Quirino Majorana
(da: http://www.df.unibo.it/museo/uimages/ritra9.jpg)


 


[Episteme è certa di far cosa utile ai lettori proponendo loro un discorso di Quirino Majorana sulle teorie di Einstein, assai difficilmente reperibile altrimenti, in quanto esemplare di un modo alquanto comune di considerare la relatività da parte di un'intera generazione di fisici, prima che quella successiva, dopo il clamoroso trionfo delle concezioni di Einstein ad Hiroshima e Nagasaki, cadesse in preda dello stato d'animo che Franco Selleri definisce brillantemente epistemologia della rassegnazione (La causalità impossibile - L'interpretazione realistica della fisica dei quanti, Ed. Jaca Book, Milano, 1988, p. 13). Va rilevato subito come il Majorana cada anch'egli in alcuni tipici comuni fraintendimenti della cinematica relativistica, la cui presenza consente purtroppo ai sostenitori della "nuova fisica" di riguardare con occhio di sufficienza a tutto il resto dell'argomentazione, compresa la parte di natura sperimentale. Del resto, anche tali errori sono comunque istruttivi, a dimostrazione di quanto lo spazio e il tempo di Einstein siano anti-intuitivi, e suscettibili quindi di siffatte incomprensioni anche da parte di uno scienziato che non può certo essere ritenuto di scarsa intelligenza].

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Le teorie di Alberto Einstein

Discorso tenuto dal Prof. Quirino Majorana

All'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna

In occasione della inaugurazione dell'Anno Accademico

Nella sessione del 9 Dicembre 1951


 



Quando, una ventina di giorni addietro, il Presidente della Classe di Scienze Fisiche (alla quale spetta per turno di tenere il discorso inaugurale, Prof. Alessandro Ghigi, forse in omaggio al mesto privilegio della mia anzianità (appartengo da 30 anni a Questa Accademia), mi invitò a tenere questo discorso, io cercai di esimermi da tale onorifico incarico. Osservai, infatti, al Presidente, che non avrei avuto il tempo per prepararlo adeguatamente. Infatti, dissi, ho in corso lavori, per me, di grande interesse, e non mi sarebbe possibile distrarre da essi quel tempo. Avendo il Prof. Ghigi insistito nell'invito, si convenne che avrei appunto potuto parlare di tali lavori, per quanto in Questa Sede ed in questo momento, si dovrebbero trattare solo verità, fatti o teorie, già solidamente acquisite dalla Scienza. Debbo dire però, che l'argomento o lo studio che ora compio, mi occupa intensamente da un decennio. Di esso, peraltro, mi ero occupato saltuariamente, sin dal 1916. In tutto questo periodo, ho alternato le ricerche logiche, con quelle sperimentali, in relazione alle Teorie di Alberto Einstein, che, nella prima forma, comparvero nel 1905. Quanto avrò occasione oggi di riassumere è già comparso, od è in corso di stampa, negli atti Accademici.

Credo opportuno che io dichiari sin dal principio, come io sia decisamente contrario alla accettazione delle teorie del fisico tedesco. Voglio però altresì ricordare, come fra i cultori di fisica ed anche di matematica, io non sia il solo ad avere un simile atteggiamento. Fra gli oppositori alle Teorie di Einstein, si possono ricordare i seguenti, veramente autorevoli Dingler, Duhem, Esclagon, Geherke, Gleich, La Rosa, Lenard, Milne, Mohorovicic, Painlevé, Reuterdhal, Righi (che scrisse quattro Memorie, proponendo un esperimento contro la relatività), Sce, Somigliana, Wiechert, e molti altri. Il numero di tali oppositori è dunque notevole, pur essendo piccolo, di fronte alla stragrande maggioranza di coloro che credono alla relatività di Einstein. Ciò non di meno, io credo che si tratti di un contrasto, che non ha precedenti nella storia della Scienza. Tale contrasto è tanto più acceso, in quanto ha degenerato spesso in vivaci e non conclusive polemiche. Leggendo i lavori degli autori citati, e specialmente quelli tedeschi, è facile trovarvi qualifiche aspre delle teorie di Einstein. Così, vi si afferma che esse rappresentano una mathematische Fiktion; oppure che esse sono überflüssig und falsch; od infine che esse non costituiscano che un drolliger Witz.

Il mio orientamento, non dipende tanto da simili asserzioni, quanto dalle mie particolari attitudini sperimentali. Esse risalgono a ben 60 anni addietro, a quando cioè cominciai, dopo aver conseguito la laurea di ingegneria, a preparare la mia tesi sperimentale, per la laurea in fisica. Da allora, ho sempre continuato nel mio metodo; preparando quasi sempre da me stesso, gli apparecchi necessari alle mie ricerche. Ritengo che ciò mi abbia permesso una più netta visione della realtà dei fatti. Anche in quest'anno, profittando della ospitalità del Collega Prof. Giorgio Valle, che ho ancora il dovere di ringraziare, ho allestito un dispositivo sperimentale, che prova l'infondatezza della teoria di Einstein. Dico ciò, a parte i ragionamenti che mi conducono allo stesso risultato, ed a cui farò cenno.
 
