Pasquinate N. 2
La tragedia dell'istruzione in Italia

 


[A seguito della precedenti esternazioni ricevo da diversi corrispondenti alcune segnalazioni che mi sembra doveroso condividere con altri lettori.

UB, febbr. 2005]

1 -

[Prima di tutto, la segnalazione di un pezzo comparso ne Il Messaggero dell'11.II.005. Lo ripropongo integralmente come mi è pervenuto, immagino dopo una scannerizzazione, sperando al solito di non fare torto a nessuno.]

> Carissimo Dottor Gervaso, sono un docente delle superiori e gradirei tanto che dedicasse una puntata della sua rubrica alla drammatica situazione in cui versa l'intero sistema scolastico nazionale. Mi rivolgo a lei perché, non avendo peli sulla lingua, mi potrà sostenere nella disperata battaglia alla quale, comunque, non rinuncio. Oggi, come lei sa, a scuola non si fa niente. O meglio: si fa tutto meno che studiare. Ma la colpa di questo sfascio non può essere attribuita all'attuale ministero (come certa controinformazione faziosa ama ripetere). E ciò per il semplice fatto che non si può distruggere quel che è già da molto tempo distrutto, polverizzato. Il disastro ha avuto origine (come scrisse il suo maestro Montanelli) nella famigerata epoca degli "esami di gruppo" e del ventisette garantito. Anni in cui cementò una perversa alleanza fra laureati semianalfabeti, sindacalisti, pedagogisti (nella veste di ideologi), potere politico e il solito "movimento" di studenti politicizzati. Almeno un cinquanta per cento d'insegnanti sono entrati in ruolo grazie a concorsi riservati, corsi abilitanti (leggasi sanatorie) e altri stratagemmi che hanno dato accesso alla professione, oltre a persone degnissime, anche a tantissimi ignoranti, incapaci, indolenti, privi di ogni vocazione. La professoressa Paola Mastrocola (autrice di un bellissimo libro) [NdR - Si veda il seguente punto 5, oltre la "pasquinata" N. 1.] salverebbe solo il dieci per cento dell'attuale corpo docente (spero di rientrarci). E cosa fanno queste persone nella scuola del "sorriso permanente"? Scrive un collega: "Pacche sulle spalle, battute sulla Juve per passare l'ora, fare un decimo di ciò che si potrebbe, alzare i voti quando sono negativi, chiamare pomposamente 'moduli' attività da scuola elementare in una superiore". E a fine anno? Tutti con la croce di cavaliere. Tanto, per essere bocciati (mi scuso, non promossi, altrimenti i signorini si potrebbero offendere), non basta neanche fare la domanda in carta bollata.

Carissimo Dottor Gervaso, la prego, mi aiuti a far sapere come stanno le cose, e mi consoli. [...]

Caro Amico, le cose stanno esattamente come lei le ha esposte e denunciate. La scuola è quella che a tinte fosche, ma veritiere, lei ha descritto. E' allo sfascio e alla deriva. Non mi vengano a dire che la colpa è di Letizia Moratti, uno dei migliori ministri di quella che una volta si chiamava Pubblica Istruzione. Non scendo nei dettagli della sua riforma, perché non li conosco: troppo tecnici. Ma che abbia cercato di rimettere la scuola in carreggiata, di restituirle un po' di serietà e di dignità, non c'è dubbio. Dubito, piuttosto, che ci sia riuscita, visto il fuoco di sbarramento che quotidianamente la bersaglia.

Tutti i suoi predecessori hanno voluto legare il loro nome a una riforma, una peggiore dell'altra, perché ispirata a quel falso egualitarismo, a quell'esiziale permissivismo, a quel limaccioso buonismo che l'hanno degradata a terra di nessuno o, se preferisce, a terra di tutti. Dove pochi, con immane sforzo, fanno il loro dovere e i più battono la fiacca e tirano a campare.

