Libri da leggere-meditare:

GIULIETTO CHIESA - "LA GUERRA INFINITA" (Ed. Feltrinelli, 2002)

Cito qualcosa dalla presentazione, e dall'interno (pp. 15-20), ma prima segnalo anche - "analogo", seppure proveniente da opposta parte politica: il fenomeno è interessante... - "LA PAURA E L'ARROGANZA" (Ed. Laterza), un volume curato da Franco Cardini, di imminente uscita in libreria (credo il 9 settembre)*.

L'11 settembre 2001 ha avuto inizio una guerra che non ha precedenti o paragoni nella storia dell'uomo. Terza guerra mondiate o prima del nuovo millennio? Questo conflitto segna l'ultima fase della globalizzazione americana [FINALMENTE IL NOME GIUSTO]. Una guerra planetaria che non è lotta per il controllo delle risorse e neppure un'operazione per l'estensione del controllo geopolitico; siamo entrati nell'era dell'Impero e in palio c'è il dominio mondiale [IN EFFETTI SEMBRA PROPRIO DI STARE A VIVERE UN EPISODIO DELLA SAGA DI "GUERRE STELLARI"]. Dopo l'Afghanistan sarà la volta dell'Iraq, poi degli altri stati "canaglia", poi dei "nemici" che via via verranno individuati in ogni parte del mondo: stati, organizzazioni, dirigenti politici riottosi e singoli oppositori. [...]

Giulietto Chiesa è uno dei più noti giornalisti italiani. Corrispondente per "La Stampa" da Mosca per vari anni, ha sempre unito nelle sue inchieste una forte tensione civile a un rigoroso scrupolo documentario. [...]

Questo è l'Impero che sta nascendo, con le stigmate della guerra. Ne fanno parte i veri potenti della Terra, non importa dove vivano, visto che hanno tutti gli stessi standard, s'incontrano tutti negli stessi posti che diventano sempre più esclusivi, fanno studiare i loro figli nelle stesse università, si divertono insieme negli stessi luoghi che si vanno sempre più trasformando, non importa in quale continente si trovino, in quale città o regione, in zone sempre più blindate, isolate, circondate da alte mura, guardate da speciali vigilanze. I potenti della super società globale non sono, necessariamente, i governanti dei singoli stati del pianeta. Dipende. Nemmeno tutti gli uomini di governo dei paesi oggi riconosciuti come democratici hanno il diritto automatico di entrare nell'élite globale in cui non necessariamente si accede per elezione a suffragio universale [PER QUELLO CHE OGGI QUESTE ELEZIONI POSSANO VALERE, TUTTE NELLE MANI DI "ESPERTI PUBBLICITARI"]. Anzi, è piuttosto vero il contrario. Vi si accede, di regola, per criteri diametralmente opposti a quelli democratici. [...]

Ecco perché non possiamo definire Bush come l'Imperatore: è ancora l'espressione di una transitorietà. Probabilmente non è nemmeno l'uomo più potente di questo Impero, anche se le contingenze della storia hanno fatto sì che toccassero a lui le funzioni di rappresentanza malgrado sia un personaggio del tutto improbabile. Può darsi che ci sia già, al si sopra di lui, un gruppo di uomini che non abbiamo mai visto tutti insieme, ma di cui abbiamo potuto scorgere qualcuno, qualche volta, da qualche parte. Uomini che nessuno di noi ha mai eletto e il cui potere è così grande che è difficile persino immaginarlo. [...]

Ecco dunque il decalogo che ha creato l'Impero e che ci ha portato alla guerra, anzi alla Superguerra [BATTEZZATA UMORISTICAMENTE "GIUSTIZIA INFINITA": È OVVIO CHE CHIESA SI INTERROGHI NEL SEGUITO, DA PERSONA INTELLIGENTE, SUI PROBABILI PIÙ AUTENTICI RETROSCENA DI CERTI NOTI EVENTI, APPLICANDO L'ANTICO PRINCIPIO DEL "CUI PRODEST"]:

1) Fai in modo che la tua moneta sia l'insostituibile moneta di riserva per tutti, o quasi tutti, gli altri paesi.