 




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Nel corso di tutto il secolo XIX, si è delineato il grande successo di un'importantissima teoria, che segnò un vero progresso della Scienza, col fornire uno schema veramente suggestivo, dei fenomeni non propriamente materiali, ma ottici, ossia dell'energia raggiante. Si tratta della teoria dell'etere cosmico. Essa, in opposizione con quella, autorevolmente formulata da Newton, (che poi, per un curioso avvicendamento delle idee umane, è risorta nel nuovo secolo, sia pure alquanto modificata), si appoggia ai nomi di pionieri come Huygens, Young, Fresnel, Faraday, Maxwell, Hertz, Lorentz. Sulla fine del secolo XIX, nessuno sembrava dubitare dell'esistenza di quel tenuissimo e, per vero, incontrollabile fluido, che, riempiendo tutto lo spazio (anche quello fra gli atomi naturali, e gli atomi stessi), dava ragione delle minute caratteristiche del fenomeno ottico. In quell'epoca, facevano testo libri di grandi scienziati, dal titolo: "Fisica dell'etere". Mi ricordo che Galileo Ferraris, quando nel 1895, presiedeva la Commissione per l'imposizione della tassa sull'energia elettrica, (di cui io fui segretario), forte dei suoi successi del suo campo magnetico rotante, mi diceva: "Stiamo per toccare con mano l'etere". Senza l'etere, non erano spiegabili, per es., i fenomeni di polarizzazione, il campo elettromagnetico, e la sua propagazione.

Ma come quasi tutte le teorie umane, anche quella dell'etere cosmico era destinata a cadere. Esaminiamo la ragione di ciò. Il fisico si rendeva conto dei fenomeni meccanici. La meccanica di Galileo e di Newton pareva avesse ormai nulla di oscuro. Si dice ciò, tralasciando di considerare che nulla l'uomo ha mai saputo, nè forse saprà mai, della vera essenza dei fatti fondamentali della meccanica, come l'inerzia e la gravitazione. Comunque, certi principii erano generalmente e facilmente accettati, forse perchè appoggiantisi alle dirette impressioni dei nostri sensi. Fra essi la relatività del moto, detta relatività di Galileo. In alcune stupende pagine, questi rilevò come non fosse possibile accorgersi, nell'interno di un sistema (la nave, nell'esempio di Galileo) del suo moto di traslazione, rispetto ad altri sistemi.

Ma nello spirito del fisico, per quanto riguarda i fenomeni ottici, od elettromagnetici, qualcosa rimaneva di assai oscuro. Si dice ciò, perchè la teoria dell'etere avrebbe ammesso, che nell'interno della nave di Galileo, sarebbe stato rilevabile il suo moto, servendosi di fenomeni ottici. Infatti, la sua teoria corrispondeva ad ammettere, che, nell'immensità degli spazi, l'etere costituisse qualcosa di immobile, capace però di subire perturbazioni elastiche, propagantisi nello spazio stesso, con la velocità della luce, cioè di 300.000 km/sec. Si domandava allora: se l'etere veramente esiste, la materia in moto agirà in qualche modo su di esso? Le risposte logiche a tale domanda potevano essere tre: l'etere resta fermo nella sua originaria posizione; l'etere rimane trascinato dal moto dalla materia; l'etere rimane parzialmente trascinato dalla materia. Il fisico tentò di chiedere all'esperienza, la risposta a tale domanda, già verso la metà del secolo scorso.

Dopo esperienze non conclusive, che datano dal 1867, ad opera di Babinet, e dal 1874, di Mascart e Jamin, ne fu realizzata una famosa, dovuta a Michelson e Morley, nel 1881. Con essa, i suoi autori si proponevano di vedere se, orientando un certo apparecchio (interferometro) diversamente, rispetto al moto della Terra intorno al Sole, si osservasse, in conseguenza di quel moto (30 km/sec) qualche effetto. L'esperienza che fu poi ripetuta più volte, ebbe esito negativo. Si sospettò che tale risultato potesse dipendere da trascinamento totale o parziale dell'etere, da parte della Terra. Si fecero così, esperienze situando l'apparecchio alquanto discosto dalla superficie sferica, media, terrestre: e, per vero, dapprima sul Monte Wilson (1800 m di altitudine); e poi, da Picard in pallone libero, sperimentando per 4 ore a 2500 m di altezza. L'esito di tali ricerche fu sempre negativo[1]. Le caratteristiche del fenomeno ottico, interessante i corpi in moto, rimanevano dunque misteriose. Fu così che Fitz Gerald, e Lorentz, indipendentemente, avanzarono un'ipotesi che aveva il carattere di coup de pouce (come diceva Poincaré). Secondo essa, ammettendo pur sempre la reale esistenza dell'etere, la materia, costretta a muoversi attraverso di esso, si contrarrebbe alquanto, nella direzione del moto[2]. Il valore di tale contrazione sarebbe precisamente quello necessario, a giustificare il nessuno effetto, rilevato nell'esperienza di Michelson. Questo concetto fu bene sviluppato in una seconda teoria di Lorentz, che stabilì certe equazioni, che vennero chiamate Trasformazione di Lorentz. Mediante esse, si poteva spiegare perchè, conferendo moto uniforme a della materia, i fenomeni ottici si svolgano in essa, come quando è ferma.

