[Episteme è lieta di presentare ai suoi lettori uno scritto desunto dal Bollettino del Fronte Tradizionale: http://groups.yahoo.com/group/Bollettino_FT/, che appare in significativa sintonia con il precedente articolo di Amrit e Ilaria K. Sorli. Pur non rinunciando infatti alla consueta linea di "razionalità cartesiana" della rivista, si tratta di ammettere la possibilità di un superamento del "dualismo" di Descartes e di Kant (in particolare, quello tra fenomeno e noumeno), un dualismo che opiniamo può essere accettato ancora oggi quale descrizione del tutto appropriata della "condizione ordinaria" di un essere umano. Un superamento che avverrebbe però non attraverso "teorie" dell'universo (più o meno sperimentalmente fondate) che possono ben dirsi "irrazionali", in quanto non facenti ricorso alle usuali condivise nozioni di spazio, tempo e causalità, bensì mediante una sorta di "esperienza diretta", o di "esperienza cosciente", le cui indicazioni allora non potrebbero non tenersi nella giusta considerazione. In altre parole, il citato dualismo sarebbe da giudicarsi valido soltanto in "prima approssimazione", con riferimento cioè a una effettiva tra le manifestazioni dello spirito umano ("incarnato"), appunto quella che si può definire "ordinaria", ma che non sarebbe l'unica, neppure nella medesima comune situazione esistenziale...]
 
 


 

Conoscenza e potenza

("L'Arco e la Clava")


 


Nessuno vorrà affermare che l'uomo attesti una qualsiasi superiorità quando, usando un qualunque mezzo tecnico, egli si rende capace di questo o di quello: nemmeno come signore della bomba atomica o come colui che premendo un tasto potrebbe far disintegrare un pianeta egli cessa di essere uomo e soltanto uomo. Vi è di peggio: se per un qualche cataclisma gli uomini del kali-yuga venissero privati di tutte le loro macchine, nella grandissima maggioranza dei casi essi di fronte alle forze della natura e agli elementi si troverebbero probabilmente in uno stato di maggiore impotenza che non il primitivo non civilizzato: appunto perché le macchine e il mondo della tecnica hanno atrofizzato le loro vere forze. Si può ben dire che è da un vero miraggio luciferico che l'uomo moderno è stato sedotto con la "potenza" di cui dispone e di cui è fiero.

Il tantrismo, nel particolare valore che, come si è visto, dà all'azione realizzatrice, riprende in forma accentuata una concezione, o ideale, del conoscere che può dirsi "tradizionale" in quanto è attestato non solo nell'area indù fin dalle origini, ma anche in altre civiltà tradizionali di tipo superiore, quali si sono sviluppate prima dell'avvento della civilizzazione moderna, dovunque si è trattato di un conoscere non profano, ma metafisico. Non sarà inutile indicare brevemente le implicazioni di questa concezione.

Per quel che riguarda l'India, essa ha conosciuto una metafisica la cui base è la "rivelazione" (âkâçâni, çruti), termine che qui però va preso in un senso diverso da quello proprio alle religioni monoteistiche, nelle quali esso si riferisce a qualcosa che la divinità ha fatto conoscere all'uomo e che questi deve accettare puramente e semplicemente, una data organizzazione (come la Chiesa cristiana) custodendone il deposito sotto specie di dogma.

La çruti corrisponde invece alla esposizione di ciò che è stato "visto" ed è stato rivelato (fatto conoscere) da alcune personalità, dai cosidetti rshi, l'alta statura dei quali fa da base alla tradizione. Rshi, da drç = vedere, vuol dire appunto "colui che ha veduto". Gli stessi Veda, considerati come il fondamento di tutta la tradizione ortodossa indù, si chiamano così da vid, termine che significa vedere e, nel contempo, sapere: un sapere in senso eminente e diretto, assimilato per analogia ad un vedere: il che, peraltro, trova riscontro anche nell'Occidente antico, nell'Ellade, dove la stessa nozione di "idea", per la sua radice id, identica a quella del sanscrito vid (da cui Veda), rimanda in pari tempo ad un conoscere vedendo.

La tradizione come çruti registra dunque e propone quel che i rshi hanno direttamente "veduto" secondo una visione riferentesi ad un piano superindividuale e superumano. Nel suo aspetto interno e essenziale la base di tutta la metafisica indù non è stata diversa.

