"Liberazione" della donna (etero-diretta!)

e "capitalismo flessibile"...

 

Sono sempre più numerose le denunce - provenienti dalla parte più sensibile del mondo intellettuale - di "guasti" nel corpo della nostra società che rischiano di diventare irreversibili, se di essi non si prenda chiara e coraggiosa consapevolezza, e non si tenti di porvi immediato rimedio, individuandone e contrastandone le "cause" (vedi per esempio il punto N. 4 in questa stessa rubrica).

Presentiamo allora qui all'attenzione dei lettori due articoli apparsi su fonti che non possono essere imputate di "nostalgicità marginale", quali il "Corriere della Sera". Il primo dei due scritti analizza le pretese onnivore del "capitalismo flessibile" (non a caso la critica proviene da uno "straniero", in Italia certe cose contro-corrente non si ha il coraggio di dirle), mentre il secondo, seppure opera di una donna, prende atto di una grave (soprattutto a medio e lungo termine, per i nostri figli) situazione, che e' ovviamente sotto gli occhi di tutti, ma che si preferisce solitamente ignorare.

L'autore di queste righe ha gia' avuto modo di manifestare in piu' riprese (vedi per esempio la terminata rubrica "Dissensi e Consensi") la sua opinione sulle autentiche radici del movimento di "liberazione" femminile, e gli sembra allora opportuna la citazione delle seguenti parole (riportate naturalmente con indignazione), a riprova che non tutti sono cosi' "ciechi", o succubi...

> E il sociologo Ahmad Al Magdoud scrive: "L'Occidente ha già capito che tutti i soldi spesi per distruggere la coscienza delle donne musulmane vanno perduti. Le donne reclutate dall'Occidente non possono influenzare le donne dei paesi arabi... I loro diritti di eguaglianza, il loro diritto di prostituirsi, di spogliarsi, di svelare le loro grazie..., queste richieste finanziate dagli Usa cadranno su orecchie sorde...".

(17 febbraio 2002, Fiamma Nirenstein, su "la Repubblica" ?)

 

UB. marzo 2002

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(dal Corriere della Sera, 20.2.2000)

Richard Sennett: il capitalismo flessibile ci distruggera'

"Non ci restera' che rifugiarci nei romanzi per ritrovare un senso"

Manera Livia

 

S.O.S. Il sociologo inglese lancia l'allarme: i nuovi modelli americani rischiano di annientare la nostra vita interiore e sociale Richard Sennett: il capitalismo flessibile ci distruggera' "Non ci restera' che rifugiarci nei romanzi per ritrovare un senso" Fortuna che per Salman Rusdhie l'io moderno e' "un edificio pericolante che costruiamo con frammenti di dogmi, traumi infantili, articoli di giornale, osservazioni casuali, vecchi film, piccole vittorie, gente odiata e gente amata". Perche' se le cose nella societa' del Ventiduesimo Secolo andranno come prevede il sociologo Richard Sennett, che studia gli effetti sull'uomo del capitalismo flessibile, la nostra vita interiore sara' presto alla deriva e non ci restera' che rifugiarci nei romanzi di Rushdie, per cercare un senso a un'esistenza che e' solo un collage di rapporti superficiali e improvvisazioni. Perche' il fatto e' che siamo spacciati, dice Sennett, a Milano a presentare il suo libro L'uomo flessibile (Feltrinelli), se accettiamo il nuovo modello di capitalismo che ci giunge dall'America senza metterlo in discussione. Incarichi a breve termine, spostamenti frequenti, orari flessibili, nuove tecnologie che permettono di lavorare a casa: "Tutto questo offre solo un'illusione di liberta'. Nei fatti significa essere sempre disponibili, perdere il percorso lineare di una carriera, rinunciare ai rapporti di solidarieta' che si creano lavorando insieme. E quando i vecchi valori di lealta' a un'impresa, di fedelta' e di coesione spariscono dal lavoro, cessano anche di essere un modello per la famiglia. Come spiegheremo ai nostri figli l'importanza di quei valori, se quello che mostriamo loro e' un attaccamento superficiale agli impegni e alle persone?". Anche se enunciata con i toni pacati di un intellettuale cosmopolita che e' americano ma di origine russa, ha un incarico alla New York University ma preferisce insegnare alla London School of Economics, somiglia a Nabokov ma ha il cuore piu' vicino a Isaiah Berlin (a cui ha dedicato il suo libro), l'analisi di questo signore che ha tenuto una conferenza affollatissima alla Fondazione Feltrinelli di Milano e' a dire poco preoccupante. "Il capitalismo flessibile cambia il modo di vivere delle persone agendo in maniera distruttiva sulla struttura narrativa della vita. Questa, dicono, e' l'economia postmoderna. Ma il postmoderno avvantaggia solo le elites. Le classi medie ne vengono schiacciate". Per Sennett, l'ironia del lavoro flessibile e' che e' invasivo: "Le ricerche che abbiamo fatto indicano che le donne inserite in questo sistema nutrono gravi sensi di colpa perche' lavorano sempre. Inoltre a casa si perdono quelle occasioni che si creano casualmente ogni giorno in ufficio, e ci si riduce a essere solo delle funzioni. Questo e' un capitalismo che ancora piu' che in passato chiede alle persone di vivere per il lavoro. In Inghilterra le persone dicono che e' necessario per riscattare le persone dalla dipendenza. Ma io penso che la dipendenza e i legami professionali siano fondamentali per la natura umana". Soluzioni Sennett non ne offre: il suo compito, dice, e' di indurci a riflettere sul pericolo di sconfiggere i vecchi mali del capitalismo creandone di nuovi. "E soprattutto vorrei fosse chiaro che capitalismo flessibile non e' sinonimo di neoliberismo, come vuole un cliche' corrente: perche' qui - e prendo l'esempio della Microsoft, il cui padrone , Bill Gates, e' l'epitome del magnate flessibile - l'obbiettivo non e' la libera concorrenza, ma il monopolio e il minor grado di responsabilita' possibile verso i lavoratori. Lo sa come nascono i nuovi prodotti Microsoft? Il nucleo duro dell'azienda decide quale prodotto occorre, e ne da' delle indicazioni sommarie a delle squadre, il cui compito e' di realizzarlo. La squadra che vince viene ricompensata riccamente. E quelle che perdono non ricevono nulla e vengono dissolte. Con le conseguenze che si puo' immaginare sulla vita delle persone". Livia Manera a * Il libro: "L'uomo flessibile" di Richard Sennett e' pubblicato da Feltrinelli, pagine 168; lire 38.000