Forse perchè la spiegazione di Lorentz appariva artifiziosa, mentre l'esistenza reale dell'etere si sottraeva ad ogni diretto controllo, Einstein, poco dopo, nel 1905, formulò una sua nuova teoria, la relatività speciale (per distinguerla da un'altra comparsa 11 anni dopo, la generale). È da ritenersi che sembrava ad Einstein necessario servirsi ancora delle equazioni di Lorentz, chiamate appunto trasformazione di Lorentz, dando ad esse un'altra interpretazione, e deducendole analiticamente, in modo del tutto diverso. Egli riuscì in ciò, partendo da due postulati, che sono le basi della nuova teoria. Col primo, si ammette che i fenomeni ottici si svolgono sempre nella stessa guisa, in un sistema, indipendentemente dal suo moto uniforme. Tale I postulato è identico a quello di Galileo per la meccanica, ed è conforme al risultato negativo dell'esperienza di Michelson. Ma esso non basta per ottenere la Trasformazione di Lorentz. Einstein ne aggiunse un secondo, per il quale la velocità della luce ha sempre lo stesso valore, per qualsiasi osservatore, in quiete od in moto. Si debbono a questo postulato, tutti i contrasti a cui la teoria di Einstein dà luogo. Infatti, esso contradice i più semplici criteri della cinematica classica. Esso equivale ad ammettere, nel campo della meccanica, un principio così enunciabile: un veicolo in moto è giudicato muoversi sempre con la stessa velocità, da un altro veicolo dotato di qualsiasi velocità. L'evidente contradizione col senso comune, fu apparentemente sanata da Einstein, con l'accettare audacemente certe deduzioni matematiche, che necessariamente scaturivano dall'ammissione di quel postulato. Esse consistono nell'ammettere che le lunghezze (nella direzione del moto) di un sistema in moto rispetto ad un altro, vengono giudicate più corte, da questo. Inoltre, i tempi sono anch'essi cambiati, ossia nel sistema in moto, il tempo scorre più lentamente. Come diceva Einstein, anche in pubbliche conferenze, nel sistema in moto, l'età degli individui si accresce più lentamente.

La novità di tali ammissioni, l'apparente eleganza matematica dei calcoli relativi, ebbero consenso e successo, presso la grande maggioranza dei matematici e dei fisici. Ciò avveniva anche, perchè i primi vedevano tradotte in realtà, talune teorie matematiche o geometriche, che sino allora erano puramente ideali.

E qui, torna acconcio rilevare la profonda differenza logica, che intercede tra la concezionc di Lorentz e quella di Einstein. Il primo partiva dalla nozione dell'etere; ed ammetteva che esso provocasse nella materia, la nota reale contrazione. Nella teoria di Einstein non si può più ammettere l'esistenza di tale fluido: in natura non ci sarebbe che materia. E questa apparisce contratta ad un altro sistema, con cui è in moto. Ammesso ciò, si comprende come la contrazione di Einstein non possa essere che apparente, perchè di due sistemi reciprocamente in moto, tale qualità può essere attribuita all'uno od all'altro.

Tale è dunque l'aspetto cinematico, della teoria speciale della relatività. Esso è ritenuto impeccabile, non venendo sottoposto, di solito ad attento esame. Quella teoria avrebbe dunque portato alla scoperta di una nuova caratteristica della metrica dello spazio e del tempo, nel caso di sistemi reciprocamente in moto, in completo disaccordo con la comune nostra osservazione dei fatti naturali, che riguarda velocità relative, enormemente più piccole di quella della luce.

Accettato un simile concetto, chi studia la relatività può restare ammirato del modo con cui questa teoria dà ragione del fatto, per cui essa è stata creata. E cioè, la cosidetta invarianza dei fenomeni ottici od elettromagnetici dal moto uniforme, al quale i sistemi in cui si svolgono, sono soggetti.

