JANUA INFERNI

Breve indagine su qualche aspetto relativo agli inizi della modernità
 

(Bruno d’Ausser Berrau)


 




La nascita del mondo moderno, per convenzione, viene fatta coincidere con il fatidico 1492. Data, in tal senso, ancor più ricca di significato se, alla scoperta del Nuovo Mondo, non si dimentica d’aggiungere la coincidente cacciata e/o conversione forzata degli ebrei allora stanziati, numerosissimi, nella penisola iberica. L’episodio, il cui impatto immediato fu la creazione di quelle mostruosità antropologiche denominate <<nuovi cristiani>> e conseguenti <<marrani>>, si rivelerà, negli anni avvenire, gravido d’impensabili contraccolpi rivoluzionari, stravolgenti l’assetto tradizionale dell’intera Europa. Pur tutto questo, risulta di notevole pregnanza l’accademica ed invalsa prassi cronologica, indicante proprio in quella precisa data l’initium di un’era assolutamente nuova: il suo procedere incalzante ed omnipervasivo ci conferma come, in effetti, fosse avvenuta una rottura maggiore sin nelle più profonde attitudini e modalità di pensiero, che, sino a pochi secoli fa, furono immutato retaggio dell’uomo da tempi immemorabili.
 
 

Indubbiamente, la falla, che ha consentito l’irruzione di forze assolutamente innovative rispetto al modo di essere tradizionale, è rappresentata dalla scomparsa della metafisica quale riferimento fondamentale d’ogni scienza e dottrina. A sua volta, questo venir meno, questa perdita d’un equilibrio da sempre mantenutosi, è stato reso possibile dall’alterazione del ruolo, mai sufficientemente messo in evidenza, d’un elemento intermediario, presente nella disposizione complessiva dei livelli di realtà così come rappresentati nelle concezioni premoderne. Per esse, la costituzione dell’essere umano è da intendersi tripartita e gerarchicamente disposta in corpo, anima ed intelletto (intellectus et spiritus idem significant).
 
 

La presenza di quest’ultimo, si manifesta in quella capacità d’intuizione1 diretta che - e prendo qui a modello la geometria - ci consente di comprendere immediatamente la v e r i t à dei postulati di Euclide e, ad un livello metafisico, la differenza tra manifestato e non manifestato. Differenza, per la quale, è immediatamente percepibile come v e r a l’affermazione che - al secondo - appartengano, ad esempio, il silenzio, il buio ed il vuoto. Tali condizioni, nella loro intima realtà e per la loro stessa natura non potranno mai essere manifeste e ben si capisce come ciò che, nel mondo sensibile, ce le rappresenta, altro non abbia oltre ad un rapporto d’analogia con l’archetipo. La ragione, con la sue possibilità ordinatorie e proprio per le peculiarità distintive ed analitiche di esse, sta in condizione subalterna all’intelletto (appartiene al dominio psichico o animico che dir si voglia): in questo, infatti, i concetti sono presenti sinteticamente ovvero in simultaneità, attraverso di essa, invece, si dispongono in successione secondo procedure che sono quelle della logica; la dialettica ne è la parte più propriamente didattico discorsiva. È quindi dalla congiunzione dell’anima con l’intellectus che si attiva quel dator formarum pel quale le verità intuitive divengono suscettibili d’elaborazione e d’esposizione, attualizzando così tutti i loro possibili, indefiniti sviluppi fino alle più contingenti conseguenze.
 
 

Questa specifica capacità è patrimonio individuale, da intendersi sia nell’accezione dell’ <<equazione personale>> d’ogni singolo individuo, sia in quella ch’essa è parte del complesso intermediario (inter spiritum ac corporem est) o animico che dir si voglia. Esemplificando: se i postulati euclidei non fossero, da qualcuno, davvero compresi, non ci sarebbe per lui alcuna geometria possibile; nemmeno quelle astrazioni quali sono gran parte delle cosiddette geometrie non euclidee, che, sulla falsariga dell’opera di Euclide, vengono poi sempre costruite. In definitiva, l’anima è un "luogo tramite" al quale giungono segnali dalle altre due facoltà; è lì, in quel punto d’equilibrio, ch’essi vengono elaborati dopo esser passati dal filtro dell’individualità, è lì che tutto quanto un individuo esprime riceve quel particolare "colore" ch’è il suo segno distintivo m’anche il limite conoscitivo determinato dagli sviluppi inerenti la già citata "equazione"2.
 