I guai sono cominciati con il Sessantotto che, se ha avuto il merito di secolarizzare la società, nei limiti in cui una società clericale, che non crede in niente, è disposta a farsi secolarizzare, se ha liberalizzato il linguaggio, sia pure involgarendolo, ma comunque sparruccandolo, se ha tolto al sesso quel sudario di tabù farisaici e puritani che lo soffocava, ha provocato un mucchio di guai e di guasti.

Il più deleterio e fatale è stato il sovvertimento di ogni gerarchia. E non di quelle fondate sul privilegio che, purtroppo, mutatis mutandis, sopravvivono, ma quelle fondate sul merito. Tutti bravi, tutti uguali, tutti promossi, todos caballeros. Perché studiare se la sufficienza è garantita anche ai somari? Perché ponzare sui libri quando il sei o il diciotto o il ventisette politico non devi guadagnartelo, ma te lo regala l'insegnante che, per quieto vivere, per non avere rogne, per pavidità, per conformismo e opportunismo, non ti boccia né ti rimanda anche se confondi (è capitato al primo anno di lettere moderne, indirizzo storico, dico storico) Kruscev con Tolstoj, attribuendo al leader comunista la paternità di Guerra e pace. Che fare? Tenere duro, non mollare. Alla fine, anche nella scuola, in questa scuola allo sfascio e alla deriva, i nodi verranno al pettine. E se non verranno al pettine, ci penserà la vita a intercettarli. La vita non dà niente per niente, non fa sconti a nessuno. La vita non perdona. La vita bracca e punisce gli inetti e i fannulloni e premia i volenterosi e i capaci. Se questo può consolarla...

atupertu@ilmessaggero.it

2 -

[Date tali premesse l'università non poteva gradatamente non uniformarsi. A proposito di questa nobile istituzione, divenuta ormai una vera e propria fabbrica di "somari" (il Dott. Gervaso sarebbe curioso di aggiungere al campionario di bestialità ascoltate durante esami di Lettere, che Nerone è vissuto nel medioevo, che Manzoni è uno scrittore del '500, etc.) si trovava riportata nel "Supplemento Università" del Corriere dell'Umbria del 7.II.005 la sconcertante notizia che: <<l'allarme e' nazionale: gli universitari italiani hanno gravi carenze culturali e nella conoscenza dell'italiano>>, al punto che a Roma avrebbero aperto uno sportello <<per aiutare gli studenti a redigere gli elaborati prima della consegna>>, e a Bologna degli appositi corsi di "tutorato". La stessa fonte ospita un articolo del Prof. Claudio Finzi, dell'ateneo perugino, che lamenta perle simili a quelle dianzi menzionate). Meno male che ci si comincia ad accorgere sempre di più delle perniciose conseguenze delle valanghe di riforme "democratiche" piovute sul mondo dell'istruzione, ordinaria e superiore. Tra qualche anno la società tutta avvertirà gli effetti sui "laureati" dell'universita' degli asini, quella voluta per il primo dal ministro Berlinguer, per propositi dichiarati assai discutibili...)

3 -

[Un collega mi aveva scritto recentemente che l'ultima riforma dell'università era necessaria per metterci alla pari della "globalizzazione", perché il numero dei laureati in Italia era insufficiente ai "bisogni", ed era troppo inferiore rispetto a quello di altri paesi. Da un altro corrispondente ricevo però il seguente chiarimento (cfr. pure il successivo punto 4b).]

> Quando si esce dall'h.s. non si ha alcuna professionalità, perché è poi all'università che si diventa ciò che qui da noi sono i ragionieri, i periti, i geometri ed altre analoghe qualifiche che, conseguite già nella secondaria, ci fanno apparire così privi di personale con formazione universitaria. Anche i russi, i polacchi, gli ucraini, che - a sentir loro - sono tutti "ingegneri", possono in effetti paragonarsi ai nostri diplomati...

[Come al solito, quindi, ci si trova a doversi scontrare con raffronti tra dati non omogenei, equivoci terminologici, insomma ... confusione e somari da tutte le parti.]