Ma, ritornando alla parte semplicemente cinematica della teoria, è possibile vedere talune sicure contradizioni a cui essa dà luogo. Ciò ha costituito oggetto di mio attento esame, da parecchi anni, e su tale punto desidero richiamare la Vostra attenzione, mentre osservo sin d'ora che si tratta di argomentazioni semplici e chiare, che con vera sorpresa non si prospettano alla mente dei fautori della relatività.

Consideriamo due sistemi reciprocamente in moto rettilineo uniforme. Supponiamoli costituiti da due regoli di uguale lunghezza che chiamiamo AB ed A'B'. Essi possono scorrere l'uno sull'altro a velocità costante, che supponiamo grandissima. Ammettiamo dapprima che sia A'B' a muoversi rispetto ad AB tenuto fermo. In un certo istante A'B' si sovrappone ad AB; e successivamente lo sopravanza. Tenendo presente quanto è stato detto, la relatività porta all'ammissione che AB giudica A'B' alquanto più corto del valore che esso ha, quando è in riposo. Così, se A'B' si muove con una velocità uguale a metà di quella della luce, AB lo giudica uguale a circa 0,85 del suo valore. Se A'B' si muovesse con la velocità della luce, la sua lunghezza si annullerebbe. Così pure, AB ritiene che in A'B' il tempo si sia allungato: in un anno di AB non entrerebbero che 10 mesi di A'B', se questo si muove con la velocità metà della luce. Se tale velocità della luce fosse raggiunta da A'B', il tempo in tale sistema si arresterebbe: ossia un orologio non batterebbe più il suo ritmo, od il cuore di un essere vivente si arresterebbe. E' strano come si possano fare tali asserzioni, senza alcuna conferma sperimentale.

Ma che tali asserzioni siano inconsistenti, si può comprenderlo invertendo le condizioni dei due regoli, cioè supponendo che sia AB a muoversi rispetto ad A'B'. Dovrebbe apparire allora AB alquanto contratto nello spazio e rallentato nei tempi, all'altro regolo A'B'. I due fatti non possono coesistere. Nè si può parlare di apparenza, provocata dal tempo necessario alla luce per trasmettersi fra punti discosti; chè, infatti, la contradizione è rilevabile tra punti dei due sistemi in precisa coincidenza.

Di contradizioni simili[3], applicando la relatività di Einstein a casi svariati, se ne possono rilevare altre. Io non insisto nell'esporlo, anche perchè esse sono meno semplici. Comunque esse non sono tenute di solito in gran conto; e si suole appoggiare il credito che la relatività riscuote, a certe verifiche fisiche. Fra esse, primeggia quella astrononomica data dall'esame degli spettri luminosi, delle stelle doppie Queste sono costituite da due astri, quasi eguali di massa, di cui, uno almeno, è luminoso, che ruotano l'uno intorno all'altro. La luce che così a noi perviene, proviene da sorgente che alternativamente si avvicina e si allontana da noi. Si deve dire, che gli spettri così osservabili, dei vapori incandescenti sulle loro superficie, contengono righe spettrali più o meno distinte. Tale fatto, nella più semplice interpretazione, sarebbe una prova della costanza della velocità della luce; e ciò sarebbe d'accordo con la relatività; mentre negherebbe il principio, secondo cui, in assenza dell'etere, la velocità della luce si dovrebbe sommare con quella della sorgente (ipotesi cosidetta balistica, analoga a quella che si formula per i proiettili). Infatti, se così avvenisse, al nostro occhio dovrebbero pervenire, con velocità diverse, radiazioni provenienti da località diverse dell'orbita della doppia, qualche centinaio; così le righe spettrali risulterebbero nello spettro, variamente spostate, e, nel loro grande numero, l'occhio non le percepirebbe.

Malgrado tale obbiezione, che può a prima vista apparire grave, io penso che l'osservazione delle righe spettrali delle doppie, non depone senz'altro a favore della relatività. Da più anni, ho infatti avanzato una semplice e plausibile ipotesi, che tenderebbe ad eliminare 1'obbiezione stessa. Si deve, infatti, tenere conto della circostanza per cui, nel caso delle lontane stelle doppie, i fotoni che esse ci mandano sono stati in reciproca presenza per tempi lunghissimi (anni, decenni, secoli) e noi non sappiamo se in tanto tempo non si sia manifestata tra loro qualche sconosciuta azione. Basta supporre che in sì lunghi periodi, le velocità dei fotoni, leggermente diverse, dall'uno all'altro, si siano eguagliate. Ciò permetterebbe di scorgere gli spettri a righe di quelle stelle, come realmente avviene. Questa nuova ipotesi ridarebbe credito a quella teoria balistica della luce, che, formulata dal fisico svizzero Ritz, fu ripresa con successo dal nostro La Rosa, entrambi prematuramente scomparsi.

