L'altro Hubble

Un astronomo vero fra mito e realtà

(Alberto Bolognesi)

 

 

Il detto malizioso "cosmologists are always wrong but never in doubt" - i cosmologi sono sempre in errore ma mai in dubbio - non può certo applicarsi alla figura carismatica di Edwin Powell Hubble. Le migliaia di articoli e libri che gli sono stati dedicati hanno tuttavia contribuito a fornire di lui e del suo famoso "programma" un'immagine molto artificiale che in qualche caso sconfina nella mistificazione vera e propria. Hubble fu autenticamente ed essenzialmente il cosmologo del dubbio, e concluse degnamente nel dubbio tutta la sua pionieristica ricerca sulla natura dell'universo. Lottò duramente per decenni con gli strumenti e con la sua schiena armeggiando per un numero sterminato di notti nelle gabbie dei grandi telescopi di Monte Wilson e di Monte Palomar, si cavò gli occhi sulle lastre a "grattare" Cefeidi immerse in bracci di spirale che si vedevano appena e a stabilire funzioni di luminosità per tipologie di galassie "là dove forse lo spazio si incurva" fino a che il suo cuore d'atleta cedette una prima e poi una seconda fatale volta. Ma quando la morte gli presentò il conto, Edwin Powell ("Power" per i suoi fans) aveva già redatto il suo testamento spirituale: "Le nostre conoscenze della struttura cosmica diminuiscono rapidamente al crescere della distanza". "C'è un limite alla nostra comprensione - confessò una volta al suo giovane allievo Allan Sandage - che non è quello di natura strumentale".

Astronomo per vocazione, Hubble (1889-1953) è quasi universalmente noto come "colui che scoprì l'espansione dell'universo nel 1929". E' sorprendente che questa frase ribadita come uno slogan su quasi tutti i libri e i manuali di cosmologia non trovi riscontro in nessuna delle sue dichiarazioni e delle sue relazioni scientifiche: "ma - come ebbe a dire in seguito l'astronoma Beatrice Hill Tinsley (anch'essa prematuramente scomparsa) - tant'è: anche Cristoforo Colombo non fu immediatamente all'altezza della sua effettiva scoperta".

Quinto di sette figli (o terzo di otto) di un avvocato del Missouri che operava nel campo delle assicurazioni, Hubble frequentò gli studi a Chicago laureandosi poi in legge a Oxford in Inghilterra, beneficiando di una prestigiosa borsa di studio come Rhodes Scholar al Queen's College. Alto quasi un metro e novanta e con una spiccata somiglianza all'attore inglese George Sanders, Hubble è anche accreditato di un curriculum d'atleta di tutto rispetto: salto con l'asta, lancio del disco, corsa ad ostacoli, cestista e pugilatore. Il folklore divulgativo gli attribuisce addirittura un match con il campione francese Georges Carpentier e perfino l'improbabile offerta di disputare un incontro con l'allora campione dei pesi massimi Jack Johnson … Eppoi arruolato volontario in Francia, ferito da schegge al braccio destro o al piede sinistro, aspirante dentista, maestro di scuola nel Kentucky e allenatore di pallacanestro di un team dell'Indiana. Frequentatore di Aldous Huxley e Igor Stravinskij, la sola cosa certa è che l'avvocato Hubble aveva sempre palesato grande interesse verso la fisica e l'astronomia. Il suo diploma in astrofisica, regolamentare o ad honorem, è una disputa di secondo piano che non deve distogliere dall'intraprendenza, dalla volitività e dall'autorevolezza che Edwin Hubble seppe rapidamente esprimere: negli anni in cui faceva pratica astronomica presso lo Yerkes Observatory venne immediatamente notato da un altro Edwin, l'allora Direttore E.B. Frost e poi dallo stesso George Ellery Hale, l'astronomo che rivelò il ciclo doppio delle macchie solari in funzione dell'attività magnetica e che, fra un esaurimento nervoso e l'altro, riuscì a progettare e a realizzare i più grandi telescopi riflettori del suo tempo.

La storia di Hubble è arcinota e molto variamente raccontata, ma due sono soprattutto le rivoluzioni che le sue ricerche hanno imposto alla scienza dell'astronomia. La prima fu la dimostrazione "galileiana" che molti oggetti classificati sommariamente come "nebulose" erano in realtà enormi sistemi stellari esterni e analoghi alla Via Lattea; la seconda fu la scoperta di una sorprendente relazione fra il loro generale spostamento verso il rosso e la loro magnitudine apparente.

