La colonizzazione inglese dell'America,

tra mito e storia, tra scoperta ed invenzione*

(Clara Bartocci)**

 

La prima 'notizia' di un continente sconosciuto situato nell'Oceano Atlantico risale a Platone.

Novemila anni prima di Solone, narra Crizia riferendo ciò che suo nonno aveva sentito da Solone stesso, il quale a sua volta l'aveva ascoltato in Egitto da un sacerdote di Sais, si estendeva di là dalle Colonne d'Ercole l'isola di Atlantide, più grande dell'Asia e della Libia unite assieme. L'abitavano i dieci figli che il dio Poseidone aveva generato da una donna mortale, Clito. La loro progenie estese l'impero fino all'Egitto e alla Tirrenia e, grazie all'abbondanza dei frutti che la terra offriva spontaneamente e alle ricchezze minerarie del sottosuolo, prosperò nel commercio e nell'operosità. I monti che separavano il luogo dal mare "si diceva che superassero per numero, grandezza e bellezza tutti quelli ora esistenti, e chiudevano tra loro molti villaggi, ricchi d'abitanti, e fiumi e laghi e prati, che fornivano nutrimento sufficiente a tutti gli animali domestici e selvaggi, e selva copiosa e svariata, che porgeva materiale abbondante a tutti i lavori in generale e a ciascuno in particolare". Gli abitanti, rispettosi delle leggi e "animati amichevolmente verso il nume della loro schiatta", costruirono templi, regge, porti e arsenali, vivendo nella giustizia e nella pace. Ma quando l'elemento divino in loro venne sopraffatto dal carattere umano, re e popoli divennero avidi di ingiusta potenza meritando il castigo di Zeus (Crizia, 114 - 121).

Fu così che una loro spedizione di guerra nel Mediterraneo venne sconfitta dagli antichi Ateniesi, che allora eccellevano per sapienza, virtù e potere e che in tal modo liberarono generosamente tutti i popoli abitanti al di qua delle Colonne d'Ercole. Successivamente, però, a causa di grandi terremoti e inondazioni, nello spazio di un giorno e di una notte, tutti i guerrieri ateniesi "...sprofondarono insieme dentro terra, e similmente scomparve l'isola Atlantide assorbita dal mare; perciò ancora quel mare è impraticabile e inesplorabile, essendo d'impedimento i grandi bassifondi di fango che formò l'isola nell'inabissarsi" (Timeo, 25).

Il mito di Atlantide, che Platone porta ad esempio della sua concezione ciclica della storia, nel favoleggiare l'esistenza in un lontano passato di una terra meravigliosa in cui l'uomo era riuscito a prosperare col favore divino, si riconnette, sotto certi aspetti, al racconto fatto da Esiodo ne Le opere e i giorni di una prima generazione di uomini che, amata dagli dei, era vissuta libera da ogni preoccupazione in una terra fertile e rigogliosa.

Anche la storia biblica della creazione aveva posto l'uomo nel Paradiso Terrestre prima che, disubbidendo a Dio, si meritasse il castigo e conoscesse il dolore, il male, la morte.

Il mito paradisiaco di un tempo felice in cui l'uomo viveva in armonia con il creato e con il suo creatore è stato sempre presente nelle culture dei popoli. Nei libri sacri dell'India, in Iran, in Egitto, in Cina e nelle tradizioni religiose di Assiri e Caldei ricorrono elementi comuni quali alberi e frutti datori di vita e di sapere, fontane d'immortalità, eterne primavere, immagini di una breve felicità originale cui segue un lungo e tormentoso periodo di miseria. Come scrive Mircea Eliade: "Se si tien conto che la nostalgia del paradiso emerge anche dal comportamento religioso generale dell'uomo nelle società arcaiche, si è in diritto di supporre che il ricordo mitico di una beatitudine senza storia assilli l'umanità fin dal momento in cui l'uomo ha preso coscienza della sua situazione nel cosmo"1.