Un altro appoggio alla relatività, è dato dalla cosidetta invarianza dei fenomeni ottici od elettromagnetici, dal moto uniforme del sistema in cui essi si svolgono. Ma non è difficile, toglier valore anche a tale prova. Non è il caso che io tenti di spiegare ciò, dovendo far ricorso a concetti speciali e complessi. Tuttavia, mi piace ricordare che, un modo preciso ed elegante per ottenere tale risultato fu indicato, subito dopo la comparsa della relatività, dal fisico svizzero Ritz, di cui si è prima discorso.

Resta da esaminare un ultimo controllo, che si suole portare a sostegno della relatività, e che, sotto un certo riguardo, è ritenuto il più importante. Di esso tutti hanno, per lo meno, sentito discorrere, e costituisce il maggior titolo di gloria di Einstein. Voglio con ciò alludere, al nuovo principio introdotto da Einstein, della cosidetta equivalenza fra massa ed energia. Secondo Einstein, questi due enti potrebbero trasformarsi l'uno nell'altro, senza peraltro che le teorie ammesse, stabiliscano le vere cause di tale trasformazione. Per passare dal valore della massa materiale, a quello di energia ad essa equivalente, basta moltiplicare, secondo Einstein, quella per il coefficiente c2, cioè il quadrato della velocità della luce.

In applicazione di tale principio, si può, per es., dire quale lavoro meccanico si potrebbe ottenere, trasformando completamente in energia, un grammo di materia. Applicando la detta formula, si trova che, con tale grammo si potrebbero innalzare di un centinaio di metri, circa un miliardo di quintali; oppure ottenere circa 3000 kilowatt, per un anno. La relazione riportata: energia = massa x c2 , costituirebbe perciò uno dei più straordinari principii che la mente umana sarebbe riuscita a scoprire. E ciò, sarebbe inteso, sia perchè collegherebbe due enti fisici, apparentemente del tutto diversi, sia per la colossale misura di tale equivalenza. Esso darebbe ragione dell'enorme energia che si sprigiona nelle trasformazioni atomiche, in conseguenza di apparente sparizione di materia. Tale principio appare verificato dall'esperienza, con grande precisione, almeno nel caso dei nuclei degli atomi leggeri.

Ci rimane ora a dire perchè questo fatto, che tanta importanza ha avuto ed avrà nella storia del mondo, non debba ritenersi una prova decisiva, a favore della relatività speciale di Einstein. Osserviamo, intanto, che la ragione di tale giudizio si ricava anzitutto dalla considerazione di quanto è già stato detto. Non ammettendo, nè l'esistenza dell'etere cosmico, nè il 2° postulato di Einstein, ne consegue che la velocità della luce non può essere una vera costante. Non appare così possibile, che tale velocità, variabile da caso a caso, possa costituire un semplice coefficiente di proporzionalità, fra massa ed energia, le quali grandezze rappresentano delle costanti. A parte tale pregiudiziale, esaminiamo l'argomento, sotto un altro aspetto.

Non è da credere, anzitutto, che il principio dell'equivalenza tra massa ed energia, discenda senz'altro da quelli su cui si basa la teoria della relatività. Infatti, si conosceva, prima di questa, un capitolo dell'elettromagnetismo, sviluppato principalmente dal fisico olandese Lorentz, chiamato dinamica dell'elettrone. Con esso, si stabilivano certe proprietà di quel corpuscolo (costituente elementare della materia), ed in particolare, quella di apparire più pesante, al crescere della sua velocità. Va incidentalmente osservato, che questo fatto, che apparisce verificato da molto tempo dall'esperienza, può avere altra interpretazione. Ora, siccome il corpuscolo in parola, col crescere d[e]lla sua velocità ha evidentemente assorbito dell'energia (come quando un sasso viene lanciato), si venne ad ammettere per l'elettrone, il principio per cui l'aumento del suo peso (cioè l'accrescimento della sua massa) corrisponde a trasformazione dell'energia in materia[4].

Con grande arditezza, Einstein estende questo concetto a qualunque massa materiale, anche non elettrizzata. Si dice così, perché se è possibile constatare l'accrescimento di massa per l'elettrone, ciò avviene appunto perché esso possiede una carica elettrica. Da ciò, Einstein arriva alla sua famosa equazione energia = massa x c2 , che, a priori, non ha alcuna prova della sua legittimità.

Come si è detto, tale principio sembra verificato dall'esperienza, e ciò avviene con sempre maggiore precisione, man mano che i ciclotroni od acceleratori di particelle elementari, che si costruiscono in America, aumentano di potenza. In vista di tale constatazione, si può ancora domandare perchè la relatività debba ritenersi inconsistente. Si risponde osservando che questo giudizio risulta con assoluta necessità, dagli argomenti cinematici, che sono stati prima rilevati, e che, per congruenza, occorre spiegare altrimenti l'apparente equivalenza tra massa ed energia.