Di fronte ad un sapere che si presenta in cotesti termini, l'atteggiamento da prendere non è diverso da quello da assumere di fronte a chi afferma che in un continente che non si conosce vi sono determinate cose, o al fisico che espone i risultati di certe sue esperienze. Si può prestar fede, rimettendosi all'autorità e alla veridicità di chi parla; oppure ci si può accertare personalmente della verità di ciò che vien fatto conoscere, nell'un caso intraprendendo un viaggio, nell'altro raccogliendo tutte le condizioni necessarie per compiere da sé quell'esperimento da laboratorio. Nei riguardi di ciò che dice un rshi, a meno di non volersi occupare, di disinteressarsi di tutto ciò che ha attinenza con una "metafisica", questi sono i due soli atteggiamenti sensati, perché non si tratta di concetti astratti, di "filosofia" nel senso moderno, o di dogmi, bensì di materia di possibile esperienza, e la tradizione offre anche i mezzi e indica le discipline grazie ai quali è possibile "verificare", in evidenza diretta personale, la realtà di quanto viene comunicato. Sembra che nell'Occidente cristiano un simile punto di vista sperimentalistico sia stato ammesso solamente nei riguardi della mistica (la quale, tuttavia, non va identificata al genere di conoscenza in quistione, a causa del suo fondo prevalentemente più emotivo che noetico, e del quadro "religioso", e non metafisico, di essa) quando la teologia l'ha definita come una cognitio experimentalis Dei, tanto da indicarla come qualcosa che va di là sia dal semplice "credere", sia dall'agnosticismo.

Ebbene, l'orientamento dei Tantra rientra in tale linea. Essi affermano sempre di nuovo che la semplice esposizione teorica della dottrina non ha valore alcuno; quel che importa, per loro, è soprattutto il metodo pratico della realizzazione, l'insieme dei mezzi e dei "riti" con l'aiuto dei quali determinate verità possono venire riconosciute come tali. Per questo, essi amano definirsi come un sâdhana-çâstra - sâdhana viene dalla radice sâdh, che vuol dire applicazione del volere, sforzo, allenamento, attività rivolta al conseguimento di un dato risultato. È di un autore tantrico il rilievo (Woodroffe, Shakti and Shâkta), che "la causa dell'incomprensione nei riguardi dei principi del tantrismo (tantra-çâstra) risiede nel fatto che essi non si rendono intelligibili che attraverso il sâdhana". Così, ad esempio, non basta tenersi alla teoria che l'Io profondo - l'âtmâ - e il principio dell'universo, il Brahman, sono la stessa cosa "e restare a far nulla pensando vagamente al grande etere fatto di coscienza"; a ciò i Tantra negano il valore di conoscenza. L'uomo deve invece trasformarsi, quindi agire, per conoscere davvero. Donde kriya, ossia l'azione, come parola d'ordine. A questa idea è stata data una cruda espressione plastica dal tantrismo buddhista, dal Vajrayâna, col simbolo del congiungimento sessuale del "metodo efficace" - upâya - e del sapere, nel quale il primo ha la parte del maschio.

Va rilevato che nelle forme superiori del tantrismo questo punto di vista viene applicato anche al culto e, poi, non solo alla metafisica, alla conoscenza sacra e trasfigurante, ma altresì alla conoscenza della natura.

Per il primo punto, vedremo il senso speciale che nel tantrismo assume pûjâ, ossia il culto, con un insieme di evocazioni e di identificazioni rituali e magiche. Peraltro, è principio tantrico che non si può "adorare" un dio che "divenendo" quel dio, cosa che riporta parimenti allo sperimentalismo di contro ad ogni culto di tipo dualistico religioso.

Per quanto riguarda le scienze della natura, il discorso sarebbe lungo e dovrebbe portarsi, in genere, sull'opposizione fra la conoscenza a carattere "tradizionale" e la conoscenza del tipo cosidetto "scientifico" moderno. Qui non entra in quistione il solo tantrismo; a tale riguardo il tantrismo si rifà a precedenti tradizioni di cui nel tracciare la sua cosmologia e la sua dottrina della manifestazione esso ha ripreso, adattato e sviluppato gli insegnamenti e i principi fondamentali.