2) Non tollerare alcun controllo esterno sulla tua creazione di moneta. Potrai finanziare i tuoi deficit commerciali con il resto del mondo, rendendoli praticamente illimitati.

3) Definisci la tua politica monetaria in base, esclusivamente, ai tuoi interessi nazionali e mantieni gli altri paesi in condizioni di dipendenza dalla tua politica monetaria.

4) Imponi un sistema internazionale di prestiti a tassi d'interesse variabili espressi nella tua valuta. I paesi debitori in crisi dovranno ripagarti di più proprio quando la loro capacità di pagare è minore. Li avrai in pugno.

5) Mantieni nelle tue mani le leve per determinare, all'occorrenza, situazioni di crisi o d'incertezza in altre aree del mondo. Stroncherai sul nascere ogni eventuale aspirante competitore.

6) Imponi con ogni mezzo la massima competizione tra esportatori del resto del mondo. Avrai un afflusso d'importazioni a prezzi decrescenti rispetto a quelli delle tue esportazioni.

7) Intrattieni i migliori rapporti con le élite e le classi medie degli altri paesi, a prescindere dalle loro credenziali democratiche, perché esse sono decisive per sostenere la tu architettura. E' essenziale che le élite e le masse di quei paesi non si uniscano intorno a idee di sviluppo "nazionale" o comunque ostili al tuo dominio e alla tua egemonia [TROVO QUESTO UN PUNTO ESSENZIALE, CHE SPIEGA PER ESEMPIO BENE LA "GUERRA UMANITARIA" ALLA SERBIA].

8) Promuovi con ogni mezzo una totale mobilità dei capitali, insieme alla libertà d'investimento internazionale. In questo modo i capitali, nelle condizioni sopra delineate, verranno al tuo indirizzo perché è il luogo migliore, il più sicuro e redditizio. Quanto agli investimenti esteri, assicurati che le tue corporation possano liberamente soccorrere le élite nazionali nella gestione delle loro proprietà finanziarie, dell'educazione privata e pubblica, della tutela della salute, dei sistemi pensionistici ecc.

9) Promuovi con ogni mezzo il libero commercio. Esso varrà per tutti, cioè per gli altri, che non potranno sottrarvisi, mentre tu lo applicherai se e quando ti converrà.

10) Per controllare che tutto si realizzi ordinatamente, senza conflitti troppo evidenti, ti occorre una struttura di istituzioni sovranazionali che all'apparenza si presentino come riunioni di membri a pari diritto [ANCHE QUESTO PUNTO VA BEN MEDITATO, PER EVITARE LA TRAPPOLA DI DOVER RISPETTARE LE DECISIONI DI "ORGANISMI DEMOCRATICI" DI FATTO DEL TUTTO AL DI SOPRA E AL DI FUORI DEI "POPOLI" DELLE "NAZIONI"]. Darai l'impressione di rispettare un certo pluralismo, mantenendo il loro finanziamento e il loro controllo nelle tue mani [ESEMPIO, IL "TRIBUNALE DEMOCRATICO" CHE STA GIUDICANDO ATTUALMENTE MILOSEVIC].

Tutto ciò ha richiesto del tempo per realizzarsi. La gestazione è stata lunga, complessa, contraddittoria. [...] I piani si formano camminando, nella pratica [FERME RESTANDO OVVIAMENTE LE "ORGANIZZAZIONI", PIU' O MENO "SEGRETE", E I "PRINCIPI GUIDA"], ma ci vogliono gli intellettuali per dar loro una forma, per magnificarli agli occhi del pubblico, per nobilitarli e spiegarli. Bisogna formarli questi propagandisti, convincerli e, se è necessario, comprarli, corromperli. E poi bisogna togliere di mezzo gli ostacoli, i testardi, gli increduli, i cacasenno. Con le buone, se è possibile, altrimenti con le cattive. [...]