Val la pena soffermarsi un attimo sulla prima dimostrazione di Hubble che venne anche a chiudere una lacerante controversia fra il famoso astronomo della Carnegie Harlow Shapley (1885-1972) e il suo collega del Lick Observatory, Heber Curtis (1872-1948), che ne uscì vincitore, perché il fatto costituisce un importante elemento nella questione largamente dibattuta se sono i telescopi o le persone che fanno le scoperte cruciali.

Per far questo occorre riandare a quel ricco astronomo dilettante londinese, di nome William Huggins (1824-1910), che per primo decise di estendere l'impiego dello spettroscopio - fino a quel momento impiegato per lo studio della luce solare e delle sorgenti luminose prodotte in laboratorio - all'analisi delle stelle e delle "nebulose". Ne montò uno sul suo telescopio privato, lo orientò a turno su Aldebaran e Betelgeuse … e restò senza fiato. Vi scorse una foresta di righe vicinissime e quasi sovrapposte le une alle altre che ricondusse correttamente ai noti elementi del calcio, del sodio, del ferro, del manganesio e del bismuto. "Erano stelle simili al Sole!" Così, pieno di emozione, decise di concentrarsi sulle "nebulose" che da oltre un secolo Kant aveva intuito trattarsi di remotissimi "universi-isole" costituiti di stelle. "Stavo forse per gettare lo sguardo sui recessi più segreti della creazione?" si domandò Huggins. E poteva Huggins, ci chiediamo noi, precedere la scoperta di Hubble?

Per un caso che potremmo definire "disgraziato", l'astronomo dilettante puntò lo spettroscopio proprio su una vera nebulosa gassosa, vi notò una sola riga ininterrotta e ne dedusse - ahimé correttamente - che doveva essere prodotta da un gas luminoso, non da una moltitudine di stelle. Fece di un filo d'erba un fascio, concluse frettolosamente che tutte le nebulose fossero gassose e gettò Kant alle ortiche. Il pregiudizio si fissò rapidamente e fu ulteriormente corroborato dai calcoli che l'astrofisico James Jeans applicò a nubi di gas collassate: ed ecco un caso sconcertante, si potrebbe commentare, in cui l'esordio di uno strumento insostituibile come lo spettroscopio, fece fare un passo indietro alla conoscenza.

I primi contributi alla restaurazione kantiana vennero forniti da un altro dilettante, il carovaniere Milton Humason (1891-1972) che trasportava pezzi di ricambio a dorso di mulo fino all'osservatorio di Monte Wilson. Privo di istruzione ma versatile e ricco di talento, Humason divenne rapidamente custode, poi assistente osservatore all'Hooker e abile spettroscopista. Negli anni in cui faceva pratica di fotografie sotto la direzione di Shapley, prese numerose immagini di M31 e vi notò alcuni puntini di luce che cambiavano di intensità. Sospettò che potesse trattarsi di stelle variabili Cefeidi, annotò la loro posizione sul dorso delle lastre e le portò trepidante al suo autorevole Direttore. Shapley le esaminò, spiegò pazientemente a Humason che M31 era un vortice di gas molto vicino e che quei puntini non potevano essere stelle: prese un fazzoletto dalla tasca e cancellò i segni di identificazione delle variabili sopra le lastre.

Poi la storia è nota: nel 1923 Hubble arrivò a Monte Wilson con le credenziali di Hale, ottenne la storica immagine n. 335 di M31, contrassegnò le inequivocabili Cefeidi che vi comparivano con punti esclamativi e Shapley non poté più ricorrere al suo fazzoletto. Accettò fatalisticamente l'evidenza, e il genio precognitore di Kant ritornò al suo posto. Heber Curtis festeggiò molto discretamente con un bicchierino, le "nebulae" presero le distanze dalle nebulose e il mondo scientifico si aprì alla nuova immagine di un universo costellato di galassie.

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Ma naturalmente è la seconda "scoperta" - anch'essa preannunciata - che ha trasmesso fama imperitura a Edwin Hubble. E' la relazione empirica che lega lo spostamento verso il rosso delle galassie alla loro magnitudine apparente, relazione che ha poi fornito il cardine a tutta la cosmologia moderna e che, forse in omaggio alla istituzione d'origine di Hubble, prende oggi il nome di "legge".