In breve, la situazione è la seguente. Secondo il punto di vista moderno (che dal punto di vista indù verrebbe definito come quello caratterizzante la fase più spinta dell'"età oscura") l'uomo può conoscere direttamente la realtà soltanto negli aspetti rivelatigli dai sensi fisici e da quei prolungamenti di essi che sono gli strumenti scientifici: secondo la terminologia di certa filosofia, nei suoi aspetti "fenomenici". Le scienze "positive" raccolgono e ordinano i dati dell'esperienza sensoriale e dopo aver effettuato una determinata scelta fra essi (escludendo quelli che hanno un carattere qualitativo, assumendo essenzialmente quelli suscettibili a essere misurati e "matematizzati") giunge induttivamente a certe conoscenze e a certe leggi, che in sé stesse hanno un carattere astratto, concettuale: ad esse non corrisponde più un'intuizione, una percezione diretta, una intrinseca evidenza. La loro verità è indiretta e condizionata; essa dipende da verifiche sperimentali che ad un dato momento possono anche imporre tutta una revisione e il ridimensionamento del precedente sistema.

Nel mondo moderno oltre alle scienze della natura vi è la "filosofia"; ma in essa è ancor più visibile il carattere di astrattezza e di una mera speculazione concettuale che, peraltro, si spezza nella molteplicità discorde dei sistemi dei singoli pensatori, essa non conoscendo nemmeno i freni posti alla divagante soggettività dei "filosofi" dal metodo scientifico moderno. Questo mondo della filosofia è da dirsi dunque in alto grado "irrealistico". Il divario sembra essere il seguente: o una conoscenza diretta e concreta legata al mondo sensoriale, o una conoscenza che presume di andare di là da questo mondo "fenomenico" e dell'apparenza ma che è astratta, cerebrale, soltanto concettuale o ipotetica (filosofia e teorie scientifiche).

Ciò significa che l'ideale del "vedere", ossia di un conoscere diretto il quale si porti tuttavia sull'essenza della realtà, avendo un carattere "noetico" oggettivo, ideale che ancora si era conservato nella concezione medievale della intuitio intellectualis, è stato accantonato. È interessante che nella cosidetta filosofia critica europea (Kant) l'intuizione intellettuale viene bensì considerata, appunto come la facoltà che potrebbe cogliere non i "fenomeni" ma le essenze - la "cosa in sé", il noumeno - ma solo per escluderla per l'uomo (come aveva già fatto la scolastica) e per chiarire, mediante una contrapposizione, ciò che, secondo Kant, sarebbe unicamente possibile per l'uomo: la semplice conoscenza sensoriale e il sapere scientifico, di cui abbiamo indicato il carattere astratto, non intuitivo, e il fatto che essa può indicare, con un alto grado di precisione, come agiscono le forze di natura, ma non quel che esse sono.

Ebbene, dagli insegnamenti sapienziali, quindi anche da quelli indù, una tale limitazione viene considerata superabile. Come vedremo, lo Yoga classico nelle sue articolazioni (yoganga) può dirsi che offra i metodi per il superamento sistematico di essa. La posizione di fondo è la seguente: non esiste un mondo dei "fenomeni", delle apparenze sensibili, e dietro ad esso, impenetrabile, la realtà vera, l'essenza; esiste un unico dato, che presenta diverse dimensioni, ed esiste una gerarchia di forme possibili di esperienza umana (e superumana) in relazione alle quali queste varie dimensioni via via si dischiudono, fino a dar modo di percepire direttamente la realtà essenziale. Il tipo o ideale del conoscere, che è quello diretto (sâkshâtkrta, aparokshjnâva) di una esperienza reale e di una evidenza immediata (anubhâva), si conserva sempre in tutti questi gradi. Come si è detto, l'uomo comune, specie quello dei tempi ultimi, del kali-yuga, una conoscenza di tal genere l'ha solamente nell'ordine della realtà fisica sensoriale. Il rshi, lo yogî o il siddha tantrico vanno oltre, nel quadro di ciò che si può definire uno sperimentalismo integrale e trascendentale. Da questo punto di vista non esiste una realtà relativa e, di là da essa, una realtà assoluta impenetrabile, bensì un modo finito relativo, condizionato, e un modo assoluto di percepire l'unica realtà.