Nella cultura classica occidentale è stato Ovidio a cristallizzare tale nostalgia in un topos che sarebbe stato imitato o distorto infinite volte attraverso i secoli2: il mito dell'età dell'oro, visibilmente contrapposta, nella veloce transizione attraverso le età dell'argento e del bronzo, all'età del ferro come sua antitesi morale oltre che storica. Contemporaneamente, però, e all'interno della latinità, si assiste anche ad un capovolgimento dell'orientamento temporale dello stesso mito ad opera di Virgilio, che offre piuttosto la visione escatologica di una palingenesi dell'umanità rigenerata nella pace, nella giustizia, nella cessazione del travaglio, in analogia con la religione cristiana nella quale la visione dell'Eden perduto trova il suo contrappunto in quella di un Paradiso da riconquistare. Nella tanto discussa IV ecloga delle Bucoliche, il poeta si fa, infatti, portavoce di un'ansia di rinnovamento spirituale e sociale preconizzando, grazie alla nascita di un fanciullo di stirpe divina, l'avvento di una nuova era in cui gli armenti non temeranno i leoni, e perirà il serpente con ogni erba velenosa...

...incultisque rubens pendebit sentibus uva

et durae quercus sudabunt roscida mella.

["...e l'uva rossa penderà dagli spinosi rovi e le annose querce trasuderanno rugiadoso miele."]

Il mito di Atlantide, però, contiene una peculiarità che interessa sottolineare in questa sede, in quanto conferisce a quel luogo beato una ben precisa connotazione topografica, collocandolo per l'appunto nell'oceano ad ovest del mondo conosciuto. L'oceano, per la sua imperscrutabile immensità, era destinato ad attrarre la fantasia dell'uomo mediterraneo o europeo suscitando timore e venerazione. Verso di esso tendeva la direzione del sole al tramonto, e già Omero l'aveva immaginato sede della tenebrosa terra dei Cimmerii, luogo dell'oltretomba. Nessuno di cui si fosse conservata memoria aveva osato mai solcarne le onde, e Platone stesso ne aveva sottolineato l'impraticabilità attribuendone la causa alle terre sommerse di Atlantide. Mentre i pur difficoltosi contatti con l'Oriente non conoscevano e non avrebbero conosciuto l'ostacolo di una così vasta distesa d'acqua, per molto tempo ancora l'oceano sarebbe rimasto inesplorato e inesplorabile tanto da ispirare a Seneca i celebri versi della Medea:

Venient annis, saecula seris,

Quibus Oceanus vincula rerum

Laxet et ingens pateat tellus

Tiphysque novos detegat orbes

Nec sit terris ultima Thule. (II, 375-9)

["Verrà nei secoli futuri un tempo in cui l'Oceano spezzerà le catene dell'universo e apparirà un'immensa terra, e Teti rivelerà nuovi mondi, né più esisterà sul globo terrestre un'ultima Tule."]

Dopo la scoperta dell'America, cioè circa quindici secoli più tardi, il figlio di Colombo, Fernando, poté citare tali parole nella biografia del padre interpretandole in senso profetico3. Nel frattempo, l'Atlantico aveva aperto i suoi confini soltanto all'immaginazione, ospitando nel VI secolo il leggendario viaggio di San Brandano, che aveva navigato ad ovest dell'Irlanda nella sua settennale ricerca del paradiso, e intorno all'anno 1000 le spedizioni dei Norvegesi fino a Vinland, nell'odierna Terranova, di cui resta menzione nelle saghe islandesi, ma che rimasero del tutto sconosciute al resto d'Europa. Ad ovest delle isole britanniche fu collocata Avalon, l'isola delle mele dove si pensava fosse stato trasportato re Artù, mortalmente ferito in battaglia. Dalla Spagna invasa dai Mori si voleva che fossero partiti per l'Atlantico i Sette Vescovi che avrebbero fondato sette città nell'isola di Antilia. Al tempo di Enrico il Navigatore, le isole di San Brandano comparivano nelle carte nautiche ed un capitano di mare riferì al principe di aver effettivamente trovato Antilia, che, riportata nella Carta Pizzi del 1424, rimase per lungo tempo segnata nelle mappe a 200 leghe ad ovest delle Canarie. Negli anni immediatamente successivi al 1492, molti ritennero che proprio ad Antilia fosse approdato Colombo tanto che in portoghese, francese e italiano sono tuttora chiamate Antille le Indie Occidentali4.

