VOLTAIRE E LA FISICA NEWTONIANA

(Luca Umena)

 

"E il sistema solare allora?", protestai io.

"Cosa diavolo volete che me ne importi!", m'interruppe stizzito. "Voi dite che ruotiamo attorno al sole. Ma se ruotassimo attorno alla luna, questo non cambierebbe una virgola, né per me, né per il mio lavoro".

Dialogo tra Watson e Sherlock Holmes tratto da Uno studio in rosso di A. C. Doyle

 

Da alcuni secoli, come ha evidenziato con lucidità il filosofo Hans Jonas, noi occidentali viviamo in una condizione di rivoluzione permanente.

Iniziata cinque secoli fa come rivoluzione teoretica e della prospettiva metafisica, essa si è diffusa in seguito alla sfera pratica, determinando un mutamento radicale nel modo di pensare e nella vita dell'uomo.

Eppure, benché l'importanza della scienza sia oggi ampiamente riconosciuta, scienza e cultura generale rimangono in Italia due poli difficilmente avvicinabili. Prevale, infatti, la tendenza, di matrice crociana, a sottolineare la distanza e la gerarchia qualitativa tra le scienze dello spirito e quelle - meno nobili - della natura.

In effetti non si può negare che tra i due ambiti esistano profonde differenze strutturali, generate per la verità dalla scienza stessa, che distruggendo il cosmo aristotelico ha sostituito al mondo delle qualità e delle percezioni sensibili quello delle quantità e della geometria reificata.

La progressiva specializzazione dei linguaggi scientifici, inoltre, ha reso nel tempo sempre meno attuabile l'idea rinascimentale di homo universalis e prodotto, per contro, discontinuità e fratture anche fra una disciplina scientifica e l'altra. Così dopo un breve connubio iniziale, scienza e cultura umanistica hanno gradualmente separato i loro ambiti, fino a che nel nostro secolo si è arrivati a parlare addirittura di due culture contrapposte.1 E benché questa situazione sembri volgere al cambiamento, siamo ancora lontani dal realizzare il progetto illuminista, in cui scienza, società e democrazia formavano tra loro un legame solido e necessario.2

Nel secolo dei lumi ,infatti, si riteneva che la scienza fosse la base ideale su cui fondare una società libera , uguale e fraterna. Il rapporto tra scienza e democrazia sembrava intrinseco e costitutivo. Non solo: il nuovo metodo scientifico, intriso di scetticismo, sperimentalismo, rifiuto dell'autorità e irriverenza sembrava rappresentare una sintesi perfetta del nascente spirito illuminista.

Non desta stupore, quindi, che in questo periodo venne a delinearsi un quadro intermedio di divulgatori, impegnati a stabilire un legame tra i protagonisti della rivoluzione scientifica e la timida cultura della borghesia in ascesa. Letterati e studiosi come Fontenelle, Voltaire, Maupertuis (per limitarci solo alla Francia) divulgarono in modo così elegante e coinvolgente le teorie di Newton e Cartesio da trasformare in breve tempo la scienza da argomento serio e complicato ad occasione per galanti conversazioni da salotto. Gli Entretiens sur la pluralité des mondes di Fontanelle, ad esempio, costituirono per molto tempo lo strumento principale di discussione e di diffusione della fisica cartesiana nella società francese.3

Ma è soprattutto con l'opera di Voltaire che il dibattito scientifico si allargò in modo definitivo oltre i confini dell'Accademia. E questo grazie alla capacità del celebre poeta di trasformare la disputa teorica tra la fisica newtoniana e quella cartesiana, in un vivace confronto fra due personaggi che incarnavano sistemi politici e filosofici diversi. Nelle Lettres philosophiques, ispirate da un soggiorno in Inghilterra dal 1727 al 1729, Voltaire tracciò - tra l'altro - un vivace scorcio della rivoluzione scientifica del '600, un giudizio iconoclasta sulla fisica di Cartesio e un esplicito riconoscimento a Newton e alla sua opera. In poche pagine Voltaire aveva condensato la sua concezione positivista della conoscenza e rivelato quella che poi - esasperandosi - I. Lakatos ha definito "una posizione di intollerante illuminismo dogmatico". Per capire cosa intenda Lakatos con questo giudizio, basta analizzare il parallelo che Voltaire traccia tra Cartesio e Newton e confrontarlo con quello realizzato da Fontenelle qualche anno prima nel suo Eloge de Newton.

Il segretario dell'Accademia francese aveva riconosciuto con equilibrio i meriti di entrambi i filosofi pur evidenziandone la diversa impostazione metodologica : "[Cartesio] - aveva scritto Fontenelle - parte da ciò che comprende in modo chiaro per scoprire la causa di ciò che vede; [Newton invece] da ciò che vede per scoprirne la causa".