[LE ULTIME PAROLE, CHE RIGUARDANO LA RESPONSABILITA' DEGLI "INTELLETTUALI", SONO EVIDENTEMENTE ISPIRATE DA ESPERIENZE PERSONALI - NON DIMENTICHIAMO CHE L'AUTORE VIENE DA UNA LUNGA MILITANZA GIORNALISTICA - E APRONO LA STRADA AL DISCORSO SEMPRE ATTUALE SULLE "STRATEGIE CULTURALI", SU "CHI" DECIDE DI FAVORIRE CERTE "MODE DI PENSIERO", ANCHE IN CAMPO SCIENTIFICO...]

* In ordine al libro in oggetto, ricevo da parte di uno degli autori le seguenti osservazioni, che ritengo meritevoli di ogni preoccupata attenzione da parte di chi voglia continuare a difendere quanto meno i valori della <<liberta' di pensiero:

Subject:         Difendiamo il diritto di dissentire
   Date:         Sat, 07 Sep 2002 11:22:19 +0200
   From:         Marco Tarchi <tarchi@unifi.it
     To:         diorama2@ftp.viscuso.org

Ai lettori di DIORAMA,
a qualcun altro che non disdegna di pensare fuori dal coro
e, p.c., a Piero Ostellino, Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara
 
Cari amici,
alcuni di voi avranno letto l'editoriale del "Corriere della Sera" di ieri in cui Piero Ostellino, con toni di un'insultante grossolanità di cui sino a qualche mese fa non lo avrei creduto capace e con l'uso di accenni psicologico/psichiatrici che non dispiacerebbero ai nostalgici dei regimi totalitari, ha dato un ulteriore giro di vite alla censura verso chiunque non sottoscriva i dogmi dell'ideologia occidentalista che domina nei sedicenti "paesi liberi". Oggi Pierluigi Battista, sul "Foglio", si pone in scia (rincarare la dose sarebbe stato piuttosto difficile), con un duro attacco al libro La paura e l'arroganza curato da Franco Cardini, appena uscito per i tipi di Laterza, in cui, come sapete, sono inclusi anche un intervento a mia firma e uno di Alain de Benoist. Gli argomenti polemici non hanno niente di nuovo, sono gli stessi con cui la quasi totalità dei media ci bombarda da anni, e soprattutto da un anno; quello che colpisce è, anche questo caso, il tono, di assoluta insensibilità al dubbio, alle ragioni altrui, alla riflessione critica.
Come potete immaginare, non me ne stupisco affatto: ho denunciato già nel 1996 l'incombente rischio di una dittatura del pensiero di segno ideologico liberale; non faccio altro, ora, che constatare che non mi ero sbagliato. Dovrei, anzi, assieme a tutti coloro che conservano il gusto dell'indipendenza mentale, rallegrarmi delle prove che questi custodi della nuova ortodossia ci offrono per renderci conto che il fanatismo liberale ha davvero ben poco da invidiare agli integralismi di altro segno. Non posso però non considerare con tristezza che oggi nessun quotidiano "indipendente", nessuna rete televisiva o radiofonica, consente a chi ha idee diverse dai guru dell'American Dream di replicare argomentatamente ai loro punti di vista. L'allineamento dei mezzi di comunicazione alle parole d'ordine degli ambienti "che contano" è arrivato a punte esasperanti. Si può tutt'al più mandare in circolazione una rivista o un libro destinati a capitare fra le mani di pochissime migliaia di persone, ma oltre è vietato andare. Sì, a qualche esemplare di una specie di cani sciolti in via di estinzione, tipo Massimo Fini, è consentito sporgersi un po' dalla gabbia, ma il coro del conformismo è assordante.
Per decenni gli adepti dell'ideologia liberale hanno predicato e inveito contro l'esistenza dei tabù; oggi se ne fanno scudo e ne menano vanto.
Va da sé che, davanti alle obiezioni, costoro usano alternativamente due strategie: la manipolazione o l'insulto. A me è capitato di sperimentarle, di recente, entrambe. Quando ho espresso a Paolo Mieli indignazione perché ogni critica alle politiche dello stato di Israele veniva bollata come atto antisemita, ignorandone la sostanza, mi sono visto rimproverare... di dimostrare, con quella mia protesta, un pregiudizio antisemita. Quando ho pubblicato su "MondOperaio" (grazie a una coraggiosa apertura di Luciano Pellicani) una replica alla propaganda degli "anti-antiamericani" basata su riflessioni e non su slogans, l'ho vista ignorata da tutti, salvo Emanuele Macaluso in un dibattito trasmesso nottetempo da Radio Radicale. Ora, non pretendo certo che a concedere diritto di replica ai dissidenti sia il Corriere della Sera, ormai penosamente avviato a diventare una replica in versione liberalconservatrice de "L'Unità" degli anni Cinquanta (chi pensa che esagero, si faccia una bella collezione degli scritti di certi editorialisti e poi ci rifletta su...); ma che l'intero apparato informativo agisca su questa falsariga, è desolante.
Questo, tuttavia, non vuole essere solo uno sfogo. E' anche un invito a non cedere, comunque. E' ovvio che le sfuriate dei fanatici dell'occidentalismo liberale faranno danni, intimidiranno, indurranno chi ha meno difese psicologiche a zittirsi. Ma tenere in vita voci libere è, oggi, un dovere morale. Non credo di avere mai abusato di questa espressione; ma mai come adesso la sento adatta ai tempi.
Per questo, invito tutti voi a leggere e far leggere un libro come La paura e l'arroganza. Impediamo almeno, a chi vince, di stravincere. Rafforziamo il nostro diritto di minoranza discriminata e diffamata a far sentire una voce difforme. Non alziamo bandiera bianca. Non siamo fatti per questo.