4 -

[A proposito di istruzione (e dell'opportunità del metodo di "scimmiottare" altri per risolvere i nostri problemi, dimenticando per esempio sostanziali differenze di ordine socio-economico e culturale), ci sembrano assai istruttivi anche i seguenti commenti di qualche anno fa, che riproponiamo trasformati da un pesante formato pdf.]

Il Nuovo Saggiatore, vol.15, n. 5-6, pp. 8-9

http://www2.sif.it/riviste/nsag/ns1999.15.5-6.pdf

4a -

Caro direttore

abbiamo letto con un certo sgomento l'articolo di Giuseppe Baldacchini sul numero 3-4 della rivista ("La riforma della scuola in Italia ed il sistema educativo americano", vol. 15, pag. 7). Ci colpisce in primo luogo il fatto che venga acriticamente presa come misura dell'eccellenza (soprattutto) didattica il numero di premi Nobel conferiti, senza per di più il minimo tentativo di analizzare questo dato grezzo nemmeno in funzione di parametri ovvii quali la popolazione di ogni paese, le risorse stanziate, o il numero di vincitori americani con formazione scientifica straniera; ma questo è il meno. Ciò che soprattutto colpisce è l'atteggiamento da "torre d'avorio" che si sperava (ingenuamente?) ormai morto e sepolto. non vediamo come altrimenti si possano interpretare asserzioni come "il sistema americano ha fatto la scelta giusta" - intendendo come giusta la scelta di produrre tanta ricerca di punta e tantissimi analfabeti scientifici. Manca del tutto un'analisi sugli effetti a medio-lungo termine di una società scientificamente illetterata. La mancanza è sostanziale, in quanto a nostro parere la miopia di una tale posizione è evidente. anche volendo limitarsi al solo aspetto corporativo di "a chi insegneremo nel 2010", non è difficile capire che in un mondo in cui tanta gente non sa nulla di scienza e in cui l'atteggiamento ormai prevalente è di timore e diffidenza verso di essa difficilmente il calo continuo di iscritti alle facoltà scientifiche potrà arrestarsi. ed il diffondersi ovunque, o il permanere, di atteggiamenti irrazionali di ogni tipo è sotto gli occhi di tutti.

Davvero si può pensare che il sostegno pubblico alla scienza - sia morale che finanziario - possa mantenersi di fronte ad una mentalità ascientifica ed antiscientifica sempre più diffusa? E che elettori "felici pur senza sapere nulla di scienza" possano prendere decisioni informate sulle sempre più numerose e difficili questioni politiche a carattere tecnico-scientifico che si pongono nelle società avanzate? Ciò che sta accadendo proprio negli usa con la vergognosa vicenda del cosiddetto "creazionismo scientifico" speriamo che abbia aperto gli occhi sui rischi di una tale situazione.

E' strano che da noi compaiano posizioni come quelle di Baldacchini dopo una ventina d'anni dalla pubblicazione del celebre rapporto "a nation at risk" dove gli stessi fisici statunitensi mettevano in guardia di scuola superiore rispetto agli omologhi europei e soprattutto asiatici.

Le conseguenze di questa situazione sono state finora mascherate negli USA dall'afflusso di studenti, sia universitari che di dottorato, provenienti da paesi stranieri; ma non è questo un segno di drammatico fallimento di tutto un sistema educativo? Ed è veramente possibile essere al giorno d'oggi simultaneamente ricchi e ignoranti a lungo?

La supremazia tecnologica non si costruisce, come sembra credere l'autore dell'articolo, soltanto con la ricerca di punta, ma anche con una forza lavoro ben preparata ed istruita. la scuola dovrebbe essere un momento non solo di apprendimento, ma anche di stimolo all'apprendimento, e di formazione del pensiero critico e analitico. poco importa, in fin dei conti, se le nozioni specifiche che vengono impartite non serviranno a molto nella vita professionale della persona, purché sia stato trasmesso il modo di pensare giusto.