 

Una definizione, della corrispondenza macrocosmica dell’anima, che giudico piuttosto appropriata, è quella di <<mondo sottile>> ed il riferimento è - con evidenza - alla materia subtilis di San Tommaso. È questo un mondo, appunto intermediario - il barzakh dell’Islam - ed appartiene al dominio del manifestato "dove" s’estendono le valenze sottili della Terra3, che giungono, nei termini della cosmologia dantesca, a sfiorare il cielo della Luna4, simbolo dell’incipit della manifestazione informale o sopraindividuale e dominio degli Angeli ( o animæ) cælestes5.

Da ciò derivano importanti conseguenze su quello che si deve intendere per realtà: la prima e più importante è che quanto concepiamo - ed il concepire, la capacità di concettualizzare è funzione fondamentale dell’intelletto - non è astratto ma reale; anzi, appartiene al dominio più alto degli infiniti livelli del reale che, in questa prospettiva, vediamo disporsi secondo un preciso ordine gerarchico. Mere astrazioni - e quindi dotate d’un grado minimo di realtà - sono invece le costruzioni esclusivamente formali della fisica contemporanea dove l’idea di cosmo, sottesa alla sofisticata elaborazione matematica che la formula, risulta del tutto antintuitiva e paradossale.
 
 

Le cosmologie tradizionali, a differenza di queste ultime, traggono ogni loro sviluppo da quei fondamenti, che ho prima citato e, proprio per l’oggettiva natura di essi, non possono appartenere al novero delle fantasie6 essendo tali (a volte anche dotte e complesse) affabulazioni nient’altro che l’elaborazione individuale, nel crogiolo animico, di semplici dati sensibili.
 
 

Il momento del cambiamento, quello che ha modificato il punto d’equilibrio, alterando il ruolo d’intermediazione della componente cosmica e microcosmica centrale, è coinciso con l’affermarsi del pensiero cartesiano e la nascita del razionalismo. Razionalismo, che nella speciale e nuovissima idea d’intelligenza, propria a questo filosofo trova il suo presupposto: dalla tripartizione si passa ad un dualismo anima/corpo che, per la lacerazione, l’invalicabile trincea da ciò determinata, è meglio definire dicotomia. L’intelletto non più coincide con lo spirito - del quale restano solo flebili ed astratte tracce nelle <<idee innate7>> - ma con la ragione, la cui sede, per altro appropriata, è appunto l’anima che, curiosamente collocata nella ghiandola pineale, diventa perciò semplice epifenomeno della fisiologia8.
 
 

Per comprendere quanto avvenne, è importante avere ben chiaro in qual modo, parlando di anima e portandola a coincidere con l’intelletto - ed esso, come si è visto, fu identificato alla ragione - Cartesio non intendesse affatto rinsaldare quella che era la sua normale funzione mediatrice ma - così speculando - semplicemente ne determinasse l’eliminazione proprio avendola fatta assurgere a riferimento più alto del sistema (promoveatur ut amoveatur!). A tutto questo deve aggiungersi la di lui inclinazione matematica, che, unita ad indubbie capacità logiche ed organizzative del pensiero, fece sì che lo studio della natura assumesse - probabilmente superando i suoi intendimenti ma con impatto fondante per le ideologie che sarebbero venute - il carattere d’una spiegazione puramente meccanica ovvero materialistica della realtà.
 
 

È per avere, nel corso di questi ultimi secoli, lentamente introiettato la lezione cartesiana che, la Chiesa, oggi, non padroneggia più il mondo intermediario mentre ora è da lì9 - e non certo dai pressoché, nel frattempo, esauriti positivismo e materialismo - che si deve attendere l’attacco finale. Le forze che lo preparano - le quali, da epoche remote, molto lontane dalla nascita dello stesso mondo moderno, penultimo, oscuro avatar della loro strategia - non si rifanno certo al più alto dei tre componenti ma nel mondo sottile sanno muoversi benissimo e, da quell’immenso ricettacolo psichico, stanno traendo gli ingredienti per dare forma a quella spiritualità à rebours oramai presente ed evidente sui molti scenari in cui va rappresentandosi la società contemporanea.
 