Per tutto il Medioevo, mentre si intensificavano gli scambi con l'Oriente - si pensi ai viaggi dei Polo, di Odorico da Pordenone, di Andrea da Perugia - vennero effettuati nell'Atlantico solo sporadici tentativi di trovare le isole suddette. E benché avessero condotto alla scoperta delle Azzorre, quei viaggi tuttavia non avevano suscitato alcuna eco particolare. Nell'immaginario dei popoli mediterranei le Colonne d'Ercole continuarono a rappresentare una sorta di tabù. L'interpretazione letterale delle Sacre Scritture, trascurando le conoscenze geografiche ed astronomiche già appartenute alla cultura greca, dipingeva la Terra come un'isola piatta, al cui centro era Gerusalemme e, da qualche parte più in alto, il Giardino dell'Eden con i quattro fiumi, Tigri, Eufrate, Gange e Nilo, sgorganti dalla sua sommità. Dal momento che, secondo la Genesi, Dio aveva comandato ai mari di ritirarsi affinché emergesse la terra, si pensava che questa dovesse avere un'estensione di gran lunga maggiore rispetto alle acque e che, come risultava da uno dei libri di Esdra, fosse formata da un tutto unico. S. Agostino stesso, pur accettando l'ipotesi della sfericità del mondo, aveva negato la possibilità che esistessero terre agli antipodi, che alcuni pensavano dovessero controbilanciare il peso di quelle dell'emisfero settentrionale, perché gli abitanti di quelle zone separate dal mare non avrebbero potuto ricevere la parola del Cristo così come era invece scritto nel Vangelo. L'ecumene, cioè l'"isola della terra", lo spazio definito abitabile dai Greci, che si pensava fosse costituita da Europa, Asia ed Africa, era l'unico luogo che Dio aveva concesso all'uomo per condurre la propria esistenza, un luogo ben delimitato, circondato dalle acque, che poteva in ogni momento essere di nuovo sommerso se si fosse suscitata la collera divina, ma comunque posto sempre al centro della Terra, situata a sua volta al centro dell'Universo. Per Dante, che concepisce e ammira, ma non può approvare, l'ardire conoscitivo del suo Ulisse che spinge l'eroe a superare il limite invalicabile, il viaggio al di là delle Colonne d'Ercole rimane pur sempre un "folle volo".