Un cordiale saluto

Marco Tarchi

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Alle precedenti due aggiungiamo una terza opera sulla stessa "linea di pensiero". Si tratta di L'Impero americano e la crisi della democrazia, del noto politologo Giorgio Galli (Ed. Kaos, Milano, 2002), dalla quale estraiamo alcune righe.

 

> E' opinione generale che dopo l'11 settembre 2001 nulla sia più come prima: la catastrofe di New York e l'umiliazione di Washington hanno mutato il corso della storia. Ma solo la storia potrà dire cosa è veramente accaduto quel giorno: oggi la ricostruzione degli eventi che hanno colpito l'Impero americano è impossibile, poiché i due protagonisti - la rete definita del "terrorismo islamico", e i servizi di sicurezza degli Stati Uniti, della Nato e di Israele - sono effettivamente invisibili, al di sotto delle strutture materiali, siano la sede della Cia a Langley o la fantomatica caverna afghana di Bin Laden.

Occorre partire da una convinzione razionale: è impossibile che i servizi di sicurezza degli Stati Uniti (Cia, Fbi, Nsc) e israeliani (Mossad) non sapessero nulla di nulla sui preparativi degli attentati dell'11 settembre. [...] Ritengo in sostanza che i citati servizi di intelligence, nell'estate deI 2001, qualcosa avessero appreso sull'imminenza di un attentato, il quale però non è stato impedito (l'ex presidente Clinton avrebbe poi parlato di ben 16 attentati sventati durante la sua amministrazione). Perché? Probabilmente perché un singolo, grave ma limitato episodio di destabilizzazione avrebbe permesso di perseguire uno o più obiettivi politici di rilievo.

Da questa convinzione iniziale svilupperò una riflessione per la quale richiamo la caratteristica migliore della cultura occidentale: l'esercizio dello spirito critico. [IN MODO ASSAI OPPORTUNO L'AUTORE RICHIAMA IMPLICITAMENTE ALCUNE "CATEGORIE MENTALI" DI CUI LA MODERNA TENDENZA DEL POLITICALLY CORRECT VORREBBE IMPEDIRE LA MESSA IN CAMPO: NEL CASO DELLA RIFLESSIONE STORICA, L'UTILIZZO DEL "PRINCIPIO DI CAUSALITA'", E DEL "CUI PRODEST?"] Formatomi in una cultura con forti connotazioni anglosassoni, giunto alla politologia grazie a orientamenti e possibilità di studio con la determinante presenza degli Stati Uniti, mi sembra tuttavia necessaria una riflessione critica su questa sola superpotenza e sul suo ruolo, in un momento nel quale l'una e l'altro si giovano di una adesione acritica da parte dell'intero Occidente, proprio mentre a nome dell'Occidente si combatte la prima guerra del Ventunesimo secolo.