 

II


 



Senza voler risalire fino alla scaturigine di quelle forze, che stanno preparando questa contraffazione della spiritualità, si possono cercare di ravvisare, nei secoli precedenti lo start point del 1492, alcuni dei fattori - spesso di per sé del tutto incolpevoli - sui quali esse poterono poi giocare per innestarvi il processo eversivo sopra accennato. In questo senso è indubbiamente importante la figura di Averroè (ibn Rushd, 1126/1198).
 
 

La famiglia del filosofo aveva un ruolo sociale ragguardevole: apparteneva all’élite araba di Spagna ed il padre m’anche il bisnonno erano stati giudici supremi (qadi-al-qodat). Il suo pensiero non fu però gradito alla dinastia regnante degli Almohadi mentre furono i rabbini della Spagna settentrionale cristiana nonché della Provenza, che fecero copie dei testi con il modesto artifizio criptico della sola traslitterazione in alfabeto ebraico10. In questa forma e per questo canale, essi pervennero - Federico II regnante - a Palermo e lì, l’astrologo di corte Michele Scoto, le tradusse in latino. Si trattava, in prevalenza, dei commenti a Aristotele: <<Averrois che ‘l gran commento feo>>11.
 
 

Da questo stato di cose derivò che, in Occidente, Averroè venne ritenuto il filosofo arabo per eccellenza mentre, nell’Islam, è pressoché ignorato avendo un posto assolutamente preponderante Avicenna12 (ibn Sina, 980/1037): nella cosmologia, che ho sommariamente delineato nei passi precedenti, è prevalentemente espresso il suo punto di vista e quello dell’avicennismo latino13, sul quale pesò sempre un qualche sospetto di gnosi14, a sua volta ossessione e nemico perenne dell’immaginario cattolico sino ai nostri giorni. Queste riserve e latenti ostilità costituirono l’humus adatto ad accogliere le dottrine di Averroè, dando luogo a quell’averroismo latino che - estremizzandole - ebbe miglior fortuna del suo arabo predecessore così preparando le condizioni per un vulnus devastante al corpo della Christianitas.
 
 

Averroè contesta alla cosmo-angelologia avicenniana il suo schema triadico, non ammettendone proprio la componente intermedia, in un rivolgimento della processione discendente, il quale - curiosamente - richiama quella che sarà poi l’opinione cartesiana in ordine alle idee innate come potenzialità della facultas cogitandi (cfr. supra n.7): non più ogni Intelligenza (gli Angeli intellectuales, cfr. supra n.5), per auto-intellezione, produce l’Intelligenza che la segue (gli Angeli cælestes) ma è quest’ultima che causa l’altra perché è da essa conosciuta. Il superiore pertanto non è più creatore ma, per l’atto dell’inferiore, diventa causa finale o meglio, proprio perché è causa finale, acquista lo status di causa agente.
 
 

Questa alterazione, cui è sfuggito l’Islam ma per la quale esistevano alcune predisposizioni nel Cristianesimo medievale, comportò un profondo cambiamento nel modo di sentire m’anche di giustificare la condizione dell’anima individuale: il rapporto delle Intelligenze empiree con quelle celesti è infatti un rapporto di congiunzione (suzugia). È, in altri termini, un rapporto di coppia, dal quale risulta - nell’inferiore - una tendenza a superare lo ïato che s’interpone con chi lo precede. La stessa relazione, s’intende sussista tra le anime umane e quelle celesti15, conseguendone che vita cælo comparanda est e, in tale imitatio, l’anima dell’uomo, una volta presa coscienza di star vivendo questa diade, dovrebbe, in una metanoia rigeneratrice, intraprendere il cammino al fine di sottrarsi all’esilio per ricongiungersi con chi l’ha generata16.
 
 

Il tema dell’esilio e del riscatto dal terreno stato di tribolazione, ottenuto con il raggiungimento della patria celeste è argomento d’un ciclo avicenniano la cui corrispondenze (ai due estremi temporali) più note in ambito cristiano sono l’"Inno dell’Anima" degli Atti di Tommaso (apocrifi) e la "Divina Commedia". Dopo Dante questo soggetto cessa d’appartenere all’ortodossia confinandosi o in settori decisamente eretici o, in ogni caso, sospetti e marginali. L’ultimo epigono deve essere considerato Angelus Silesius (s.p.n. Johann Scheffler, 1624/1677), il quale, con il "Cherubinischer Wandermann", ripercorre strade ormai impervie nonostante la sua conversione dal luteranesimo al cattolicesimo, vissuta fino all’ordinazione sacerdotale: non si deve dimenticare che la sua filiazione spirituale, pel tramite di von Franckenberg, lo lega a Jacob Bœme.
 