Già agli inizi del Novecento alcuni astronomi avevano notato un anomalo posizionamento dello spettro delle "nebulose" verso la parte rossa. Nel 1914, Vesto Melvin Slipher (1875-1969) che lavorava con uno spettroscopio montato sul riflettore di 60 pollici dell'Osservatorio di Percival Lowell, aveva collezionato una dozzina di spettri di "nebulae" la cui luce presentava un evidente "redshift". Ad eccezione della grande spirale in Andromeda e di alcune nebulose vere e proprie, questo "strano fenomeno" si mostrava sistematico, anche se di difficile soluzione. Se interpretato come un effetto Doppler le velocità implicate risultavano per quei tempi incredibilmente alte, in qualche caso ben al di là della soglia del migliaio di chilometri al secondo. Qual era dunque la causa di quello spostamento? Quale meccanismo lo generava? Nella mente di Slipher e di altri astronomi cominciò a farsi strada la possibilità che il fenomeno potesse essere messo in relazione con la loro enorme distanza.

Quando Hubble arrivò a Monte Wilson, ben consapevole di questi primi risultati, sapeva esattamente cosa cercare. Aveva "il programma già in tasca", come dichiarò, e l'"Hooker", il gigante di 2 metri e 54 realizzato da Hale, gli offriva più che una formidabile opportunità, un appuntamento vero e proprio con la Storia. Il suo notevole acume gli aveva già suggerito tutto il quadro generale: quando si mise al lavoro con il fido Humason, Hubble sapeva che stava tracciando il futuro dell'astronomia. Le alternative erano almeno due: se lo spostamento verso il rosso delle galassie poteva essere messo in relazione con la distanza, gli astronomi si sarebbero liberati per sempre della loro miopia bidimensionale e il redshift avrebbe immediatamente fornito la sospirata terza dimensione, la misurazione in profondità di tutta la struttura cosmica osservabile!

La seconda possibilità poi appariva, se possibile, ancor più inebriante. Se la "distanza di redshift" esprime contemporaneamente anche una velocità di allontanamento (e se la velocità era proporzionale alla distanza), allora poteva essere a portata di mano perfino "il grande segreto", il frutto proibito della conoscenza cosmica, "l'inverso dell'espansione": l'origine del Mondo.

Ma Hubble erano uno scienziato estremamente cauto e rigoroso per natura, e non intendeva farsi sconti di alcun genere. Conosceva perfettamente il punto debole di tutta la grandiosa impalcatura e non lo nascondeva. Il punto debole infatti era la "circolarità": come distinguere una galassia debole da una galassia lontana? Come adottare una luminosità per dimostrare una distanza, o una distanza per dimostrare una velocità? Il rischio di mescolare erroneamente insieme oggetti di luminosità intrinseche molto diverse era altissimo "e perfino mortale", come confidò al suo allievo Allan Sandage: come poter dimostrare che le dimensioni angolari delle galassie mutavano progressivamente e in proporzione esattamente inversa all'entità dello spostamento verso il rosso?

Quando le luminosità erano inferiori alle attese rispetto ai redshift misurati le galassie diventavano "nane", quando erano più elevate le galassie diventavano "giganti". Alle grandi distanze poi, doveva determinarsi un drammatico effetto di selezione in cui solo gli oggetti intrinsecamente più luminosi sarebbero emersi dalle lastre, la cosiddetta "distorsione" descritta dallo svedese Gunnar Malmquist (1893-1982). Infine, l'effetto Doppler-Fizeau noto in fisica, non ha alcun rapporto diretto con la distanza. Come avrebbe commentato di lì a poco Fritz Zwicky, "il fudge factor stava diventando una prassi in astronomia".

Hubble sapeva. E non si nascondeva. Era questo "l'altro" Hubble, quello che la divulgazione ha sempre sistematicamente oscurato. La sua "relazione lineare" era in fin dei conti fragile o almeno assai poco rappresentativa dal momento che era stata ottenuta in base a 48 spettri di galassie nessuna delle quali si trovava al di là del vicino ammasso della Vergine. Come poté annunciare l'espansione dell'universo nel 1929 - si è chiesto quarant'anni dopo il premio Nobel Steven Weinberg - con dati così manchevoli?

La verità, sorprendente solo per chi non ha letto tutte le sue relazioni, è che Hubble non annunciò mai l'espansione dell'universo e che sette anni dopo la memorabile scoperta di cui viene accreditato, scriveva sull'Astrophysical Journal del 1936 (84-517): "Se i redshift sono velocity shifts che misurano il ritmo con cui si espande l'universo, i modelli sono del tutto inconsistenti con le osservazioni … e l'espansione è un'interpretazione forzosa dei risultati sperimentali". Incredibile? Ma vero! Chi ha mai riportato queste considerazioni sui libri di cosmologia?