Un passo, in questo senso, è stato da me compiuto da un paio di anni, come ho già indicato negli Atti Accademici. Accenno sommariamente ad esso. Esiste in natura una forza che domina i più importanti fenomeni, da quelli astronomici a quelli della superficie terrestre, o della struttura della materia. Le indagini in quest'ultimo caso, sfuggono al nostro diretto controllo; e solo è possibile parlare di esso in modo induttivo. Sembra perciò che in ogni caso si tratti della forza newtoniana, che tende ad avvicinare quantità di materia, poste in presenza. Si tratta cioè della cosidetta attrazione universale.

Per vero, nel terzo caso, ora citato, cioè della struttura della materia, ossia di corpuscoli elementari, si dice che non si ha a che fare con la stessa forza, che governa il moto degli astri, o che genera la caduta dei travi. Si ammette, senza maggiormente chiarire, che si tratti di una nuova forza, che si suole chiamare coesione, o nel caso dei nuclei, forza nucleare. Queste forze, in ogni modo, sono enormi in confronto di quelle macroscopiche. Basta pensare per convincersi di ciò, alla forza che sarebbe necessaria per tenere aderente uno strato materiale, al resto di un corpo solido, qualora si applicasse ancora la legge di Newton. Occorrerebbe per ciò considerare una massa attirante lo strato, dell'ordine di milioni di volte quella del Sole.

D'altra parte, questa concezione di una forza di natura diversa, che farebbe sentire i suoi effetti solo a piccolissime distanze, non è affatto intuitiva.

Riflettendo a tale contrasto, si può intravedere la possibilità di un nuovo fatto, sinora ignorato. Si può così pensare, che quando due elementi materiali sono in grandissima vicinanza, la loro attrazione debba risultare molto maggiore di quella che si può calcolare applicando la legge di Newton. Non è il caso di preoccuparsi per ora di concretare la nuova legge, che permetterebbe un simile accrescimento: basta aver intravisto il principio, solo in modo qualitativo. Si spiegherebbe così, l'enorme valore delle cosidette forze di coesione. E allora, si può compiere un ulteriore passo. Poichè è da presumere che tali forze di coesione si manifestino principalmente fra le parti più pesanti dell'atomo, cioè i loro nuclei; e poichè questi nella materia sono a distanza circa 10.000 volte le loro dimensioni, è da presumere che quando i corpuscoli si siano molto avvicinati, sì da formare dei nuclei, le forze interne di questi (cioè, principalmente quelle che tengono uniti protoni e neutroni), debbano esser ancora di molto superiori. Se avviene dunque la formazione di uno di tali nuclei, può darsi che il lavoro ceduto da tali forze, sia talmente grande da permettere la liberazione di considerevoli quantità di energia. Ciò, per esempio, si può dire, può avvenire, nella formazione del nucleo di elio, per l'unione di 2 protoni a 2 neutroni. Poichè si conosce qual sia l'energia liberata in tale formazione, con un calcolo grossolanamente approssimativo, si può comprendere che la forza che lega insieme un neutrone ad un protone sia dell'ordine di 1 kg.

Ora nella concezione di Einstein, la liberazione di tale energia verrebbe a corrispondere alla sparizione di un certo quantitativo di materia, essendo il nucleo di elio alquanto più leggero della somma delle masse dei 4 componenti. Ma una simile ammissione non è del tutto giustificata. Essa non dà affatto ragione, del perchè i quattro costituenti dell'elio debbano permanentemente restare alquanto alleggeriti; o perchè essi non possano riacquistare il loro peso (se costituenti elio), riassorbendo energia dall'ambiente, in cui si trovano.

A una simile domanda si dà risposta, sviluppando ulteriormente l'ipotesi da me avanzata. Si può fare infatti un'ipotesi aggiuntiva, a quella dell'accrescimento della forza attrattiva, in conseguenza della vicinanza (ossia assai più di quanto voglia la legge di Newton). Tale ipotesi parte dalla considerazione dell'enorme forza che le ultime particelle elementari sono costrette ad esercitare reciprocamente, per costituire i nuclei. E si concreta, ammettendo che la facoltà di esercitare tale forza si attenui alquanto, in tali condizioni. Avverrebbe così, una sorta di processo di saturazione della forza attrattiva, analogo a quanto avviene (per vero in processi macroscopici) per es., nel caso della forza magnetica del ferro. A ciò corrisponderebbe l'apparente diminuzione di massa.

Riassumendo il risultato di tali ipotesi, si potrebbe ammettere che la comparsa di energia nella integrazione del nucleo di elio (donde la progettata bomba H), sia dovuta al lavoro delle forze nucleari, e che l'apparente diminuzione di massa, corrisponda all'affievolirsi della capacità attrattiva delle particelle elementari. Una simile teoria darebbe spiegazione soddisfacente del cosidetto difetto di massa, come non avviene servendosi della relatività di Einstein[5].