 

Con l’affermarsi della modernità, si passerà dai racconti simbolici al romanzo, alla letteratura intesa quale trionfo della fantasia individuale ed alla sistematizzazione crociana dell’arte per l’arte, intesa in un’accezione meramente estetica, fino a quando, perduto ogni centro di riferimento, abbandonato anche quest’ultimo appiglio, si giunge al caotico ed all’insignificante; all’astratto appunto. Ovvero a quel livello soltanto formale d’esistenza che, come abbiamo già visto, corrisponde - in ogni campo - ad un grado minimo di realtà. Si arriva insomma ad una fase che potrebbe essere definita del <<silenzio della natura>>17, in quanto questa cessa di parlare all’uomo, di collocarlo correttamente nel creato e di metterlo in contatto con tutti i livelli del reale: un mondo di morte come quello che - non a caso - ci rimandano le immagini dei nostri strumenti spaziali, lanciati in un’indefinitesima parte d’una indefinitesima porzione del cosmo. Spinti all’impresa dalla convinzione di saper ora, veramente, com’esso è fatto e che quello che investighiamo, in tutte le accessibili frequenze elettromagnetiche, riconducibili - artificiosa via - alla lettura dei nostri sensi, sia l’universo: ossia che, in termini metafisici, desueti in quest’alieno contesto, in esso consista tutto il manifestato. Per avere ben chiare le ragioni dell’influenza di Averroè, bisogna però approfondire il discorso ebraico.
 
 

III


 



Complicato è capire perché ci sia stato questo interesse rabbinico per l’opera di Averroè, cosa insomma sia avvenuto nella sua trasmissione ai gentili ed il perché di essa: a mio parere, i suoi scopi erano, in prevalenza, motivati da ragioni interne alle comunità ed il transfert ai cristiani restava un fatto secondario. Era però vero che, proprio attraverso la vasta rete delle comunità e, in particolare, grazie ai circoli cabalistici, gli scambi, a livello dottrinale18 con il mondo cristiano, non furono, in quel lontano passato anche se in forme non sempre palesi, mai venuti meno. Le notizie, quindi, filtravano o erano espressamente comunicate.
 
 

Per apprezzare la necessità di questo non facile rapporto, non si deve dimenticare che, il Cristianesimo manca d’una lingua sacra19: è noto come la rivelazione - il testo evangelico - non ci sia pervenuta in originale ma in traduzione. Per questo l’ebraico e pertanto i rabbini o gli ebrei convertiti sono sempre stati20, fino alla fioritura rinascimentale dell’ebraistica cristiana21, un riferimento imprescindibile, con la già accennata differenza che, per i circa mille anni, intercorrenti tra la tarda antichità ed il Rinascimento, queste relazioni non ebbero pubblica evidenza. È inoltre sempre attraverso questo canale che venivano curati i contatti con l’intellettualità (i.e. esoterica) islamica.
 
 

Ritornando agli scopi interni ebraici, ritengo che, in quella tradizione, l’interesse sia derivato di un filum remoto, il cui atteggiamento, verso la Scrittura, potrebbe definirsi - lato sensu - protestante. A voler essere del tutto conseguenti, il Protestantesimo stesso è stato poi possibile perché, a quello stesso filum, apparteneva - ab origo - pure il "Novus Israel"22. Specifico: esistono "due" Thorà, la scritta e l’orale ma l’accezione, nella quale deve essere interpretata questa classifica, trascende il senso corrente degli aggettivi. La "scritta" (miqra) deriva da una radice qara il cui principale significato è leggere. Da questo accade che, scrittura e lettura m’anche comprensione, si trovino ad essere strettamente connesse. Il testo sacro ha pertanto una trasparenza, che è compito del lettore percepire e ciò è a misura delle sue capacità: in un contesto non più cosmologico ma esegetico, si tratta, ancora una volta, dell’eliminazione di un medium23.
 