Quando i divulgatori ritorneranno ad essere rigorosi si dovrà pur ricordare che Hubble parteggiò a lungo per un indebolimento della radiazione luminosa (la "luce stanca" di Born, Findlay Freundlich e Walter Nernst), prendendo in considerazione "l'antichità della luce delle nebulose", costretta a vibrare lungo le distanze cosmiche per milioni o per miliardi di anni. E che fino al termine della sua carriera prese accuratamente e sistematicamente ogni cautela sulle "presunte velocità" delle galassie. Occorrerà una rivoluzione profonda nella comunicazione della scienza per evidenziare tutte le mistificazioni del suo percorso scientifico e del suo famoso "programma". Ecco cosa riesce a dire uno dei più celebrati giornalisti scientifici contemporanei dalle colonne della Rivista "Discovery": "Edwin Hubble aveva compiuto tutto il suo lavoro ignorando Einstein, che in effetti aveva già brillantemente predetto che le galassie erano come uvette in una torta che lievita, e che si allontanavano tra loro in conseguenza della misteriosa esplosione dello spazio e del tempo …". Se c'è una Musa anche per i divulgatori, Dennis Overbye dovrebbe riconoscere che gli scambi fra Einstein e Hubble furono invece assai frequenti, che lo stesso Einstein non sopportava l'idea di un universo in espansione (a rigore non ci si adattò mai) e che l'idea stessa di uno spazio che si dilata ortogonalmente al tempo era così contraria alla sua soluzione della gravità ("le proprietà dello spazio e del tempo sono interamente determinate dalla materia") da fargli temere il tracollo dell'intera Teoria. Einstein rese partecipe Hubble di questi timori che certo pesarono sullo stesso Hubble: è resta un capitolo non scritto tutto l'itinerario accidentato che il padre della Relatività intraprese contro l'idea di una metrica che lievita col tempo. Si scagliò inizialmente sulle soluzioni di Friedman e poi senza mezzi termini contro l'ipotesi dell'uovo cosmico in espansione di Lemaître ("Vos calcus sont corrects, mais votre physique est abominable"); perfino al termine della sua vita, dopo aver ritirato dalla circolazione la costante che consentiva la soluzione statica delle sue equazioni, ribadì che "l'impostazione cosmologica attuale non tiene in alcun conto le più fondamentali alternative" ("On the Cosmological Problem, Einstein, 1945).

E' interessante a questo proposito ricordare come "l'altro" Hubble, sotto le pressioni di Einstein pubblichi nel 1935 assieme a Tolman un lavoro in cui sostiene la necessità di "calare la cosmologia nell'ambito della Relatività", precisando che la scelta fra un modello statico e uno in espansione "è al momento indecidibile". L'articolo (A.J. 82, 302, 1935) precede di un anno quello già citato in cui Hubble prende chiaramente le distanze dalle "presunte" velocità delle nebulose.

Nei suoi pellegrinaggi in California Einstein discusse con Hubble le scale di tempo del tutto insufficienti che un'espansione del sistema delle galassie comportava rispetto alle reali età delle stelle (le prime stime di luminosità integrate alle "velocità presunte" fornivano una costante di espansione Ho fra i 600 e i 500 Km/sec per Mpc e un'età dell'universo non superiore ai due miliardi di anni), ribadendogli che le sue soluzioni originarie implicavano "un raggio dell'universo indipendente dal tempo". "Senza queste condizioni - scrisse in proposito - ci si addentra inevitabilmente in speculazioni senza fine". "Lottiamo con le ombre", ammise nervosamente Hubble ficcandosi la pipa fra i denti.

 

 

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"Sono i telescopi che fanno la storia del cielo o sono gli uomini che li adoperano?" Questo dilemma attribuito a George Hale è la croce e delizia di tutti gli astronomi veri. C'era un punto sul quale la deferenza e la profonda ammirazione per la genialità di Einstein da parte di Hubble non era disposta a transigere: e questo punto era il primato delle osservazioni. "Potremo inoltrarci nel dominio vago delle congetture teoriche solo quando avremo dato fondo a tutte le risorse empiriche" è infatti il monito con cui concluse il suo celebre "The Realm of the Nebulare" del 1936.