Tutto quanto è stato sinora esposto, concerne la prima relatività di Einstein, quella cioè formulata nel 1905. E' noto come egli, forte del clamoroso successo ottenuto, almeno in certi ambienti, da tale sua teoria, ne formulò una seconda nel 1916. Le conclusioni di questa sono ancora più sorprendenti della prima. Occorrerebbe fermarsi a lungo su di essa, per dimostrarlo. Ma penso che tale critica non sia necessaria, in vista degli argomenti raccolti per la prima.

E mi corre l'obbligo ancora di osservare che, malgrado le obbiezioni sollevate, nel suo complesso la relatività di Einstein abbia costituito un utile strumento di lavoro. Ciò è avvenuto in maniera simile alla funzione di uu'impalcatura, che ha permesso la costruzione di un solido edificio, in questa prima metà del nuovo secolo: la scienza moderna. La relatività, per un complesso di ragioni di cui non ci rendiamo totalmente conto, e che in ogni modo sarebbe difficile esporre, si è sostituita ad una più razionale teoria dei fenomeni ottici ed elettromagnetici. Il fisico ed il matematico, in un prossimo futuro, debbono cercare di formulare più compiutamente tale teoria.

E mi avvio alla chiusa di questo mio discorso. Ho voluto esporVi il mio pensiero, circa il valore delle teorie relativistiche di Einstein. Esse sono nate nella mente di un uomo, indubbiamente di grande ingegno, ma sostanzialmente lontano dalla speculazione sperimentale. Fra le sue idee rimarrà certamente, a sua imperitura gloria, quella quantistica dell'effetto fotoelettrico, che stabilì un legame intimo e mirabile, tra elettrone e fotone. Fu per essa che egli conseguì, ben meritatamente, il premio Nobel.

Ma nel resto della sua opera ardita, troviamo degli spunti che completamente gli hanno fatto dimenticare come l'essenza della natura non può venire inquadrata in simboli matematici. Ricordo, a tal proposito, il detto di un grande matematico e fisico: il Poincaré. Secondo esso, una relazione matematica può corrispondere ad infiniti modelli fisici.

Einstein si è lasciato dominare dal concetto di attribuire determinati significati fisici (spaziale, temporale, cinematico, dinamico, ecc.) alle formule che man mano ricavava. Così, non si è peritato di dire, in sostanza, che i semplici fatti cinematici sono legati con la velocità della luce; o che la forza gravitazionale costituisca una modalità prescindibile od equivalente a premesse puramente cinematiche. Nessun fatto sperimentale giustifica tali asserzioni.

Nel progresso della Scienza, occorre riflettere che noi mai possiamo comprendere in pieno i principii intimi o primordiali dei fatti naturali, e che ci si debba accontentare di stabilire soltanto certi rapporti dimensionali, tra enti diversi, che per noi è impossibile completamente identificare.

Ad ogni modo, sembra difficile che chi si è abituato al metodo del fisico tedesco, possa per le considerazioni da me svolte, mutare pensiero. E, persuaso che gli argomenti più ascoltati sian quelli che si basano su nuovi fatti sperimentali, ho da anni cercato un experimentum-crucis, che potesse costituire la migliore prova della fallacia delle teorie di Einstein.

Ritengo di essere recentemente riuscito in ciò, quantunque, per varie ragioni, non abbia potuto affinare i miei risultati. Si tratta della constatazione di variazioni della velocità della luce, quando è riflessa da differenti metalli. Di ciò ho dato comunicazione in questa Accademia, il 22 dello scorso aprile, ed in quella dei Lincei, il 6 giugno. Mi sto occupando di sviluppare tali ricerche, pur presentandosi a me due diverse difficoltà: da un canto la mancanza di mezzi sperimentali adeguati; e dall'altro la considerazione dell'inesorabile legge di natura, che viene a limitare per me il tempo necessario, allo svolgimento di un simile difficile programma di lavoro.

Ad ogni modo, era mio dovere manifestare chiaramente il mio pensiero, su di una questione, che, se ben risoluta, può occasionare notevole progresso della scienza.
 
 




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Note del curatore:

[1] In realtà, né l'esperimento di Michelson-Morley, né le sue ripetizioni sul Monte Wilson, eseguite da Dayton C. Miller (un assistente dei due nel corso delle prime misurazioni) negli anni tra il 1921 e il 1925, hanno mai dato un risultato decisamente negativo, ma soltanto un effetto non paragonabile con un fenomeno che dipendesse dai detti 30 Km/sec. Si tratta ovviamente di questione complessa, che non è possibile di affrontare in poche righe. Qualche cenno se ne può trovare nel sito

http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci , al N. 12 della pagina dedicata ai Fondamenti della Fisica.