 

L’Ebraismo assolutamente maggioritario24, quello normalmente conosciuto come tale, appartiene però al filum orale (pèh)25 ed è quello che un medium, regolarmente istituzionalizzato, lo possiede: l’interpretazione rabbinica. È soltanto col Rabbi spagnolo Maimonide (1135/1204: quindi conterraneo ed immediatamente successivo a Averroè) e nel suo pensiero che, le due Thorà sembrano ricongiungersi. La questione è molto sottile e difficile da affrontare ma cercando una sintesi, si può, senza falsarla, ridurre l’esposizione col ricondurre tutto al problema degli attributi negativi di Dio (via negationis). Attributi, che sono quelli più adatti a significare la natura ultima del Principio26 in quanto sciolgono da un vincolo, da un limite e permettono, sia pur imperfettamente, di dare una qualche espressione all’ineffabile e di pronunciarsi intorno a ciò che non ha alcun confine. Di converso, all’aggettivazione positiva (via affermationis) appartiene la descrizione di quell’aspetto del reale che include tutto quanto è pertinente l’ontologia27.
 
 

Maimonide, nella sua totale adesione a tale verità intuitiva28, ma non facile da cogliere per i più, giunge ad affermare: <<colui che presta a Dio gli attributi affermativi, elimina dalla sua fede l’esistenza stessa di Dio>>29. In quest’asserto e nelle sue premesse, si può forse trovare la scaturigine dell’abbaglio, che, in certi ambienti dell’integralismo cattolico, ha potuto svilupparsi fino al punto d’arrivare ad una conclusione, per la quale la classe rabbinica sarebbe, nascostamente e da secoli, atea; ingannando così i propri fedeli al solo scopo di trascinarli contro il Cristianesimo ultimo baluardo d’una fede nel trascendente. La motivazione del fraintendimento è intrinseca alla cultura cattolica, da secoli sempre più solamente exoterica, quindi esclusivamente teologico-affermativa e pertanto in grandi difficoltà con un argomentare d’ordine metafisico30. Comunque, sebbene Maimonide sia la figura di riferimento in ordine a questo tema, già prima di lui, in ambito ebraico, lo fece oggetto d’attenti studi la scuola di Saadia Gaon (882/942).
 
 

Questo tipo d’approccio a tali problemi non creava difficoltà di comprensione soltanto al di fuori delle comunità, in esse infatti, da alcuni, il superiore piano metafisico dell’opera di Maimonide non fu compreso e presolo per scetticismo, si vennero a creare le basi per una separazione del mondo da Dio. Perché lo scetticismo? Ma in quanto per Maimonide la lettera della Scrittura è un’allegoria ed il senso vero è un altro mentre per Averroè, nel Corano, c’è un’unica verità, suscettibile di piani interpretativi diversi a seconda dei livelli di comprensione dei singoli. Concettualmente la differenza non è rilevante ma è nel momento interpretativo che la prima formulazione può, maggiormente, prestarsi al fraintendimento: è da qui infatti che deriva tutto il tema della doppia verità.
 
 

Non è quindi Averroè ad aver tolto cogenza erga omnes alla Legge ma piuttosto Maimonide, o meglio, coloro che lo fraintesero e, per loro, l’errore trovò modo di passare nel campo cristiano proprio attraverso quei rapporti, che avevano permesso la costituzione dell’averroismo filosofico e politico latino. Questi germi premoderni non erano però ancora il male: l’elemento dirompente, che nascondevano, esplose dopo la catastrofe spagnola con la quale ho iniziato questo lavoro: il marrano è un cattolico catechizzato ma senza fede, ebreo per volontà ma senza vera cultura ebraica. Questo dramma, maturato su un humus intriso della vulgata lectio del pensiero di Maimonide ha, appunto, generato lo scetticismo: quando il marrano riesce a lasciare la Spagna e va in Olanda o dovunque possa, senza pericolo, ritornare alla fede tenuta sino ad allora nascosta, passa, da un vissuto ebraico solo immaginario e quindi tutto mentale, alla realtà concreta dell’osservanza. A quel punto, sorge in lui l’impressione di star recitando, la stessa impressione provata prima, all’epoca della costrizione: vive allora l’Ebraismo con la stessa distaccata estraneità con la quale aveva vissuto il Cristianesimo, traendone così la convinzione che la verità sia sempre altrove, ben lontana quindi dalla forma storica d’ogni religione31.
 