La diretta connessione fra questa teoria tradizionale del conoscere e l'esigenza pratica messa in primo piano dal tantrismo è ovvia. Infatti, a questa stregua la via verso ogni conoscenza superiore appare condizionata da una trasformazione di sé stessi, da un mutamento esistenziale e ontologico di livello, quindi dall'azione, dal sâdhana. Da ciò deriva un netto contrasto con la situazione generale presentata dal mondo moderno. Infatti, è evidente che la moderna conoscenza di tipo scientifico", nelle sue applicazioni tecniche conferisce bensì all'uomo moderno possibilità molteplici e grandiose sul piano pratico e materiale, ma che essa lo lascia, dal punto di vista concreto, così come è. Ad esempio, se nel campo della scienza moderna egli viene a sapere dell'andamento approssimativo e delle leggi di costanza dei fenomeni fisici, non per questo la sua situazione esistenziale è cambiata. In primo luogo, gli elementi fondamentali della fisica ultima non sono che integrali e funzioni differenziali, ossia entità algebriche astratte, delle quali, di rigore, l'uomo non può dire di avere non pure una immagine intuitiva ma nemmeno un concetto, essendo puri strumenti di calcolo (l'"energia", la "massa", la costante cosmica, lo spazio curvo, ecc. non sono che simboli verbali). In secondo luogo, dopo aver "conosciuto" tutto questo, non è che il rapporto reale dell'uomo coi "fenomeni" sia cambiato, il che vale anche per lo stesso scienziato elaboratore di conoscenze di tale tipo e per lo stesso creatore della tecnica: il fuoco continuerà a bruciarlo, modificazioni organiche e passioni a turbare il suo animo, il tempo a dominarlo con la sua legge, nulla di diverso gli dirà lo spettacolo della natura, al contrario, esso a lui dirà perfino di meno che all'uomo primitivo perché la "formazione scientifica" dell'uomo civilizzato moderno desacralizza interamente il mondo, lo pietrifica nel fantasma di una pura, muta esteriorità la quale, oltre al sapere del tipo anzidetto, ammette al massimo, come in frange soggettive, le emozioni estetiche e liriche del poeta e dell'artista, le quali evidentemente non hanno valore né di scienza, né di metafisica.

L'alibi più corrente della scienza di tipo moderno riguarda la potenza, e questo argomento, nel presente contesto, merita di venire considerato, data la parte che la Çakti, interpretata come potenza, e le siddhi, i "poteri", hanno nel tantrismo e in analoghe correnti. La scienza moderna fornirebbe la prova della sua validità coi risultati positivi da essa raggiunti, in particolare col mettere a disposizione dell'uomo moderno una potenza di cui, si dice, non si vide mai nulla di simile nelle precedenti civiltà.

Ora, qui si equivoca circa quel che si intende per potenza, non si distingue una potenza relativa, esteriore, inorganica e condizionata dalla vera potenza. È evidente che tutte le possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica all'uomo del kali-yuga sono esclusivamente del primo tipo; l'azione riesce solamente perché essa si conforma a determinate leggi che la ricerca scientifica le ha indicato e che essa presuppone e rispetta scrupolosamente. L'effetto, dunque, non è connesso direttamente all'uomo, all'Io, alla sua libera volontà, come alla sua causa: fra l'uno e l'altro vi è invece una serie di intermediari non dipendenti dall'Io e di cui tuttavia si ha bisogno per conseguire quel che si vuole. Non si tratta soltanto di ordigni e di macchine, ma appunto di leggi, di determinismi naturali che sono così come potrebbero essere altrimenti, che nella loro essenza restano incomprensibili, per cui siffatta potenza di tipo meccanico resta, in fondo, del tutto precaria. In nessun modo essa è un possesso dell'Io, è una sua potenza. Anche per essa vale quanto si è detto per la conoscenza scientifica: essa non muta la condizione umana, la situazione esistenziale del singolo, né presuppone e esige un qualsiasi mutamento del genere. È qualcosa di aggiunto, di giustapposto, che non comporta nessuna trasformazione di quel che si è. Nessuno vorrà affermare che l'uomo attesti una qualsiasi superiorità quando, usando un qualunque mezzo tecnico, egli si rende capace di questo o di quello: nemmeno come signore della bomba atomica o come colui che premendo un tasto potrebbe far disintegrare un pianeta egli cessa di essere uomo e soltanto uomo. Vi è di peggio: se per un qualche cataclisma gli uomini del kali-yuga venissero privati di tutte le loro macchine, nella grandissima maggioranza dei casi essi di fronte alle orze della natura e agli elementi si troverebbero probabilmente in uno stato di maggiore impotenza che non il primitivo non civilizzato: appunto perché le macchine e il mondo della tecnica hanno atrofizzato le loro vere forze. Si può ben dire che è da un vero miraggio luciferico che l'uomo moderno è stato sedotto con la "potenza" di cui dispone e di cui è fiero.