Si tratta di una riflessione critica sull'Impero americano sviluppata mentre gli eventi di questa prima guerra sono ancora in corso e ne prefigurano quello che ritengo il vero obiettivo finale: installare governi filo-occidentali nei "Paesi canaglia" considerati sostenitori del terrorismo. Se fosse stata contro Bin Laden, la guerra sarebbe infatti già conclusa, mentre invece prosegue.

 

(Dall'Introduzione)

 

> Certo è che dopo L'11 settembre i "nicchianti europei" del 1986 hanno rotto gli indugi nel 2001, e hanno risposto alla mobilitazione generale e all'omologazione dell'Occidente contro il "terrorismo arabo". Una mobilitazione coincidente con una fase di specifiche e convergenti difficoltà per l'Impero americano: l'incerta elezione presidenziale del debole George Bush; l'Intifada palestinese; la conferenza di Durban dagli accenti anti-americani e anti-israeliani; la crescente protesta antiglobalizzazione di Seattle, Porto Alegre e Genova.

Nel 1964 venne pubblicato negli Usa un libro illuminante, esso stesso indice di quello spirito critico che ha sempre fatto degli Stati Uniti un Paese d'avanguardia, anche quando non erano ancora un impero.

Il libro è The lnvisible Government (Il governo invisibile) di David Wise e Thomas Rose [Ed. Random House]. Il titolo era motivato così: "Negli Stati Uniti vi sono ormai due governi: l'uno ufficiale, eletto dal popolo, e l'altro invisibile, costituito dai servizi segreti delle varie branche del Governo. Questi servizi, spesso, riuscirebbero ad agire in una specie di quasi indipendenza, non solo dagli organi del Congresso, ma perfino dagli organi responsabili dell'esecutivo".

Effettivamente, il "governo invisibile" è stato ed è una realtà non solo negli Stati Uniti, ma in tutti i Paesi retti a democrazia rappresentativa. Lo conferma un quarantennio di vicende della politica internazionale. Vi è una dicotomia tra la democrazia come potere visibile (una "casa di vetro", secondo il filosofo Norberto Bobbio), e le esigenze della sicurezza (verso l'esterno, ma anche all'interno per una criminalità organizzata sempre più forte in tutte le società), dicotomia che nella cultura illuminista può essere fatta risalire a Immanuel Kant.

Nel suo celebre saggio Per una pace perpetua. Un progetto filosofico, Kant vedeva un costante pericolo per la pace nelle "arti infernali in se stesse nefande che, una volta entrate nell'uso, non si manterrebbero a lungo nei confini della guerra, come, ad esempio, l'impiego delle spie". Il termine "spie" si è poi allargato al concetto di "intelligence", dei servizi segreti, mentre il concetto di "governo invisibile" si è esteso agli alti funzionari degli apparati di sicurezza non segreti e agli ufficiali politicizzati (soprattutto dei corpi speciali).

Nello specifico, in Usa la dialettica tra le grandi energie socio-politico-culturali che ne hanno sostanziato l'esperienza democratica, e le spinte del "governo invisibile" (tanto più forti quanto più ritenute necessarie alla sicurezza dell'Impero americano), spiegano quanto vi è accaduto nei decenni prima dell'11 settembre e nei mesi che lo hanno seguito.

 

(pp. 12-13)

 

> La prosa vigorosa di Vittorio Zucconi ["la Repubblica", 18 ottobre 2001] presenta anch'essa aspetti simbolici (i padri fondatori della "città sulla collina", i loro autorevoli discendenti che abbandonano la collina del Campidoglio), ma offre elementi per puntualizzare due aspetti. Il primo: tra la contestata elezione di Bush e l'11 settembre, il governo invisibile prendeva atto di una debolezza della classe politica che rendeva precaria la strategia dell'Impero e evidenziava l'opportunità di una svolta, attraverso un fatto traumatico. Il secondo aspetto: l'entità della catastrofe dell'11 settembre ha creato per il governo invisibile una situazione del tutto imprevista, e forse divisioni al suo interno sui tempi e sui modi per combattere un nemico invisibile, e circa l'opportunità di cogliere l'occasione per insediare governi amici negli Stati islamici ostili, nel quadro del vecchio progetto del primo Bush per l'instaurazione di un nuovo ordine mondiale.