Quando, nell'agosto 1492, Colombo salpò da Palos, deciso a raggiungere le Indie passando per l'Oceano Atlantico, non pensava, o almeno non dichiarò mai, che avrebbe trovato un nuovo continente sulla sua strada. Se si segue l'itinerario di pensiero ed azione che ha sotteso l'avventura colombiana -- secondo la falsariga utilmente indicata da Edmundo O'Gorman5 nello studio completo ed incisivo da lui condotto al riguardo -- si deve innanzi tutto constatare che il navigatore genovese, nel tempo stesso che con il suo gesto si rese interprete del mutamento di posizione che andava assumendo l'uomo nei confronti del mondo naturale, rivelò di essere ancora profondamente radicato nella cultura medioevale e in quella visione dell'Universo che assegnava all'essere umano, creatura prediletta del Signore, una collocazione privilegiata nell'"isola della terra". Colombo si proclamò convinto, come aveva affermato anche Aristotele, che l'Asia si estendesse maggiormente verso est e che la circonferenza della terra calcolata da Tolomeo in diciottomila miglia fosse giusta (in ciò sostenuto dal parere dello studioso Paolo Toscanelli, ma come lui confuso dall'uso dello stesso nome per indicare diverse unità di misura). Per questo egli credeva e sperava di poter raggiungere in un tempo più che ragionevole la meta che si era prefissa. Quanto le convinzioni espresse da Colombo siano state influenzate da ragioni di opportunità o propriamente scientifiche, o quanto piuttosto dalle descrizioni di Marco Polo, o dalle congetture espresse nell'Imago mundi di Pierre d'Ailly (1483) o addirittura dalle fantasie di Sir John de Mandeville, autore di un libro di viaggi immaginari in Oriente, non è dato dire e si tratta di un interrogativo legato all'essere effettivamente Colombo una figura di cerniera tra due tempi, oltre che tra due spazi6. Egli raggiunse ignaro nuove terre e vi 'vide' solo ciò che si aspettava di trovare: le estreme propaggini dell'Asia, allietate dal canto degli usignoli (in realtà mai esistiti in America), ed abitate da sudditi del Gran Khan (il Carìba della lingua dei nativi, cioè Caraibi, venne distorto in Canìba, appunto le genti del Khan). Impermeabile ai dati forniti dall'esperienza, sembrò perfino meravigliarsi che gli abitanti avessero normali sembianze7, visto che Mandeville aveva descritto in Asia esseri straordinari dotati di un unico piede, o con la testa rivolta all'indietro e altre simili eccentricità. Il fatto che vi fossero degli uomini confermava, comunque, agli occhi di Colombo, che quel luogo apparteneva all'Isola della Terra. L'assenza di grandi città, di miniere d'oro e di pietre preziose non scosse affatto la sua sicurezza di essere arrivato nell'Asia. Egli credeva di aver raggiunto le sponde orientali dell'Orbis Terrarum, ed era certo che in seguito avrebbe trovato ciò che cercava, e cioè la comunicazione tra l'Oceano Atlantico e l'Oceano Indiano. Tutti i suoi viaggi successivi furono guidati da questa incrollabile fede e da un'identica convinzione, e furono volti quindi a dimostrare che le coste della terra avvistata erano identiche a quelle dell'Asia. A proposito dell'isola di Cuba, ad esempio, volle sostenere che apparteneva alla terra ferma, identificandola con la penisola dell'Aurea Chersoneso disegnata da Tolomeo, e obbligò i suoi marinai a giurare che non si trattava di un'isola, come invece molti di loro, visto il tragitto esplorativo compiuto, ormai sospettavano8.

Quando nel 1497 le esplorazioni dei Caboto, compiute sotto il patrocinio dell'Inghilterra nell'attuale zona di Terranova, rivelarono l'esistenza di una massa continentale a nord dei punti toccati dall'Ammiraglio, la notizia sembrò paradossalmente confermare proprio che potesse trattarsi delle coste settentrionali dell'Asia. A Colombo non restava, quindi, per provare la sua tesi, che continuare a costeggiare verso sud le presunte coste orientali asiatiche fino a trovare l'inevitabile passaggio che avrebbe dovuto condurre nell'Oceano Indiano. E quando nel corso del suo terzo viaggio, avvenuto nel 1498, dovette constatare che solo una vasta estensione di terra poteva giustificare la presenza di tanta acqua dolce quanta quella rinvenuta nel golfo di Paria nell'odierno Venezuela, alle foci dell'Orinoco, Colombo concepì in effetti l'idea di un orbis alter, di cui avevano osato parlare gli scrittori pagani, ma soltanto nell'ipotesi che si trattasse di una grossa isola e senza quindi venire in contrasto con la teoria dell'ecumene. Non disdegnò neppure di aggiungere, comunque, forse ad esclusivo beneficio delle autorità religiose, che quella da lui intravista potesse essere addirittura la sede del Paradiso Terrestre, dalla quale si dipartivano appunto ben quattro fiumi, e che da molti era stata collocata proprio nell'estremo Oriente9. L'idea di un mondo altro, alla quale si accenna ripetutamente nei suoi scritti, non gli derivava da ciò che poteva aver visto, bensì dalla sua fermezza nella ostinata convinzione che le terre da lui raggiunte nei precedenti viaggi fossero veramente l'Asia. Fu così che, a conclusione del suo quarto viaggio, in cui aveva perlustrato le coste a sud della penisola dello Yucatan fino a rendersi conto che non esisteva alcun passaggio per l'Oceano Indiano, dovette scartare definitivamente l'ipotesi che esistesse una nuova terra posta a meridione proprio perché non aveva il carattere dell'insularità, e fu costretto ad ipotizzare, allo scopo di mantenere l'accordo tra la sua teoria e i dati sperimentali, che le terre scoperte costituissero una penisola addizionale dell'Asia, quale compariva, ad esempio, nel globo composto a Norimberga da Martino Behaim nel 1492 10.