Nella sua analisi Voltaire è meno imparziale e si schiera apertamente a favore della sintesi newtoniana:

"[La filosofia di Cartesio] - scrive - non [fu] altro che un ingegnoso romanzo tutt'al più verosimile per gli ignoranti […]: In verità non credo che si osi paragonare minimamente la sua filosofia a quella di Newton: la prima è un tentativo, la seconda è un capolavoro". E prosegue nella lettera successiva : "Il sistema di Descartes [basato sui piccoli e grandi vortici di materia sottile] era semplice e intellegibile a tutti […]. [Ma] è peraltro dimostrato falso che possa essere la causa della gravità. E' impossibile accordare [i grandi vortici] con le regole di Keplero la cui verità è dimostrata."

Tali giudizi formulati da Voltaire mostrano con chiarezza quale sia la sua visione del metodo e del progresso scientifico: Newton rappresenta l'ideale dello scienziato moderno, Cartesio l'arretrato tentativo di subordinare la scienza alla metafisica, l'evidenza empirica ad un'immaginazione fantastica, piena di ipotesi né dimostrate né dimostrabili.4

Voltaire, cioè, aveva intuito che la superiorità dei moderni rispetto agli antichi passava attraverso i successi del metodo sperimentale e della misurazione matematica e che pertanto era necessario educare il pubblico francese a questa nuova cultura. Lui stesso né dette subito l'esempio: lesse con impegno trattati di fisica, consultò scienziati, trascorse molto tempo con esperti a discutere della teoria newtoniana. E solo dopo questo faticoso periodo di lavoro rieducativo, si decise a scrivere il suo Elémens de la Philosophie de Newton.

L'opera, uscita nel 1738 ebbe subito un successo straordinario: Voltaire era riuscito a rendere intuitivi e concreti gli argomenti della fisica newtoniana, riuscendo a spiegare in modo chiaro ed intellegibile le nuove scoperte scientifiche.

E tutto questo senza eccedere mai in semplificazioni eccessive o in effetti letterari superflui. Come sottolineò lui stesso nella prefazione dedicata a Madame du Chatelet:

"[L'opera] non tratta di una marchesa, né di una filosofia immaginaria" (e qui è chiara l'allusione polemica al sistema filosofico cartesiano). "Quello che io presento al pubblico […] è lo studio solido[…] di molte nuove verità. […] Non conviene pretendere di trovare in questo libro delle galanterie […] Io per me mi contento di poter bene comprendere certe verità e di esporle con ordine e chiarezza […] Il nome di filosofia nuova sarebbe il titolo di un romanzo nuovo se non annunziasse altro che le congetture di un moderno opposte alle fantasie degli antichi. Una filosofia appoggiata ad ardite dichiarazioni e capricciose non meriterebbe di essere esaminata, giacché - prosegue Voltaire - un filosofo che si appoggia solo ad ipotesi[senza il lume dell'esperienza] altro non formulerà che chimere. E se molti sono i modi di cadere in errore, non c'è che una via che conduce alla verità".

In queste prime righe della prefazione sono condensati alcuni tratti caratteristici dell'opera, dell'autore e della sua visione del metodo scientifico. Si può notare, infatti, sia la sua vena ironica da consumato polemista, sia la chiave positivista in cui verranno formulate le dottrine newtoniane all'interno del libro, dove si sottolinea a più riprese che nell'opera non viene avanzata nessuna ipotesi, poiché per ripetere le sue parole "altro è rendere verisimile un'opinione, altro è provarla".

Un'ulteriore osservazione deducibile dall'analisi della prefazione è notare come ricorra sempre il termine vero in riferimento ai risultati dell'indagine scientifica. Può sembrare strano, ma questa visione della scienza come fabbrica di verità ha un'origine teologica.

Nel '600 la conoscenza religiosa si proponeva di essere certa e indubitabile. Lutero addirittura aveva affermato che "un cristiano deve essere certo di ciò che dice altrimenti non è un cristiano". Il più piccolo dubbio, infatti, conduceva alla dannazione eterna. E considerando che la conoscenza scientifica era ritenuta parte integrante di quella teologica, non desta stupore che si chiedesse anche ad essa di raggiungere standard di certezza e di indubitabilità. Pertanto se una proposizione non era completamente confermata dalla ragione o dai fatti bisognava fermamente rifiutarla. Questo atteggiamento epistemologico che K. Popper ha definito "giustificazionismo" era estremamente diffuso tra gli scienziati dell'epoca ed anche tra alcuni divulgatori, non ultimo Voltaire. Qualche critico, però, ha visto nel suo esaltare le verità newtoniane e nel suo fidarsi ciecamente dei risultati della teoria, un atteggiamento quasi dogmatico, filosoficamente in antitesi con quello illuminista. Tuttavia, benché questa critica abbia un certo fondamento, non è poi così strano il fatto che Voltaire giurasse spesso nel nome di Newton e mostrasse una fiducia incrollabile nelle sue verità. Come ha osservato P. Feyerabend, infatti:

"La certezza e la fiducia nelle scoperte della scienza cresce proporzionalmente alla distanza dal nucleo centrale che le ha effettuate. I nuclei preparano gli esperimenti, analizzano i risultati e tirano le conclusioni. Non tutti gli appartenenti al nucleo sono altrettanto sicuri delle conclusioni tratte. Studiosi della stessa disciplina invece hanno convinzioni un po' più unanimi e un po' più dogmatiche. Esperti di altre materie danno i risultati già per acquisiti."5

Quindi è del tutto comprensibile che Voltaire, che era un grande scrittore, ma non certo un fisico, considerasse le "verità" newtoniane come certezze assolute e giurasse sul loro nome.

Senza contare, inoltre, che esse avevano per lui un valore strumentale e simbolico: costituivano il passaporto per la modernità, il mezzo attraverso cui realizzare una società nuova, più libera e democratica.

Oggi, tutti noi sappiamo come è andata a finire a tre secoli di distanza. La scienza moderna, in effetti, ha prodotto quel rinnovamento della società che Voltaire e gli altri philosophes si aspettavano. Tuttavia è ormai evidente che essa non può più pretendere di guidare o di ispirare la democrazia. L'immagine illuminista della scienza come fonte infallibile di verità è per sempre tramontata: nessuno statuto epistemologico difende, ormai, l'attività scientifica dalle contingenze e dalle contraddizioni di qualsiasi altra attività sociale: sono l'elemento economico, l'influenza dei media, la situazione politica che determinano i tempi e la direzione del suo percorso evolutivo.

L'"Appello per la libertà della ricerca", promosso qualche mese fa da R. Dulbecco e da oltre mille scienziati italiani, ne è una conferma esplicita: la scienza non gode più di quella extraterritorialità politica e sociale che la caratterizzava in precedenza. Le scelte di natura scientifica e tecnologica non si basano più solo sulle indicazioni di un'autonoma comunità di scienziati, ma anche su ragioni contingenti di origine sociale e politica.

E se questo può apparire a prima vista un limite, un ostacolo allo sviluppo e al progresso scientifico, in realtà, ad uno sguardo più profondo, si può osservare che non lo è. Perché è solo coinvolgendo più attivamente la collettività, solo accettando di operare in stretta connessione con il proprio contesto sociale, che la scienza continuerà ad avere il sostegno del pubblico e la possibilità di mantenersi viva.

Altrimenti finirà per realizzare l'inquietante prospettiva descritta dal Galileo di Brecht, in cui "ad ogni eureka [della comunità scientifica] risponderà un grido di dolore dell'intera umanità".

Note

1 C.P. Snow : Le due culture, Milano, Feltrinelli 1959.

2 Alla voce "Geometra" dell'Encyclopedie scritta da d'Alembert si poteva leggere: "Non si è ancora prestata abbastanza attenzione all'utilità che questo studio (la geometria) può avere nel preparare le strade allo spirito filosofico e nel predisporre un'intera nazione a ricevere la luce che tale spirito può diffondere. Si tratta forse del solo mezzo per scuotere alcune contrade dell'Europa dal giogo dell'oppressione e dell'ignoranza sotto il quale gemono."

3 L'opera, uscita nel 1686, ebbe un successo di pubblico così grande che dal 1686 al 1754 ne furono stampate ben 33 edizioni.

4 E' interessante confrontare questa visione volterriana della scienza come processo di inferenze induttive a partire da osservazioni inconfutabili, con quella di alcuni epistemologi contemporanei. G. Holton, ad esempio, riconosce ad ogni scienziato nello svolgimento della propria attività di ricerca l'uso di ben tre tipi diversi di immaginazione, ovvero l'immaginazione visiva, l'immaginazione tematica e l'immaginazione metaforica (G. Holton: L'intelligenza scientifica, Roma, Armando Armando ed. 1984).

5 P.K. Feyerabend: Immagini e metafore della scienza, a cura di L. Petra, Bari, Editrice Laterza 1994.

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Luca Umena è nato ad Orvieto nel 1963. Docente di Matematica e Fisica presso il Liceo Scientifico E. Majorana di Orvieto, attualmente ricopre anche l'incarico di Tutor per i corsi di Fisica I e Fisica II presso la Facoltà di Ingegneria dell'Università di Perugia. L'articolo che qui presenta, trae origine da un suo intervento al Convegno internazionale "Cartesio e la scienza", tenutosi a Perugia nel settembre del 1996.

E-mail: lucaume@tin.it