Negli anni che seguirono, Hubble moltiplicò gli sforzi per uscire dalle incertezze del quadro osservativo. L'universo poteva essere statico o in espansione, ma nemmeno un'ombra doveva permanere sulla "relazione lineare che lega il redshift alle magnitudini apparenti". Luce stanca, velocità radiali o altro, l'"effetto Hubble" - così veniva chiamato prima di diventare "legge" - era la più importante scoperta astronomica dai tempi di Galileo. E se "si doveva usare un bel po' di magia per trasformare le distanze in velocità" (la frase è di Zwicky), le magnitudini apparenti si potevano finalmente convertire in magnitudini assolute.

Lo studio sistematico degli ammassi di galassie che condusse assieme all'instancabile Humason gli suggerì di lì a poco il passe-partout per fissare definitivamente le distanze cosmiche. Con il consueto intuito Humason aveva notato che lo splendore assoluto delle galassie più brillanti sembrava dovunque lo stesso negli ammassi più ricchi. Era come se la natura si fosse data un limite di potenza per compiacere agli astronomi: e se era davvero così - pensò Hubble - era arrivato anche il tempo di staccare la mela dall'albero. Sarebbero bastate rilevazioni fotometriche accurate integrate alle misure spettroscopiche per determinare con esattezza la distanza effettiva di qualsiasi ammasso. E con le distanze la finale risposta all'omogeneità dell'universo, la sua eventuale curvatura, la velocità di espansione e la sua ipotetica decelerazione.

Forse la pendenza del suo diagramma dimostrava soltanto che la luce si affaticava e l'universo era realmente quello della prima cosmologia di Einstein, o forse l'universo si espandeva come l'uovo di Lemaître e le galassie sprofondavano in un orizzonte che si allontanava alla velocità della luce. Forse c'era una creazione continua (Hubble non nascose le sue simpatie anche per l'emergente Teoria dello stato stazionario) o forse l'inverso della sua costante d'espansione portava dritto al giorno della Creazione. "Siamo sul limite dell'incertezza", dichiarò con compassata eleganza, ma sapeva perfettamente che nel dirlo stava tracciando il solco di tutta la futura ricerca astronomica.

Dopo il 1940, come membro anziano e con la fama all'apogeo, fu coinvolto nel completamento del fantascientifico telescopio Hale di Monte Palomar, dotato di uno specchio di 5 metri di diametro. Vi lavorò solo pochi anni purtroppo, gli ultimi della sua vita, e li spese a osservare ammassi, a migliorare il suo diagramma, a perfezionare lo schema di classificazione delle galassie e a cercare la "curvatura". E naturalmente a istruire e a designare i suoi successori più degni. "Chiunque l'avesse seguito - confessò il prescelto Allan Sandage - sapeva già che avrebbe percorso tutta la carriera nella sua ombra. Ma c'era una montagna di lavoro da fare ed era un lavoro esaltante che chiedeva di essere fatto. Che altro avrei dovuto fare? Sarei stato un folle a sottrarmi alla chiamata…".

Hubble suscitava naturale ammirazione e rispetto, emanava autorevolezza, buona educazione e un fare aristocratico. Era colto, intelligente, corretto, compassato e misurato. Tutti quelli che lo hanno conosciuto parlano di lui come di un uomo del destino, eccentrico ma elegante, grave ed estremamente cauto. Hubble non parlava, "comunicava". Pur essendo del Missouri aveva mantenuto l'accento oxfordiano acquisito durante i suoi studi di diritto. "Ma era terribilmente impettito e troppo solenne - dice una malalingua di Pasadena -, non ti frustava il sangue nelle vene".

Nel mondo sublunare dei "si dice" circola anche una storiella attribuita improbabilmente alla sua graziosa e devotissima consorte Grace Burke, risalente al primo attacco di cuore che Hubble subì. Pare che fu quella triste occasione a indurlo a rifiutare una sepoltura tradizionale, che in effetti non è mai stata trovata. Si parla di un'urna di rame, ma non è chiaro se le sue ceneri siano state interrate o disperse sui contrafforti della Sierra Madre che guardano ai grandi telescopi. "Così almeno - avrebbe sospirato Hubble - nessuno orinerà sulla mia tomba". Si era ricordato di essere americano?

E' invece storica la dichiarazione che rilasciò a un cronista del Los Angeles Time quando gli fu chiesto se lo Hale di 5 metri, appena inaugurato, gli avrebbe fornito tutte le risposte che cercava. Anche questa volta il grande Hubble non smentì il suo valore di uomo e di astronomo: "Mi piacerebbe, ma non posso conoscere le osservazioni di domani … La storia dell'astronomia - aggiunse citando se stesso - è una storia di orizzonti che si allontanano".

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[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 2 di Episteme.]

gmorelli@infotel.it