Paradossalmente, l'avventuroso esploratore e marinaio, che per primo aveva avuto la forza immaginativa e la determinazione realizzativa capaci di infrangere definitivamente la barriera imposta all'uomo europeo dalle Colonne d'Ercole, era intellettualmente rimasto prigioniero della vecchia concezione del mondo che si sarebbe sgretolata sotto l'urto dei nuovi tempi e delle nuove idee generati dalla sua stessa impresa. Un anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1506, nella carta geografica di Waldseemüller, che sanzionava le conclusioni espresse nella Cosmographiae Introductio (pubblicata nel 1507 dall'Accademia di St. Dié a Strasburgo), la parte sud del nuovo continente, ormai concepito senza riserve come tale, compariva per la prima volta con il nome di America. Secondo il cosmografo tedesco, infatti, era stato il viaggio puramente esperienziale di Amerigo Vespucci lungo le coste del Brasile fino al 50° di latitudine sud che, facendo escludere ogni possibile affinità di quelle terre con una presunta costa asiatica, aveva permesso di definirle con sicurezza come "quarta parte del mondo". Il nuovo nome, non senza polemiche, finì poi con l'estendersi a tutto il nuovo continente, a memoria di chi rese possibile il comprenderlo come tale. Ma non è un caso che la storia ricordi e consacri come autore della scoperta il pur fuorviato teorico che inaspettatamente l'effettuò, piuttosto che il lucido sperimentatore che la riconobbe tale. Fu, infatti, l''impossibile' impresa del 1492 che diede inizio all'incontenibile movimento di fuoriuscita dell'uomo dalla sua prigione cosmica: in breve tempo l'oceano non avrebbe più definito i confini della dimora assegnata da Dio all'uomo, ma sarebbe stato parte del mondo stesso. Nel giro di cinquant'anni, come scrive Chaunu11, il mondo, per il bene o per il male, si sarebbe "saldato" in cerchio completamente. E l'ormai avviato processo mentale di deantropocentrizzazione avrebbe presto ricevuto un contributo ancora più rivoluzionario riguardante l'intera concezione dell'universo. Nell'arco degli stessi cinquant'anni vedeva infatti la luce nella lontana Cracovia il De revolutionibus orbium coelestium, pubblicato nel 1543, anno della morte del suo autore, Nicolò Copernico. Come non esisteva più un'ecumene al centro della Terra, così la Terra non era più al centro dell'Universo ed anche quest'ultimo sarebbe divenuto legittimo oggetto di esplorazione da parte dell'uomo unicamente sulla base della sua iniziativa, del suo coraggio e della sua abilità tecnica.

Fu dunque una lunga e complessa lotta ideologica quella che sottese all'inclusione del nuovo continente nell'Orbis Terrarum, tanto che O'Gorman pone alla base del processo di riconoscimento dell'entità fisica dell'America, di realizzazione di essa quale "quarta parte del mondo", un'operazione mentale di "invenzione" in senso scientifico, cioè di concepimento di un oggetto non prima esistente, inedito, come indispensabile per poterla sottrarre a quell'altro tipo di invenzione in senso mistificatorio, cioè di costruzione di una realtà confabulata, che l'aveva fatta misconoscere allo stesso Ammiraglio genovese e l'aveva fatta omologare all'Asia. È interessante però notare come un ulteriore processo di invenzione, in direzione nuovamente divergente dalla realtà, si innescò a proposito del significato che l'Europa attribuì a quella terra che, proprio in ragione dei suoi abitanti, sostanzialmente giudicati privi di civiltà e di religione, venne considerata non come esistente di per se stessa nella storia, ma come mera "potenzialità, la quale poteva realizzarsi soltanto ricevendo e portando a compimento i valori e gli ideali della cultura europea"12. Quel Mondo Nuovo, 'scoperto' infine come tale in base alle sue inconfutabili caratteristiche fisiche che gli avevano valso la qualifica e la dignità di continente al pari degli altri tre già noti, fu visto quindi semplicemente come un nuovo pezzo di mondo, cioè una terra in più, un'estensione dell'abitabile che non necessariamente andava conosciuta e descritta per quello che era, ma piuttosto per quello che poteva rappresentare in relazione agli interessi economici, politici e culturali dell'Europa stessa.