Non si vede perché questi obiettivi non possano essere realizzati, entro limiti ragionevoli, in una scuola di massa e, comunque, perché bisogni rinunciare in partenza a perseguirli. attribuire alla scuola la funzione puramente passiva di supermarket della cultura, come sembra sostenere l'autore dell'articolo, è a nostro giudizio un errore gravissimo.

Enrico Smargiassi
Giorgio Pastore
Dipartimento di Fisica Teorica
Università di Trieste

4b -

Caro direttore

amicus plato sed magis amica veritas. di conseguenza, nonostante il mio apprezzamento per i tanti aspetti positivi degli Stati Uniti d'America, ritengo di dover intervenire a proposito di uno scritto apparso di recente sulla nostra rivista (1) che riguarda proprio uno dei pochi settori, la scuola, in cui il sistema americano manifesta debolezza. una debolezza, del resto, largamente riconosciuta da coloro che si occupano di questioni scolastiche, inclusi gli americani stessi. Ricordo, a questo proposito, che l'amministrazione Reagan istituì nel 1981 una apposita commissione (National Commission on Excellence in Education) per studiare le riforme da attuare nel settore della scuola, ritenendolo appunto assai bisognoso di interventi per la sua palese debolezza. e ricordo anche che il rapporto finale, dal significativo titolo a nation at risk: the imperative for educational reform (2), conteneva affermazioni assai vivaci, fra cui (cito a memoria) "se una nazione nemica avesse deciso di imporci un sistema scolastico atto a pregiudicare il futuro della nostra società non avrebbe potuto fare più di quanto abbiamo fatto noi stessi". Sembra poi che le proposte dell'anzidetta commissione, di cui facevano parte autorevoli esponenti del pensiero conservatore, non abbiano trovato grande spazio di attuazione dal momento che altre, più recenti, informazioni continuano a rappresentare una situazione di scarsa funzionalità; si legga, per esempio, quanto scrive Chiara Nappi, fisica teorica a Princeton, anche in base alla sua esperienza di partecipazione agli organi collegiali di quella città (3).

Del resto, che la scuola americana funzioni assai mediocremente, e in particolare assai peggio della nostra, per quanto disastrata e in attesa di disastranti riforme, è ben noto a tutti coloro che hanno in famiglia qualche ragazzo che abbia trascorso un anno scolastico in USA. Infatti l'esperienza comune è che oltre oceano i nostri ragazzi, anche quelli che da noi non eccellevano davvero, sono risultati tutti bravissimi al confronto con gli indigeni, soprattutto come formazione di base e come cultura generale (e nonostante le naturali difficoltà di lingua).

Chi ha vissuto in usa per qualche tempo, inoltre, si sarà accorto certamente, se non del tutto disattento, delle debolezze culturali dell'americano medio (parliamo, naturalmente, in termini statistici, dato che di persone di buona, e talvolta ottima, cultura non ne mancano certamente) su argomenti di storia o di geografia, per non parlare delle materie scientifiche; così pure gli sarà capitato assai probabilmente di ricevere qualche richiesta d'aiuto a proposito dello spelling di qualche parola.