Diverso è l'ideale di una potenza che non segue le leggi di natura, ma che le piega, le altera e le sospende, e che è un possesso diretto di determinati esseri superiori. Di questa potenza, come della conoscenza vera di cui si è detto, la condizione è però la rimozione della condizione umana, del limite costituito da quell'Io che gli Indù chiamano "fisico" bhûtâtmâ = Io degli elementi). L'assioma di tutto lo yoga, del sâdhana tantrico e di analoghe discipline, è il nietzschiano "l'uomo è qualcosa che può essere superato", ma preso molto sul serio. Analogamente che nell'iniziazione in genere, non si ammette la condizione umana come un destino, non si accetta di essere soltanto uomini. Il superamento della condizione umana, considerato da tali discipline, è, nei suoi vari gradi, anche la condizione per la potenza autentica, per l'acquisizione delle siddhi; propriamente, non è che queste siddhi rappresentino lo scopo (anzi il considerarle come tali viene spesso ritenuto una deviazione) ma esse derivano come una conseguenza naturale dal superiore status esistenziale e ontologico raggiunto e, lungi dall'essere qualcosa di sovrapposto e di estrinseco, contrassegnano una superiorità spirituale (è interessante che siddhi, oltre che poteri estranormali, significa "perfezioni"). Pertanto, sono sempre qualcosa di personale e di intrasferibile, di non "democratizzabile". Ecco, dunque, il divario profondo che distingue due mondi, quello tradizionale e quello moderno. La conoscenza e il potere coltivati dal mondo moderno sono "democratici", sono a disposizione di ognuno che abbia una certa intelligenza per appropriarsi negli istituti di istruzione le conoscenze delle moderne scienze della natura, e basta un certo addestramento che non impegna affatto il nucleo più profondo del proprio essere per poter adoperare i mezzi d'azione messi a disposizione dalla tecnica: una pistola produrrà gli stessi effetti in mano sia di un pazzo, sia di un soldato, sia di un grande uomo di Stato, allo stesso modo che essi tutti possono venire egualmente trasportati in poche ore da un aereo da un continente ad un altro. E si può ben dire che proprio questa "democrazia" è stata il principio-guida nell'organizzazione sistematica della scienza di tipo moderno e della tecnica. Per contro, come abbiamo visto, nell'altro caso la differenziazione reale degli esseri è la condizione per una conoscenza e per un potere inalienabili, non trasferibili, dunque esclusivi ed "esoterici" non artificialmente ma per la loro stessa natura: si tratta, pertanto, di culminazioni eccezionali di cui non si può far parte al tutto di una società. A questa possono essere aperte solamente possibilità di ordine inferiore, appunto quelle sviluppate fino all'estremo nell'età ultima, in una civiltà che effettivamente non trova riscontro in nessun'altra. A parte queste possibilità materiali (la limitatezza delle quali era dovuta essenzialmente al poco interesse che si aveva per esse) - d'altronde, oggi ci si è dovuti stupire per il constatare, nello stesso mondo tradizionale, alcune realizzazioni che sembrerebbero implicare cognizioni come quelle del sapere scientifico moderno, anche calcoli algebrici complessi, ecc. Evidentemente, si era giunti a tanto per una diversa via -, in civiltà tradizionali potevano venire sviluppate da chiunque lo volesse attività artistiche (spesso in misura notevole - specie nell'architettura) e, in genere, esse erano caratterizzate dalle varietà di una vita essenzialmente orientata dall'alto e verso l'alto. Questo clima, pel tutto di una civiltà, si è mantenuto in più di un'area fino a tempi relativamente recenti.