[2] In realtà, l'ipotesi di FitzGerald era ben diversa da quella di Lorentz (pur essendo entrambe basate su considerazioni fisiche, e non su semplici speculazioni matematiche introdotte ad hoc), in quanto non consisteva in una contrazione longitudinale (ovvero, nel senso del moto), bensì in una dilatazione trasversale. L'effetto pratico che ne conseguiva, a spiegare il preteso "risultato nullo" dell'esperimento di Michelson-Morley, era comunque lo stesso. Anche per questo argomento si può rimandare al sito indicato nella nota precedente, stessa pagina, N. 15.

[3] Si tratta invece, come già annunciato in sede di presentazione, di comuni fraintendimenti della cinematica relativistica, che non hanno alcuna efficacia contro la teoria di Einstein.

[4] Che la possibilità di trasformare massa in energia non sia un'ipotesi di origine strettamente relativistica, è confermato tra l'altro dalla circostanza che questo principio, "uno dei più straordinari [...] che la mente umana sarebbe riuscita a scoprire", era stato già intuito fisicamente prima della relatività, nella sua esatta formulazione quantitativa, da un sconosciuto scienziato "dilettante" italiano, certo Olinto De Pretto, il quale pubblicò l'equazione oggi celeberrima qualche anno prima del fisico tedesco. De Pretto poggiava le sue argomentazioni proprio su quella teoria dell'etere che Einstein invece abolisce (anche per qualche informazione su questa vicenda si veda il sito indicato nella nota 1, pagina dedicata alla Storia della Scienza, punti N. 9 e C).

[5] In un lavoro del 1954, "L'inerzia non appare sempre proporzionale al peso" (Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei, Vol. XVI, pp. 591-597), l'autore tornerà su questo argomento, concludendo con le parole: "[...] viene a confermarsi la erroneità del principio ammesso da Einstein, della trasformabilità della materia in energia e viceversa. In conseguenza, viene a mancare una delle basi fondamentali di entrambe le teorie su ricordate, come da più anni, per semplici ragioni logiche, io sostengo".
 
 



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Quirino Majorana (da non confondersi con il nipote Ettore, noto al grande pubblico per la sua ancora oggi inspiegata scomparsa nel 1938), nacque a Catania nel 1871, e morì a Rieti nel 1957. Fu direttore dal 1904 al 1914 dell'Istituto Superiore dei Telegrafi e Telefoni dello Stato, e quindi professore di Fisica Sperimentale prima presso il Politecnico di Torino, e in seguito, dal 1921, presso l'Università di Bologna - dove successe ad Augusto Righi come direttore dell'Istituto di Fisica di quell'Ateneo. Conseguì notevoli risultati nel campo delle telecomunicazioni, eseguendo numerose esperienze di radiotelefonia a grande distanza, dei raggi catodici, dell'effetto Volta, dei fenomeni fotoelettrici, della modulazione della luce, etc..
   L'avversione dell'illustre fisico verso la teoria della relatività appare costante, e testimoniata anche in diversi altri suoi scritti. In uno di questi ("Gravità, inerzia e relatività", Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei, Vol. XIV, 1953, pp. 733-740), l'autore ebbe a lamentarsi nel seguente modo: "Ritengo che la definitiva conferma dei risultati esposti, possa avere una grande importanza, per il progresso delle moderne teorie fisiche. Per mio conto, cercherò, ove ne abbia la possibilità, di conseguire tale scopo, malgrado che gli organi competenti, per ingiustificate ragioni, non abbiano mai voluto concedermi adeguati mezzi, di lavoro sperimentale".
   L'anno precedente ("Considerazioni sulle forze nucleari", Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei, Vol. XIII, 1952, pp. 97-103), la recriminazione era stata del seguente tenore: "Per chiudere questa esposizione, dirò che mi sembra evidente l'attendibilità di quanto ho esposto nelle precedenti Note ed in questa. Penso che i relativisti dovrebbero prendere in considerazione il mio punto di vista, decisamente contrario alla relatività di Einstein. Se il loro silenzio dovesse continuare, mentre io da anni manifesto il mio pensiero, ciò dovrebbe interpretarsi con l'impossibilità di dimostrare l'inesattezza dell'insieme delle mie considerazioni. Invece, la serena discussione, potrebbe chiarificare una questione, che tanta importanza avrebbe per il progresso della scienza".

[Notizie tratte da: Dizionario Enciclopedico Italiano, Treccani, Roma; si veda anche: Giorgio Dragoni, "Quirino Majorana (1871-1957)", in Figure di Maestri che hanno operato nel corso del IX Centenario dell'Università di Bologna, Bologna: Accademia delle Scienze, 1990, pp. 225-237]