D'altra parte ritengo alquanto dubbio pensare di dimostrare l'eccellenza del sistema scolastico americano semplicemente in base al numero di premi nobel per la fisica conferiti a cittadini americani, come illustrato nei tre grafici che accompagnano l'articolo sopracitato (1). A questo riguardo giocano certamente altri elementi, fra cui la qualità del sistema universitario e l'impegno nazionale verso la ricerca scientifica. in particolare i finanziamenti alla ricerca, e su questo ci sono pochi dubbi, sono assai più cospicui che in Europa (non parliamo, per carità, del nostro paese!), erogati con maggiore attenzione e verificati sul piano dei risultati. mentre sul sistema universitario si dovrebbe approfondire il discorso: il confronto con quanto avviene da noi, infatti, non dovrebbe farsi guardando soltanto al MIT, a Stanford o a Caltech. perché accanto a questi straordinari centri di eccellenza, che giustamente destano la nostra ammirazione, dove il livello di competenza è altissimo e si producono risultati a livello, appunto, di nobel, vi sono poi, assai più numerose, università di rango inferiore, dove il livello dell'insegnamento è piuttosto modesto. per convincersene, basta esaminare i cataloghi dei corsi offerti, dove non si mancherà di trovare titoli quali Automotive Engine Rebuilding, Television and Radio Announcing, e via dicendo; oppure consultare uno dei testi di fisica generale in uso in queste università, dove non si tratta nulla che richieda l'analisi matematica e in appendice si presentano ampi richiami di geometria elementare (del tipo l'area di un triangolo si calcola moltiplicando.......), di algebra e di trigonometria.

Sicché è vero che il sistema universitario americano porta un'alta frazione dei cittadini (il doppio rispetto all'unione europea, quattro volte rispetto all'Italia) a conseguire un titolo universitario, ma il livello medio è certamente inferiore a quello europeo. tant'è che oggi i corsi di livello superiore (graduate school) sono frequentati, soprattutto nel settore scientifico, prevalentemente da studenti asiatici ed europei.

Il problema base della scuola americana, per tornare al punto, deriva dalla scelta iniziale, che risale a due secoli fa, di affidarne la gestione alle comunità locali, in larga misura anche per quanto riguarda la definizione dei programmi, la selezione e la retribuzione degli insegnanti. questo comporta, evidentemente, vantaggi e svantaggi, ma questi ultimi sembrano prevalere. si verifica, infatti che certe comunità locali siano economicamente più deboli oppure meno illuminate di altre: nel primo caso esse avranno difficoltà ad offrire ai loro ragazzi un insegnamento di qualità accettabile, nel secondo potranno ritenere preferibile per il prestigio della scuola un buon allenatore di baseball a un bravo insegnante di scienze.

Vi è poi il problema della selettività, il cui livello è bassissimo per una serie di motivi discussi ampiamente in (3), con gravi conseguenze complessive per il livello medio finale degli allievi. in particolare, chi ha intenzione di proseguire gli studi in una università seria deve sottoporsi a prove di ammissione che richiedono una apposita preparazione. in conclusione, il mio augurio per il futuro della scuola italiana è che, facendo riferimento a vaghi concetti di autonomia, radicamento sul territorio e via dicendo, non si tragga acritica ispirazione da un sistema che non funziona affatto bene.

Giovanni Vittorio Pallottino
Dipartimento di Fisica
Università di Roma La Sapienza

Bibliografia

(1) G. Baldacchini, La riforma della scuola in Italia ed il sistema educativo americano, Nuovo Saggiatore, pag. 7-11, luglio 1999.

(2) La crisi della scuola negli U.S.A. il rapporto della Commissione sulla eccellenza in educazione, a cura di Mario Reguzzoni, Comune di Milano, Centro per l'innovazione educativa, 1984.

(3) C. Nappi, Il dilemma educativo americano, Sapere, pag. 40-44, aprile 1999.

5 -

[Il messaggio che segue era stato fatto circolare qualche mese fa (adesso è in libreria un nuovo libro dell'autrice, la Prof.ssa Paola Mastrocola, dal titolo La scuola raccontata al mio cane). Il testo integrale dell'intervista si trova ancora in:

http://guide.supereva.com/greco/interventi/2004/05/158538.shtml,

a cura della gentile Prof.ssa Benedetta Colella, della quale si veda anche in generale:

http://guide.supereva.com/greco/interventi/2004/12/190166.shtml]

Una barca nel bosco...

Cari Colleghi,

mi è arrivata la presentazione di questo libro, ve la giro senza parole, pensando che quanto detto riguardi un po' anche tutti noi...