Seguendo questo filo conduttore interpretativo, si può comprendere la fulminea accelerazione della guerra in Afghanistan dopo la prima settimana di novembre, quando la frustrazione della pubblica opinione americana era giunta al culmine, mentre si votava per l'elezione del sindaco di New York dopo una campagna elettorale che avrebbe dovuto avere inizio proprio l'11 settembre e che evidenziava la situazione della democrazia rappresentativa negli Stati Uniti [...]

 

(p. 101)

 

> I due pilastri della democrazia rappresentativa sono la legittimità della rappresentanza attraverso la partecipazione e il voto dei cittadini; e la selezione, attraverso la competizione per la conquista del consenso, di una efficiente classe politica.

Sul primo punto si teorizza da tempo, soprattutto negli Stati Uniti - a partire da Seymour Martin Lipset negli anni Sessanta, con il suo libro The First New Nation (gli Stati Uniti, appunto) - che il fatto che i cittadini non vadano a votare è una prova del buon funzionamento della democrazia, poiché non occorre neanche votare per essere garantiti (nei diritti e nei beni). Il fatto che il 6 novembre 2000 la metà degli americani non abbia votato, indifferente alla più costosa campagna elettorale della storia, sarebbe dunque un fatto positivo. Poi si è andati oltre: non solo votare non è importante, ma non è neppure importante contare i voti; non li si sono contati in Florida, ma in quelle cinque confuse settimane si è constatato che forse non erano stati contati bene nemmeno in altri Stati. Così si è avuto il primo presidente degli Stati Uniti scelto non dagli elettori, ma dai suoi amici di partito della Corte suprema.

Per quanto riguarda la selezione della classe politica, tutti i commentatori hanno rilevato la modestia dei due candidati in competizione nel 2000 per la Casa Bianca. Essi erano anche una sorta di eredi al trono: Bush, figlio di un presidente dal suo stesso nome (George), governatore del Texas per eredità paterna, come il segnalato fratello Jeb in Florida; Gore, figlio di un senatore, designato alla camera politica fin dalla più tenera infanzia. L'ereditarietà, dunque, in luogo della selezione.

 

(pp. 94-95)

 

> Già si vede come queste libertà [di culto, di parola, di votare, etc.] siano effettivamente a rischio, negli Stati Uniti e in Occidente, dopo l'11 di settembre, e come per difenderle vengano ridimensionate. Prima di tale data, c'è il fatto di come il presidente Bush junior abbia utilizzato la "libertà di votare" in modo alquanto dubbio; e forse i voti non sono stati neppure ben contati, se troviamo una discrepanza perfino nei saggi dei noti studiosi pubblicati dal "Mulino".

Alan Brinkley, il cui scritto si intitola "Le anomalie di una elezione", argomenta che "Gore ha ottenuto la maggioranza con l'esile margine di 300.000 voti su un totale complessivo di 100 milioni (0.5 per cento)". E Norman Birnbaum, il cui saggio si intitola "Dopo la débâcle", scrive che "Gore ha ottenuto circa 550.000 voti popolari più di Bush".

 

(p. 88)

 

> E' una crisi, quella della democrazia americana, la cui gravità traspare anche dalla ormai celebre invettiva di Oriana Fallaci La rabbia e l'orgoglio, là dove la giornalista-scrittrice afferma: "Quando ho visto cancellare tutte le divergenze sono rimasta di stucco. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente zitto)". Cancellare tutte le divergenze è la negazione della democrazia, perché in essa quanto più grave è la situazione, tanto più si debbono confrontare diverse opinioni e diverse soluzioni. E Gore è rimasto zitto in quanto, pur convinto di avere vinto le elezioni, si è dovuto rassegnare a perderle per impedire che la crisi della democrazia rappresentativa americana si aggravasse.

 

(p. 156)