 

La Thorà, che può ora praticare, gli appare soltanto come l’immagine sostitutiva d’un qualcosa più alto e nascosto. È in questa impossibilità del Vero a calarsi nel nostro mondo, in questa incommensurabile lontananza, del tutto analoga all’invalicabile trincea tra divino ed umano provocata dal dualismo cartesiano, che poté inserirsi il messianismo antinomistico ed apostatico di Sabbatai Zevi (1626/1676)32 ed in seguito, sul terreno da lui preparato, quello militante e nazionalista ante litteram di Jacob Frank (1726/1791)33, il quale, ponendo per primo la necessità d’un territorio, impostò le premesse pel sionismo d’un secolo dopo. Fu solo quest’ultimo, laico e socialista, erede dell’illuminismo ebraico (l’Askala), che, condotto all’estreme conseguenze il lascito risultante da tanti rivi ed in analogia con l’invenzione dei nazionalismi europei34, con un atto teurgico inverso, fece della nazione il proprio dio.
 
 

Nelle argomentazioni precedenti, si trova che, la costante, all’origine della rottura della regolarità dottrinale, è indicata nell’insorgere d’una incomprensione. Questa, spesso, si verifica al momento della diffusione d’una qualche formulazione sapienziale, la quale, uscita da ambiti intellettualmente elitari e socialmente ristretti ma pervenuta, ormai deformata e malintesa, ai più, scatena, sotto una veste ampiamente eterodossa, una serie di reazioni incontrollabili ed eversive. Che tutto ciò avvenga spontaneamente è, a mio parere, caso raro e limitatissimo, dovendosi, in prevalenza, attribuire i maggiori effetti, all’azione di quelle forze profondamente innovative, cui faccio cenno all’inizio. Forze, sulla natura delle quali sarebbe necessario uno studio specifico ma che - come si vede, dal poco detto - si mostrano perfettamente in grado di trarre profitto da ogni fessura ed appiglio, offerto dalla struttura tradizionale. Capacità, che loro derivano da condividerne tutta l’impostazione cosmologica, dalla quale, traggono una perfetta padronanza sia del mondo grossolano, sia di quello intermediario, stando la loro incomprensione sul piano della metafisica35. Da questa fondamentale ignoranza, sviluppano una competitività totale anche se forzosamente perdente rispetto a ciò che si prefiggono (cfr. supra I, in fine): è però importante capire quanto, esse stesse siano ben coscienti dell’artificiosità del moderno, la cui imposizione è, per loro, solo un momento preparatorio.
 
 

Ora, questa fase è stata praticamente portata a termine; la scienza sacra è irrisa e ignorata, la società non è emendabile e tutti i tentativi pratici, privi d’un supporto conoscitivo adeguato, si rivelano, il più delle volte, peggiori del male che vogliono combattere: unica strada è la ricerca d’una chiarezza intellettuale in grado di discernere il senso profondo dei moti in atto ed ancor più di quelli avvenire, ben sapendo - come afferma l’Induismo - che, nei tempi ultimi, in attesa del raddrizzamento finale, tutto il sapere della Tradizione Primordiale sarà così ridotto da star tutto in una conca.
 
 

NOTE


 


1 Niente a che vedere con l’intuizione comunemente intesa e d’ordine esclusivamente infra-razionale ma pure lontanissima dell’intuizionismo filosofico d’un Bergson.

2 È per questa ragione che, la sistematizzazione filosofica tipica dei filosofi moderni, intenti alla creazione di personali linguaggi e prospettive, altro non possa esprimere se non le caratteristiche ed i limiti della Weltanschauung di un singolo piuttosto che un’obiettiva e pertanto v e r a rappresentazione del reale. Nel mondo della tradizione, di personale, il saggio non metteva che la forma.

3 Per ben capire quanto dirò in seguito è opportuno precisare che queste appartengono alla manifestazione formale o ‘alam al-mithal (mundus imaginalis, sede delle animæ humanæ ) ovvero barzakh inferiore.

4 Qui, la Luna e tutti gli altri corpi celesti, che appartengono al cielo visibile, sono da intendere non in un’ingenua rappresentazione della natura ma quali paredri di stati superiori e loro proiezioni sul piano del sensibile, avendo sempre ben presente che, usando i nomi di queste ultime, sono i primi che s’intendono.

5 Barzakh superiore, che attiene alla manifestazione informale, è definito ‘alam al-ghayb (mundus arcanus). Al di fuori della manifestazione o del cosmo c’è l’Empireo sede divina e degli Angeli intellectuales o Arcangeli.

6 La veste mitica ed il peculiare linguaggio religioso, non più trasparente ai contemporanei, inducono spesso a dare loro questa indebita classificazione.