Il vostro UB

Paola Mastrocola
La Pubblica Distruzione
Come annichilire uno studente dotato senza tanti perché

Lo ricordo come se fosse ieri. Era un uomo calmo, sereno, buon parlatore. Soprattutto, era il padre di uno dei miei primi alunni. Solo una raccomandazione lanciò a me e ai colleghi, nell'incontro preliminare con le famiglie: "Vi affido un bambino onesto, studioso, innamorato dei libri, fiducioso nella cultura. Restituitemelo come è".

Quella che ci sembrò arroganza era in realtà utopia, perché al ragazzo, davvero dotato, davvero amorevole, la scuola ha sottratto scampolo a scampolo fiducia, gioia, orgoglio, voglia di fare.

Non ero ancora rotta ai paradossi della didattica (del resto, avevo solo 26 anni e tanta voglia di insegnare) e mi pareva abominio quella che, ahimè, è la prassi educativa della scuola, oggi.

C'era una immagine particolarmente suggestiva sulla metodologia dell'educatore, che deve porsi come un cacciatore e puntare più in alto per colpire la preda. Oggi questo paragone è terribilmente anacronistico: i fautori dell'approccio soft, della banalizzazione del dettato didattico, della promozione comunque ci invitano a ridimensionare gli obiettivi, a variare l'insegnamento, a modernizzare i temi.

Così, il libro di testo diventa la Bibbia di riferimento e le case editrici, coerenti con l'andazzo nobilitato come didattica modulare, fanno a gara nel semplificare i testi, colorarli, infarcirli di immagini più o meno coerenti, gremirli di prove semistrutturate per cerebrolesi.

In assenza di una vera epistemologia anche i docenti, spaesati tra le minacce dei genitori, che si fanno paladini dei figli e che a tutti i costi ambiscono per loro e più di loro a valutazioni assolutamente non coerenti con il basso profitto, e l'onere di verbali da riempire, corsi di recupero da attivare, sportelli di ascolto a cui adempiere, puniti dal discredito sociale se richiedono agli sfaticati rampolli un minimo di applicazione, i docenti, dicevamo, mollano le redini e si fanno ripetitori dell'ovvio, confidenti e amici, non educatori.

Chiediamo in sostanza agli alunni ancora meno di quanto sarebbero disposti a fare, con un unico grave risultato: chi non sa continua a non imparare, convinto di poter procrastinare il recupero fino all'ultima interrogazione, mentre chi sa si annoia.

Brutta situazione, in classe, per i temerari che amano davvero apprendere: i compagni li scherniscono e ne sfruttano la saggezza (creando un circolo vizioso in cui si suggerisce per ottenere il plauso sociale e si ha in cambio invece la derisione e la canzonatura), i docenti li temono, perché nei loro desideri frustrati leggono le proprie colpe, le valutazioni li puniscono, perché a chi è bravo non si regalano voti su voti, le istituzioni li trascurano, perché gran parte dei fondi scolastici sono destinati a far ripetere nei recuperi pomeridiani a masse di assenteisti quanto non hanno ascoltato la mattina.

Nei toni grotteschi e saggi che le sono consueti, Paola Mastrocola ci presenta in Una barca nel bosco il dramma di un ragazzo onesto, innamorato dei classici e della cultura, che, in una sorta di Bildungroman al contrario, disimpara le lettere e acquisisce lo slang e le mode giovanili alla ricerca di un'accettazione che è inversamente proporzionale alla serietà e alla passione per lo studio.

Tra professori di liceo la cui didattica consiste nell'ascolto di audiocassette e nella visione di film, tra presidi che sanno consigliare solo l'intervento dello psicologo di istituto, tra tutor che identificano nel possesso della Playstation e di altri status symbol l'autostima di un giovane, tra docenti universitari velleitari e corrotti, in un ambiente lavorativo in cui le referenze e le raccomandazioni valgono più dell'affidabilità e della preparazione, in questo disastro che è diventato il mondo, Gaspare Torrente, l'indimenticabile protagonista, troverà una sua anomala realizzazione che sta alla società come la barca in un bosco.

