieta', sarebbero invece i seguenti pareri (che non provengono certo da gente troppo "per bene"): secondo l'economista James Mill (1817), il padre del piu' famoso John Stuart Mill, nella cosmologia induista "tutto e' imprecisione e buio, incoerenza contraddizione e confusione ... L'imprudente propensione di una mente rozza a tirare a indovinare dove non conosce non si e' mai manifestata in una forma piu' fantastica e insensata ... espressione dello spirito di un'eta' rozza e ignorante … La celebrata ricchezza della lingua e' di fatto, un difetto e una deformita'"; gli fece eco qualche anno più tardi (1835) Thomas Macaulay, uno dei consulenti del Consiglio Supremo dell'India, asserendo che "Un solo scaffale di una buona biblioteca europea vale l'intera letteratura indigena dell'India..."!

5 - Nel discutere il possibile valore autonomo delle matematiche "vicine", non bisogna dimenticare che una prima diffusione della matematica greca nel mondo (in Oriente) avvenne dopo le campagne militari di Alessandro Magno, e una seconda durante il periodo in cui il cristianesimo si affermava sempre piu' "politicamente", e rifiutava il sapere greco in quanto "pagano", arrivando anche a forme di esplicita persecuzione (episodi della morte di Ipazia, della distruzione della biblioteca del Serapeion, etc.). E' noto che dopo l'editto di Giustiniano del 529 i residui depositari dell'antica sapienza si dispersero in Oriente, dove se ne perdono le tracce, salvo a ritrovarne le "idee" (da qui, quanto si narra in ordine alla magnificenza della reggia del re persiano Cosroe, "il benedetto", uno dei Sassanidi, contemporaneo di Giustiniano). Entrambi gli eventi sono origine secondo alcuni (e tra questi gia' il famoso matematico arabo al-Biruni) del successivo fiorire della matematica indiana, e tramite questa forse anche di quella cinese. Tanto per dire del grado di esattezza sia pure solo delle nozioni storiche di tali civilta', che tendono spesso a retrocedere indebitamente nel tempo loro eventi passati (anche di fantastiche migliaia di anni prima di Cristo), sulla datazione del "Chou Pei" si ha un'incertezza che va addirittura dal 1200 A.C. al I secolo A.C., mentre il famoso "Chui-chang Suan-shu", di cui ogni tanto commento qualche passo agli studenti perche' si rendano conto del "livello" dei problemi aritmetici trattati (piu' interessanti comunque di quelli del papiro Rhind), e' del III secolo A.C.. Il "debito" culturale degli arabi nei confronti dei greci e' invece ovvio, e riconosciuto (la stessa "Aljabr" non fu altro che il risultato di un incarico dato da al-Mamun ad al-Khuwarizmi, affinche' redigesse un'opera esprimente in modo piu' accessibile alcune regole per la soluzione di equazioni algebriche di II grado che si potevano estrarre dagli "Elementi" di Euclide - come dire che un procedimento "algebrico" era comunque sempre interpretato, e giustificato, da una "dimostrazione" geometrica, secondo il "canone" fissato dalla matematica greca).

6 - Chi sostiene che la trigonometria e' "figlia" della matematica indiana, non dovrebbe dimenticare che il "Surya Siddhanta" (Sistema del Sole) e' per esempio del V secolo D.C., e di manifesta origine ellenistica (le nozioni astronomiche che provengono dai greci sono mescolate con elementi dell'antico folclore indiano). Inoltre, che mentre in Tolomeo si mette sistematicamente in relazione una corda con l'intero angolo al centro ad essa sotteso, il famoso "seno" non fa altro che passare alle rispettive meta', mezza corda e mezzo angolo, ma che anche questa "evoluzione" avvenne con ogni probabilita' in Alessandria in epoca post-tolemaica (secondo il parere del famoso storico Tannery). Ancora Boyer fa osservare che la celebrata opera di Aryabhata, fine del V secolo, e' una semplice raccolta espositiva, un terzo della quale e' dedicato alla matematica, con regole di misurazione "delle quali circa la meta' sono sbagliate". Sottolineo che siamo 8 secoli dopo Euclide!

7 - Un giudizio generale che mi sembra adeguato e' sempre quello di Boyer, che osserva come la matematica non-greca presenti sempre un miscuglio di risultati accurati e risultati approssimativi, di metodi sottili e di procedimenti grossolani. Ma, soprattutto, si tratta in ogni caso di matematiche in cui, a parte quanto detto in 3i (e tralasciando comunque sempre la questione "astronomica"), non si conosce alcun esempio di teorema o dimostrazione formale, e non si deduce quasi mai il risultato particolare da quello generale (i sostenitori del valore dell'induzione nel passaggio dal "piccolo" al "grande" dovrebbero meditare su casi come quello della formula contenuta nell'atto di Edfu). Anche questi sono "valori" per cui la matematica greca va considerata assolutamente diversa da TUTTE le altre, e quindi l'unica autentica origine della "vera" matematica, intesa come la disciplina che, nel trattare problemi di calcolo e di misura, si eleva da cio' che e' motivato unicamente da naturali necessita' di sopravvivenza sul nostro inospitale difficile pianeta (ritengo questa, con Sartre, la causa prima dell'origine del "male"), per collocarsi nel campo della pura speculazione intellettuale. La matematica, "definita" in tale senso, e' prima di tutto quindi "investigazione delle leggi dell'intelletto", e la riflessione intorno ad essa e' un elemento fondamentale per il raggiungimento della consapevolezza filosofica della differenza tra i tre ambiti del "reale", del "pensato" e del "parlato", che ancora oggi molti sembrano non possedere appieno!