Abbiamo ritenuto opportuno, in via introduttiva, procedere a questa messa a punto critica e teoretica ai fini di un orientamento del lettore nel mondo spirituale dove dovremo condurlo.

Venendo più da presso al nostro soggetto, aggiungeremo soltanto due considerazioni. La prima riguarda ancora la scienza della natura. Come si è accennato, nei dati forniti dall'esperienza comune la scienza moderna ha giudicato oggettive e utilizzabili pei suoi fini soltanto le cosidette "qualità prime" matematizzabili, ossia l'estensione e il movimento; le cosidette "qualità seconde", cioè le qualità in senso proprio delle cose e dei fenomeni, sono state escluse come tali, sono state considerate di carattere soltanto psicologico e soggettivo. Senonché nella realtà nessun oggetto o fenomeno si presenta nell'esperienza diretta dell'uomo con le sole qualità di estensione e movimento ma viene percepito insieme alle altre qualità. Ebbene, in India è stata elaborata una fisica qualitativo-psicologica con "atomi" e "elementi" che non si riferiscono alla realtà considerata sotto le sole specie di estensione e movimento, ma alle qualità corrispondenti ai vari sensi; tali sono i mahâbhûta, i paramânu e i tanmâtra, principi del mondo della natura che però non sono nemmeno astrazioni speculative ma, pur avendo il valore di principi esplicativi del sistema del mondo, sono oggetti possibili di una esperienza diretta, possono venire colti dalle facoltà speciali sviluppate dallo yoga e dal sâdhana. Allora ad essi corrisponde anche un significato, una forma di evidenza o di speciale illuminazione.

Il grado perfetto, liminale, nella conoscenza superiore è quello in cui l'essere si identifica col conoscere, in cui la contrapposizione fra soggetto e oggetto, fra Io e non-Io (che sussiste in tutte le varietà del sapere scientifico moderno, essendone addirittura la premessa metodologica) viene rimossa. Nel suo ultimo grado, col samâdhi, lo yoga della conoscenza tende a ciò. Se però ci rifacciamo non allo yoga di Patañjali bensì alla metafisica tantríca, l'essenza, il fondo di una cosa è una çakti, un potere: da qui il collegamento con la dottrina delle siddhi, dei poteri sovranormali. Viene offerto anche un quadro generale con l'idea di un processo del mondo nel quale la çakti, che nella manifestazione si è, in un certo modo, svincolata, si è esteriorizzata nel regno del non-Io, si è oscurata ed è divenuta inconscia, per gradi si ridesta, riveste una forma cosciente (cidrûpinî-çakti), si congiunge col suo principio o "maschio" (Çiva) e fa tutt'uno con lui. Come vedremo, con lo hatha-yoga tantrico, questo processo viene ripetuto entro l'uomo.

È lo sfondo, anche, di una speciale dottrina della certezza. Ce lo indica un commentatore tantrico. Le cose - egli dice - sono potenza e "la potenza di una cosa non aspetta il suo riconoscimento intellettuale". L'uomo può divertirsi quanto vuole a chiamare il mondo illusione, irrealtà e simili, "ma karma, la forza dell'azione, lo costringerà a credere in esso". Sempre ci si potrà chiedere, nei riguardi di qualsiasi cosa: perché è così, e non altrimenti ? "In realtà, lo stesso Signore (Îçvara) non sfuggirebbe a queste domande, le quali sono la caratteristica naturale dell'ignoranza". Questi problemi si affacciano finché si resti in un rapporto di estraneità, ed anzi di passività, rispetto alle manifestazioni della Çakti nel mondo. Hanno fine, afferma l'autore tantrico ora citato, solamente quando il singolo, grazie al suo sâdhana, realizza in sé il principio "Çiva", controparte luminosa e dominatrice della potenza primigenia. In lui sorgerà, allora, un tipo particolare, sovrarazionale, di evidenza e di certezza, legata ad un potere. Così, tornando ad accentuare l'esigenza fondamentale, che riguarda la pratica, viene affermato: "Ogni scrittura è un puro mezzo. Non serve per chi non conosce ancora la Devî [la Dea = Çakti] e non serve per chi l'ha già conosciuta". Del resto, è un tema anche upanishadico che "vanno in una cieca tenebra coloro che praticano il non-sapere; in una più cieca tenebra vanno però coloro che si accontentano del sapere" e che chi ha studiato, quando consegue la conoscenza vera "getta i libri come se bruciassero".