Un ragazzo un po' particolare, a cui piace da pazzi il latino, convinto che lo studio gli serva per diventare qualcuno. Un ragazzo di talento, che viene da un'isola del sud, frequenta la scuola e poi l'università. Dieci anni della sua vita: i suoi incontri, la sua famiglia, il suo destino. È il protagonista di Una barca nel bosco, terzo romanzo di Paola Mastrocola. Ne abbiamo parlato con l'autrice.

D. Con questo nuovo romanzo lei torna al tema della scuola. C'è inevitabilmente un retroterra di storia personale?

R. Per me quello della scuola è un tema involontario: non lo scelgo mai, eppure me lo ritrovo sempre... tra i piedi. Ma io sono un'insegnante, c'è poco da fare. E la scuola è il mio "contatto" con la realtà. Vi trovo motivi di riflessione verso il mondo intero, di ispirazione, e soprattutto di rabbia, che mi serve molto per scrivere, è il mio vero "motore". Evidentemente, dopo La gallina volante ci voleva un altro libro, questa volta dal punto di vista non più dell'insegnante ma dell'allievo. Un ragazzino che, avendo quindici anni, non giudica, non critica, non ironizza: può solo raccontare quello che vede e, semmai, dire implicitamente il suo inerme, sconsolato stupore.

D. Gaspare, il protagonista di Una barca nel bosco, racconta dieci anni della sua vita, del suo processo di "sformazione". È un personaggio che tocca corde tra comicità e malinconia, divertimento e disperazione. Da dove è spuntato?

R. Se posso, vado sempre in vacanza su un'isola. Non vi si vive come da noi: le scuole, per esempio, non ci sono. Si arriva al massimo alle medie. Quindi, se qualcuno vuole fare il liceo, se ne deve andare. Gaspare nasce prima di tutto da qui: è un ragazzino bravo a scuola, gli piace studiare, ma è nato su un'isola, quindi deve trovarsi un liceo in una città. Ecco, mi piaceva un personaggio così. Che cosa lo muove, in quale scuola crede, che cosa si aspetta dagli studi? Mi sembrava una storia di cinquant'anni fa, quando la scuola offriva un progresso reale, intellettuale ma anche sociale. Mi serviva un personaggio così: faceva contrasto, uno spaventoso contrasto con tutti i ragazzini delle nostre città.

D. Lei è riuscita a "parlare" il linguaggio dei ragazzi di oggi. A pensare con la loro testa. Frutto della sua esperienza, della sua capacità di sentire, della magia della scrittura?

R. Era la sfida del libro: riuscire a parlare come un ragazzino. All'inizio è stata durissima. Gaspare parlava come me, sembrava una donna di quarant'anni e passa, un disastro. Ho dovuto riscrivere all'infinito. Era in realtà una doppia sfida, perché Gaspare non è un ragazzo come gli altri, non parla il linguaggio giovanile del gruppo. Quindi dovevo riuscire a dargli una voce giovane, ma anche una voce antica, da ragazzino spaesato in questi nostri tempi. Da "barca nel bosco", appunto. Spero di esserci riuscita.

D. Nel romanzo c'è una visione cupa del destino individuale, dell'esistenza, una riflessione in fondo amara sulla solitudine, sulla sconfitta che tocca anche ai migliori. E tuttavia c'è sempre un tocco di leggerezza, di surreale, la capacità di vedere con una comprensione divertita le bizzarrie del vivere quotidiano.

R. A questo nostro mondo non piace il merito. Chi è bravo si trova solo. Ma forse è sempre stato così: il talento è inspiegabile, quindi inaccettabile. Oggi però mi sembra che sia trascurato più che mai, se non addirittura osteggiato e disprezzato: oggi bisogna essere furbi, appartenere a un clan, saper tessere relazioni. E chi è bravo e basta? Ma credo che qualcosa ci sovrasti, chiamiamolo destino, sorte, caso, Dio... Qualcuno si salva. Io ho una visione profondamente religiosa della vita, non confessionale, ma religiosa. Credo in un disegno: nel libro infatti parlo di un Pantografo Gigante che ci disegna.