8 - Ti riporto ancora qualche pensiero di Boyer, che esplicitamente "[mette] in guardia contro numerosi libri in cui i contributi indiani sono grossolanamente esagerati", e cita Sarkar, Datta, Singh, con i loro evidenti "limiti e distorsioni" - sottolineerei pure che non a caso anche Gheverghese e' un indiano... Non c'e' nessuno spazio per una nuova "vera storia della matematica" (almeno nel senso dianzi discusso: delle nuove verita' rispetto a quelle gia' contenute nella "vulgata" corrente penso le si potrebbero invece aggiungere, ma riguarderebbero allora la storia moderna, e non quella delle origini!), come e' scritto nella copertina del libro in esame (Gheverghese potrebbe in effetti non esserne responsabile). Quella che ho finora insegnato, sulle piste dei miei predecessori, e' una storia assolutamente "degna di questo nome", e tiene conto di tutta la problematica relativa ai contributi di altre civilta', senza alcuna "rimozione e finzione".

9 - Naturalmente, si potrebbe fare invece una nuova "storia della vera matematica", se si ritenesse di dover cambiare la "definizione" a cui ho accennato nel precedente punto N. 7, ed intendere che la "vera matematica" e' altra cosa da quella comunemente intesa fino ad oggi, secondo appunto la "tradizione greca", ma non mi sembra che questo cambiamento di definizione fosse l'obiettivo al quale miravano il libro di Gheverghese, e la presentazione che tu ne hai fatto.

10 - Quanto ho precedentemente asserito e' naturalmente "falsificabile", nel senso che uno potrebbe sempre rinvenire, sepolti tra i resti di altre antiche civilta', testi paragonabili agli "Elementi" di Euclide, o all'"Almagesto" di Tolomeo, ma non mi e' parso che tu volessi affermare cio' nell'articolo in contestazione. Non ho letto tutto il libro in parola (ne' per la verita' ho voglia di farlo, almeno in questo periodo), pero' immagino che tu non avresti taciuto siffatti sensazionali recenti "ritrovamenti", i soli che potrebbero modificare quel certo modo di concepire la storia della matematica che ho fin qui difeso (e che condivido con molti, per una volta tanto mi trovo dalla parte della "maggioranza" - l'evento mi fa venire i brividi, e per la verita' anche qualche dubbio!). Ancora una piccola osservazione, molti dei pareri a cui ho fatto riferimento sono "antichi", ma in questo campo il tempo non conta, non c'e' bisogno di un continuo "aggiornamento", almeno finche' la quantita' di materiale pervenutoci dall'antichita' non subisce modificazioni. Nuovi contributi intelligenti, che aprono davvero nuovi "spiragli" interpretativi (in mancanza di nuovi testi, provengono da "deduzioni", fondate su indizi trascurati, o ritenuti troppo inconsistenti, da altri commentatori), sono per esempio quelli di Lucio Russo, con la sua "rivoluzione dimenticata", convincentissimo lavoro, ma siamo distanti anni-luce da Gheverghese...

Conclusione - Tenuto conto di tutto cio', sinceramente, mi sembra che sia piuttosto il lavoro di cui stiamo discutendo con valutazioni opposte ad essere ispirato da "pregiudizi". Un tempo c'erano quelli ridicoli della "razza", oggi ci sono quelli ugualmente ridicoli al contrario, e il nostro autore sembra appunto del tutto in regola con il "politically correct" corrente (e' la prima applicazione che ne conosco nel campo della "scienza"). Scommetterei che si possono trovare ulteriori conferme di tale sua "predisposizione" nelle altre opere da lui scritte: "Women at Work" e "Multicultural Mathematics", che non oserei affrontare (e' forse sponsorizzato dall'ONU o dall'UNESCO?!, scherzo, so bene, come sai anche tu, che esistono persone che si rendono "schiave" di "fantasie" politiche, religiose, ideologiche, etc., senza essere pagate per questo). Ma se non si puo' sostenere la superiorita' di una razza sull'altra, o di un sesso sull'altro (la prima e' tra l'altro proibita pure per legge, la "famigerata" legge Mancino del 1993, sotto i cui strali sarebbero caduti anche libri come il "Primato morale e civile degli italiani" del Gioberti), ritengo sia ancora oggi lecito invece confrontare "culture", e i loro "prodotti", ovvero i risultati conseguiti dalle diverse civilta' in campi specifici della conoscenza, o dell'etica. Non e' che i Greci fossero "migliori" di altri, semplicemente e' capitato loro di fare nel campo della matematica (e direi anche della "scienza" in generale) quello che nessuno aveva mai fatto prima, e che non e' mai stato fatto altrove "senza di loro", almeno per cio' che sappiamo della storia dell'umanita' fino ad oggi. Aggiungerei perfino che non si tratta neppure di circostanza troppo "strana", dal momento che la nascita della matematica, nel senso che ho cercato dianzi di descrivere, era un evento alquanto IMPROBABILE...