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(dal Corriere della Sera, 7.3.02)

Trentenni a scuola di infedeltà. Con le donne in cattedra

Bossi Fedrigotti Isabella

Centocinquanta anni fa, ai tempi della Lettera scarlatta, di Madame Bovary o di Anna Karenina, una donna infedele era così insopportabilmente scandalosa da non meritare che la morte. E, per venire incontro ai lettori, sia Emma che Anna si uccidono, mentre Hester Prynne, l'eroina di Hawthorne, sembra riuscire a salvarsi dal patibolo soltanto perché, in cambio, muore di vergogna il suo amante. Ma ancora agli inizi del secolo appena passato il destino delle adultere - letterariamente parlando, ma si sa che la letteratura si ispira alla vita - non pare molto migliorato, tant'è vero che nel Berretto a sonagli, per esempio, Pirandello conduce il marito ingannato a far passare per pazza la moglie che gli mette le corna. Due, massimo tre generazioni dopo, il panorama sembra molto cambiato. Lontana dalle gogne del passato, non più indicata a dito e pubblicamente svergognata, l'infedele oggi rischia addirittura di acquistare qualche attrattiva all'occhio disincantato della società: esattamente come il maschio traditore che, almeno di primo acchito, risulta più interessante del corretto buon uomo di un solo amore. La mancanza di fedeltà è, insomma, depenalizzata, ridotta a peccato veniale se non, addirittura, sentita come un piccolo, eccitante valore aggiunto. Se ne rendono ben conto le ragazze che scrivono alla rubrica Così è la vita su www.corriere.it lamentando che l'interesse dei maschi si volge principalmente a quelle più facili, non complicate, non ostinate su qualche principio, ai cattivi soggetti insomma, e non a quelle morigerate e per bene, tanto per usare il linguaggio di nonne e zie. Né, così sembra, il passato delle loro fidanzate inquieta più di tanto i ragazzi che, anzi, paiono preferirle un po' leggere per sentirsi più liberi, meno obbligati o, magari, per potere un domani rendere, a cuor leggero, pan per focaccia. Hanno trent'anni più o meno i nuovi infedeli - perché a venti ancora sognano l'amore per sempre mentre a quaranta e oltre restano legati alle regole classiche - e quando si sposano tendono a non resistere molto più di cinque anni. Ma non è soltanto un effetto di coppia. La sindrome si estende anche ad altri campi come l'amicizia, il partito, il sindacato e il lavoro, che si tradiscono con leggerezza sconosciuta un tempo. In linea con le leggi del consumismo, in nome del quale si getta via ciò che è appena incrinato senza tentare di aggiustarlo, si buttano i matrimoni non più gratificanti al cento per cento, non ci si affatica a tenere in piedi un rapporto sentimentale - o professionale - diventato un po' difficile e si passa ad altro. Laddove, per quel che riguarda il lavoro, la richiesta, ormai pressante, di flessibilità, di adattabilità, di rinuncia all'antica e rassicurante idea del posto fisso non può che favorire l'incostanza di questa generazione. La mancanza di ideali, che i trentenni sono i primi a riconoscere, potrebbe fare il resto: che me ne importa dell'azienda, del gruppo, del team professionale? Basta che non anneghi io, basta che sopravviva io. E il deciso rifiuto del decoro borghese, una volta solidissima cintura capace di tenere insieme la società, spazzata via, chissà, dalla tv, dallo spettacolo della politica o, anche, dai diktat dell'economia, ha del tutto svuotato concetti come onore, coerenza, parola data e, appunto, fedeltà. Ma la variabile che maggiormente ha contribuito a trasformare i trentenni in una generazione di potenziali traditori cronici sembra essere la nuova condizione, la n uova vita delle donne. Da quando lavorano - e in questa fascia d'età in maggioranza lavorano - non solo conoscono più uomini procurandosi occasioni di incontri e di confronti, un tempo limitate, come da barzelletta, alle visite dell'idraulico e del l'uomo del gas, ma, valorizzate in ufficio o in azienda, non sopportano più di essere svalutate e sottomesse in casa, magari lasciate sole nelle incombenze domestiche. E poiché guadagnano, possono permettersi di separarsi anche alla prima voglia di scappatella. Volendo o non volendo, maestre d'infedeltà stanno dunque diventando le donne: nuova paglia sul fuoco di chi non ha mai cessato di considerarle principio di ogni male o, come nel Medioevo, diabolici esseri senz'anima. Con l'aggravante di essersi forse mangiate nel frattempo anche quella degli uomini. Isabella Bossi Fedrigotti ibossi@corriere.it