7 Esse, dice, sono potenzialità della facultas cogitandi; in effetti, è tale facultas, che, in potenza, risiede in esse e pertanto ne deriva che, il suo famoso cogito ergo sum dovrebbe volgersi in un più metafisicamente corretto sum ergo cogito.

8 È invero singolare anche quanto riesca ad immaginare pel funzionamento e l’interazione del sistema: è tutto un - poco fisiologicamente e razionalmente riscontrabile - aprirsi e chiudersi, secondo necessità, di pori e canali.

9 S’intendono naturalmente i livelli più bassi del mundus imaginalis e non certo il barzakh superiore.

10 Artifizio assai relativo perché questa, in quelle comunità, sembra essere stata quasi pratica corrente essendo l’arabo lingua d’uso comune.

11 Inf. IV.144.

12 Anche la forte deformazione riscontrabile nella latinizzazione del nome dei due filosofi passa per il filtro ebraico: l’arabo ibn, figlio, suonava, in Spagna - in quel dialetto arabo - aben mentr’era aven per la pronuncia degli ebrei conterranei; essendoci i testi pervenuti per il tramite di quest’ultimi, è facile spiegarsi l’avvenuta mutazione.

13 Il suo essere ai limiti dell’ortodossia exoterica ufficiale non esclude di ritrovarlo, in tutte le epoche della nostra storia ed in forme di diversa evidenza, come custode più fedele del deposito tradizionale pervenutoci, ab immemorabili, quale Philosophia perennis.

14 Senz’altro questo allarme fu provocato dallo sviluppo, in esso, dell’angelologia: se il rapporto con Dio avviene pel tramite della funzione angelica, la persona individuale, la quale, di questa funzione, fruisce in modo privilegiato, viene a godere d’una autonomia che può insidiare l’esclusivismo magistrale della Chiesa. È perciò, ch’ogni esoterismo è stato combattuto m’anche per lo stesso motivo, privatasi la Chiesa delle necessarie difese, comunque sino ad una certa data (1307: distruzione dell’Ordine del Tempio) presenti nella Cristianità, sono state aperte le porte a forze non più controllabili.

15 Con questa differenza; la diade angelica è separata dalla cesura cosmica: manifestato/non manifestato mentre la coppia inferiore, all’interno del cosmo, è nel rapporto manifestazione formale/manifestazione informale. Ciò determina una particolarità interessante; la manifestazione informale è sopra-individuale, pertanto, ad ogni Intelligenza celeste (ma il legame, per le già dette relazioni, è anche con le entità arcangeliche del non manifestato) competerà, secondo una legge d’affinità, una moltitudine di anime (individuali) umane, riassumendosi in ognuna di esse un archetipo tipologico (Rabb al-Nû’, signore della specie). Al sommo della scala gerarchica, nel pleroma divino, c’è l’Angelo dell’Umanità, il CristoV AggeloV della cristologia d’Origene, che ci mostra un Salvatore quale Uomo tra gli uomini ed Angelo tra gli angeli.

16 In questa funzione soteriologica e necessaria dell’Angelo trova origine il culto dell’Angelo Custode oramai incompreso e gettato tra le puerilità di un passato da dimenticare e del quale scusarsi.

17 L’espressione - usata in una prospettiva diversa da quella di chi scrive - è dell’amico Prof. Umberto Bartocci dell’Università di Perugia e del resto, il presente lavoro è frutto della successiva elaborazione di una corrispondenza con lui.

18 In specialissimo modo, esoterico.

19 È motivo di questo, il suo sorgere quale Giudeo-Cristianesimo, della successiva, profonda rottura antinomistica e pro-gentili di Paolo nonché del naturaliter ruolo egemone del greco in quella koinh ² tardo-ellenistica ch’era tutto il Medio Oriente d’allora, comprese molte comunità ebraiche nelle quali l’uso anche liturgico della lingua nativa era pressoché scomparso.

20 Fu grazie al rapporto con un rabbino che S. Gerolamo (347/420), durante il suo soggiorno in Oriente, poté realizzare la prima fedele traduzione in latino dell’Antico Testamento, nota col nome di "Vulgata" aggiungendo così alla græca fides (i Vangeli) quella che chiamò l’hebraica veritas.

21 Iniziata da Johannes Reuchlin (1455/1522) col "De arte cabalistica" nel 1517 mentre al suo compimento, si giunge soltanto nel XIX sec. con la nascita dell’accademica Judentum Wißennschaft.