D. Una domanda d'obbligo. È davvero tutto allo sfascio nella scuola di oggi ?

R. Non la scuola, è la società a essere allo sfascio. La scuola la riflette soltanto. Non è questione di riforme sbagliate o giuste; né di gioventù sbagliata o giusta. Siamo tutti noi che non diamo più valore allo studio. I giovani lo sentono; quindi, perché mai dovrebbero studiare? E perché mai dovrebbero pensare? Pensare richiede tempo, concentrazione e... solitudine. A chi piace la solitudine? [...]

6 -

Conclusioni (per questa volta)...

Per evitare fraintendimenti, dovrei specificare il tipo di "antropologia" che sostiene queste critiche, che non vorrei fossero scambiate per "nostalgie" aristocratiche. Tranne casi eccezionali di deficienze fisiologiche mentali, la differenza tra l'essere "somaro" o meno, "onesto" o meno, consiste soltanto in una scelta della voluntas, nell'ottica di una concezione dualistica dell'uomo: sospeso tra natura animale e natura spirituale, gli occorre spesso purtroppo un grande sforzo per non trovarsi dominato esclusivamente dalla prima (che il darwinismo riconosce non solo come dominante, ma addirittura come unica). Le istituzioni di uno "stato" nel senso nobile - illuministico, umanistico - del termine, dovrebbero aiutare lo studente in tale sforzo, non lasciarlo indifeso di fronte alle tentazioni, e farlo soccombere, precipitare verso la parte peggiore.

Un'ulteriore specificazione riguarda l'ovvia constatazione che non è solo il mondo dell'istruzione ad essere in crisi in questo difficile momento per il nostro paese, ma un po' tutti quelli che dovrebbero viceversa costituire i pilastri dello stato, e della fiducia nei suoi confronti. (Non ho ancora letto il libro di Giorgio Bocca, L'Italia l'è malada, ma il titolo è pienamente azzeccato.) Purtroppo, non possono non venirmi alla mente casi come: <<sanzione pari a 150 euro>> per un furto in una profumeria, e 440 euro per un cartello relativo al recente "divieto di fumo" esposto in un locale, ma che a detta dei funzionari non era "a norma" (chi mi segnala la vicenda, gestore di un locale pubblico, mi ha anche detto che l'ammenda comminatagli era il doppio del minimo previsto dalla legge, e che non comprende il perché della relativa discrezionalità: i sospetti di un "taglieggiamento" di certi comuni - i cui funzionari si spartiscono poi lauti premi di "produttività" - è pesante ma legittimo, tanto più in un caso in cui il "buon senso" poteva invitare a segnalare semplicemente la necessità di sostituire il cartello con un altro, e ad intervenire in caso di mancata ottemperanza). Pensieri analoghi suscita: <<il fascino della velocità, con guida pericolosa, costa a xxx una sottrazione di 4 punti sulla patente>>, ma ne vengono tolti 5 a chi non indossa le cinture di sicurezza mentre si sposta a velocità da lumaca in una strada cittadina. Questi esempi tanto per restare sul piccolo: la gente comune è sorpresa anche di vedere persone responsabili della morte di un uomo vivere libere o quasi dopo pochi anni o mesi dall'episodio; persone condannate per gravi reati che non scontano alcuna pena, e si è obbligati a considerare innocenti fino al terzo grado di giudizio, che arriva dopo anni e anni, quando tutto è ormai confuso, i testimoni sono stati comprati o intimiditi, etc., difficile poter accettare gli inviti frequenti da parte del mondo della "politica" ad avere "fiducia" in un siffatto sistema. I più, senza alcuno scrupolo di coscienza, si limitano a chiudere per quanto possibile gli occhi, e ad agire in conformità al principio:

IO SPERIAMO CHE ME LA CAVO...