Più sopra, la battuta polemica contro chi considera il mondo come illusione aveva evidentemente in vista quella corrente di pensiero la cui forma estremistica è costituita dalla dottrina vedântina di Çankara. Non è privo di interesse vedere già ora come questa polemica viene condotta. Il Vedânta sostiene che è reale soltanto l'Assoluto nudo, nel suo aspetto senza attributi e senza determinazioni - il cosidetto nirgûna-Brahman. Il resto, il mondo e tutta la manifestazione, è "falso", è un mero prodotto dell'immaginazione (kalpana), una semplice parvenza (avastu): è il noto e molto abusato concetto della mâyâ, del mondo come mâyâ. Viene così statuito uno iato: nulla unisce il reale, il Brahman, con la manifestazione, col mondo. Fra i due non vi è nemmeno una antitesi, perché, appunto, l'uno è e l'altro non è.

Nella polemica svolta a tale riguardo dai Tantra si conferma il loro orientamento verso la concretezza. Certo, dal punto di vista dell'Assoluto la manifestazione non esiste in sé stessa, perché non può esservi un essere al di fuori dell'Essere. Viene però chiesto che cosa è colui che professa l'accennata dottrina della mâyâ: se è lo stesso Brahman ovvero uno degli esseri che si trovano nel regno della mâyâ. Finché si è un uomo, ossia un essere finito e condizionato, non si può dire di certo di ssere il nirgûna-Brahman, ossia l'immutabile puro Principio senza determinazioni e senza forme. Allora egli sarà mâyâ, la premessa essendo appunto che fuor dal nirgûna-Brahman non vi è che mâyâ. Ma se egli - il sostenitore del Vedânta estremista - nella sua realtà esistenziale, ossia quale uomo, jîva, essere vivente, è mâyâ, mâyâ - ossia parvenza e falsità - sarà anche tutto ciò che egli afferma, epperò anche la sua teoria che ciò che è reale è soltanto il nirgûna-Brahman e il resto è illusione e falsità. Questo argomento, che fa uso di una sottile dialettica, è ineccepibile. I Tantra dicono che il mondo quale lo conosciamo potrà anche essere mâyâ dal punto di vista del Brahman ed anche del siddha, ossia di colui che ha completamente superato la condizione umana. Non così dal punto di vista di ogni coscienza finita, epperò anche dell'uomo comune, per il quale esso è invece una indiscutibile realtà da cui in nessun modo può prescindere. Finché resta tale, l'uomo non è affatto autorizzato a chiamare mâyâ nel senso vedântino il mondo. In un commento all'Îça-upanishad viene messo in luce che con l'insistere in quella dottrina della mâyâ e nell'idea dell'assoluta contraddizione fra il Principio e tutto ciò che è determinato e che ha forma, la stessa possibilità dello yoga e del sâdhana, di rigore, resterebbe pregiudicata: perché "è impossibile che qualcosa possa trasformarsi in un'altra che ne è la contraddizione". "Noi siamo mente e corpo; se mente e corpo [in quanto appartenenti al mondo di mâyâ] sono falsi, come sperare di conseguire per loro mezzo ciò che è vero?". i rigore, la dottrina della mâyâ del Vedànta estremistico andrebbe dunque a negare al singolo la stessa possibilità di innalzarsi verso il Principio, perché una tale possibilità presuppone che fra l'uno e l'altro non vi sia uno iato, un rapporto da non-essere ad essere, bensì una certa continuità. È così che, anche per la preoccupazione di fissare le premesse necessarie allo yoga e, in genere, al sâdhana, alla pratica realizzatrice, e per prevenire ogni evasionismo contemplativo il tantrismo è andato a formulare una dottrina del "Brahman attivo" a carattere metafisico non meno di quella vedântina, introducendo la nozione della çakti e ridimensionando la teoria della mâyâ. È di questa dottrina che ora, per prima cosa, vogliamo occuparci...

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