22 Cfr. supra n.19.

23 Interessante sarebbe approfondire ma esula dai limiti di questo studio, come, anche a livello sociale, l’irrompere della modernità abbia potuto avvalersi d’un "vizio" borghese ossia peculiare di quella classe medium tra le due superiori ed il popolo: la cupidigia pel denaro. Il più illustre contagiato fu Filippo il Bello (Purg. 20.93) che, da quell’appetito, fu indotto ad aggredire il Tempio. Risaputo è infine i l ruolo determinante svolto dall’emergere del successivo capitalismo.

24 Con qualche semplificazione, gli altri ebraismi sono: i Samaritani, che preferiscono essere considerati Israeliti in conformità alla loro discendenza dalle dieci tribù settentrionali. Gli Esseni non più esistenti, dai quali però i Caraiti (dalla Ö qara), vogliono derivare. Stessa affinità per il Giudeo-Cristianesimo (cfr. supra n.19) come ci appare da quanto riscontriamo d’affine con Qumrân.

25 La Thorà "orale", a sua volta, si suddivide in "con e senza il testo a fronte". È la seconda forma, sviluppatasi con Esdra, che ha generato l’enorme commentario rappresentato dei due Talmud e, data origine all’istituto sinagogale ed al rabbinato (Fariseismo), ha permesso la sopravvivenza dell’Ebraismo dopo la distruzione del Tempio. L’altra, in vario modo, in essa confluisce ma le sue tradizioni - l’insegnamento parabolistico del Midrash - sono fondamentali nella predicazione del Cristo.

26 Il Non-Essere o Deus Absconditus il cui vultus conoscibile è, per il cristiano, su tutti i piani dell’essere, il Vultus Christi. Cfr. anche il ruolo che gli attributi negativi hanno nell’Advaita Vedanta dell’Induismo.

27 Il mondo sensibile, i due barzakh e l’Empireo.

28 Cfr. supra n. 1.

29 Maïmonide, La guide des égarés, Verdier, Paris: I.60, p. 144.

30 Etichetta sotto la quale, nella cultura contemporanea, si possono classificare concetti eterogenei, di norma lontani dal senso proprio del termine.

31 Devo queste illuminanti considerazioni a Shmuel Trigano, La demeure oubliée, Gallimard, Paris, 1994.

32 Cfr. Gershom Scholem, Sabbataï Zevi, le Messie Mystique, Verdier, 1983.

33 Cfr. Arthur Mandel, Le Messie Militant, Archè, 1989.

34 Sarebbe interessante vedere quanto di costruito ci sia stato, dopo la rivoluzione francese, nel sorgere dei vari stati-nazione, tutti in corsa verso gli stessi traguardi: lingue (morte o pressoché tali, fatte risorgere come nel caso stesso dell’ebraico d’Israele o comunque lingue letterarie, estranee al popolo, imposte d’autorità) volute per meglio omologare e livellare chiunque vivesse entro i confini diventati sacri. Bandiere, inni, poemi ancestrali (anche questi, in gran parte, invenzioni di filologi spacciate per portentosi ritrovamenti), abiti nazionali non più indossati e spesso proibiti da secoli (quello scozzese ad es.) riesumati a miglior immagine e precisa distinzione dello stato-nazione. Tutta una terminologia religiosa applicata a istituti nuovissimi: sacri doveri, sacri confini, resurrezioni…..e a personaggi d’ogni tipo: martiri, apostoli…….Con tutto il portato di differenze diventate incolmabili e poi lingue e costumi (invece autentici e praticati) negati, irrisi mentre altri - estranei - imposti. Insofferenze, odï, stragi, persecuzioni, deportazioni …….

35 Per meglio comprendere sia la differenza tra intelletto e ragione nonché la coincidenza del primo collo spirito, sia l’attuale abuso della qualifica di intellettuale - sempre così ambigua - basti ricordare la nota osservazione (impostata su Inf. 3.18) che, nei cerchi danteschi, i dannati <<.. hanno perduto il ben dello intelletto>> ma ragionano benissimo.
 


- - - - -


 



Bruno d’Ausser Berrau di famiglia alsaziana vive da anni in Toscana. Già ufficiale di carriera con una formazione di ingegnere è oggi uno studioso indipendente di storia delle religioni e temi di carattere tradizionale. In ordine a questi argomenti, ha pubblicato il saggio "La Scandinavia e l’Africa" presso le edizioni del "Centro studi LA RUNA".