In definitiva, l'interpretazione storiografica che tu contesti mi sembra invece ancora degna di ogni rispetto (e per di piu', come detto, "falsificabile"), e non gia' frutto di mero presuntuoso pregiudizio, o distrazione. Al suo posto tu, sulla scia del libro che hai recensito, ne proponi un'altra con argomenti che sono gia' da lungo tempo conosciuti, valutati e rifiutati, ritengo "onestamente".

Ora ti lascio finalmente in pace, scusami ancora per l'intromissione e la "foga", ma io considero la nostra attivita' di docenti universitari come una continua "lotta" per il conseguimento e la difesa di "verita'", ancorche' parziali e possibilmente provvisorie, sicche' se hai altre argomentazioni da opporre alle precedenti per attenuare la mia attuale opinione su questo tema, o addirittura sostituirla in blocco, saro' lieto di esaminarle.

Con i consueti molto cordiali saluti, il tuo UB

Perugia, 14.8.2000

P.S. Devo ammettere comunque che nell'affrontare la precedente discussione il mio grado di dipendenza dalle "fonti" e' assai elevato (non sono in grado di andare a verificare da me testi arabi, indiani e cinesi), e che non posso dirmi quindi in nessun modo un "esperto" in prima persona dell'argomento, ma solo un suo "studioso"...

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Ulteriori note di UB all'articolo origine della polemica:

* da Boyer: "Viene spesso affermato che gli antichi egiziani fossero a conoscenza del teorema di Pitagora, ma nei papiri che ci sono pervenuti non si riscontra alcun cenno di tale teorema."

(Le fonti di Boyer sono gli studi di van der Waerden, Vogel e Neugebauer).

** Che il traduttore medievale avesse già pratica della geometria analitica, e di concetti quali grafici e funzioni, al punto da associare la parola "seno" a una linea sinuosa, è a dir poco azzardato...

*** Questo è in effetti l'unico punto che ho trovato finora nel libro in oggetto che potrebbe costituire quell'aumento di informazione (di materiale storico) capace di modificare il punto di vista comunemente accettato fino ad oggi. Gheverghese parla di una "matematica del Kerala", di cui ancora nulla sarebbe filtrato nei comuni testi occidentali di storia della matematica. Bene, stiamo a vedere, aspettiamo di poter finalmente conoscere con esattezza chi sono gli ignorati Galileo, Cartesio, Newton,… e di leggere le loro opere (sperando che i colleghi capaci di farlo si dedichino all'impresa di pubblicare delle edizioni critiche), se son rose… Onestamente, però, debbo confessare che scommetterei sin da ora che quanto riferito da Gheverghese sia piuttosto "esagerato", e che pure il suo possa essere inquadrato in quell'atteggiamento che Boyer (vedi precedente citazione) rimproverava ai ricercatori indiani (qui si tratterebbe di "scoperte" di un certo Whish, rimaste inosservate per piu' di un secolo, riprese da Rajagopal e collaboratori - si ammette che c'è "qualche dubbio ... in merito alla datazione", p. 284).

Per evitare fraintendimenti, voglio anche precisare che non è che consideri il cervello di un "genio europeo" come Cartesio superiore in ogni caso e in linea di principio a quello di un "genio" indiano, solo che non dimentico come la "scienza moderna" sia stata frutto di un lungo lavoro di un gran numero di persone, che ha tratto origine e motivazioni dalle sinergie tra diversi oppositori della "cattolicità" (templari, ebrei, intellettuali "illuministi" - in senso lato, naturalmente, ma anche tenuto conto del loro riferimento alla "luce" come simbolo sin dal XV secolo: in un'incisione fiamminga si vede un personaggio con una luce alle spalle e nel centro di essa la scritta AGLA, che si riferisce a una società, più o meno "riservata", di "amici della stampa"), e che mi sembra quindi improbabile (proprio perché credo poco a una storia della matematica, e della scienza, tutta costruita su "motivazioni interne", pura curiosità intellettuale, un problema che tira l'altro) che una siffatta impresa culturale abbia potuto aver luogo anche in un'altra parte della Terra, indipendentemente, ma quasi nello stesso lasso di tempo, senza altrettante cause (per esempio la rivoluzione astronomica) e partecipazione collettiva. Ipotizzare un'eventuale influenza alla rovescia sarebbe proprio fare della fantastoria, ma ovviamente sempre fino a prova contraria…