Ritratta donna come tutti gli altri continenti, ma a differenza di questi priva di vestiti, l'America, così come appare nelle figurazioni allegoriche del tardo Cinquecento13, sembra mostrare le sue attrattive di terra ancora vergine offrentesi all'esplorazione e al possesso dell'uomo bianco ed indicare altresì la possibilità, se non la necessità, di essere ricoperta dalle vesti della cultura europea che, avendole già dato, in modo del tutto anomalo rispetto agli altri continenti, il nome al femminile di un suo reale protagonista, avrebbe scelto di continuare ad ignorarne o soffocarne l'alterità per poterne scrivere la storia come esclusiva proiezione della propria. In questo senso, il paradossale errore di interpretazione geografica di Colombo, corretto e risolto dall'evidenza dei dati scientifici, fu perpetuato ed ufficializzato in altra forma sul piano storico-politico dietro la spinta degli interessi della colonizzazione, della conquista o, come avrebbero potuto giustamente definirla gli abitanti di quelle terre, dell'invasione.

Le bolle papali antecedenti alla scoperta dell'America avevano già consacrato il diritto del capo della Cristianità di assegnare le "terre di nessuno" a questo o quel sovrano cattolico che per primo le avesse occupate e sottomesse nell'interesse della Santa Chiesa e della vera fede. Nel 1493, Alessandro VI con la sua Inter coetera divise molto semplicemente il mondo colonizzabile tracciando una linea sulla carta in senso longitudinale lungo il meridiano a 100 leghe ad ovest delle isole del Capo Verde, destinando l'emisfero occidentale alla Spagna e l'altro al Portogallo affinché tutti gli infedeli potessero essere convertiti alla religione cattolica. Le Indie Occidentali furono forse considerate un adeguato compenso per gli otto secoli di lotte che la Spagna aveva combattuto contro i Mori e del resto la stessa spinta alla cristianizzazione del Nuovo Mondo ad occidente poteva essere interpretata come contrappasso storico all'ondata dei mussulmani che aveva raggiunto l'Africa e l'Europa nei secoli precedenti. La mentalità di crociata fornì così la spinta e la giustificazione esplicita della conquista che l'impero spagnolo portò avanti ad un ritmo impressionante e con notevole capacità organizzativa, ma grazie non tanto allo zelo dei suoi missionari, quanto soprattutto, come è noto, all'avidità dei suoi conquistadores. Agli inizi del Seicento, quando non esisteva ancora una colonia inglese stabile su suolo americano, la Spagna aveva ormai esteso i suoi domini in quasi tutta l'America centromeridionale, eccettuato il Brasile che, con il trattato di Tordesillas (1494), ratificato con bolla papale del 1506, rientrava completamente sotto la giurisdizione dei Portoghesi.

L'Inghilterra, invece, dopo i viaggi dei Caboto, rivelatisi piuttosto deludenti da un punto di vista pratico, aveva interrotto l'esplorazione del nuovo continente e per il disinteresse dimostrato dai nobili e per la politica della Corona che, anche dopo la riforma protestante, si era impegnata a mantenere buoni rapporti con Madrid malgrado fosse stata esclusa da ogni tipo di commercio con le colonie spagnole in America e con gli altri domini imperiali che comprendevano l'Olanda e la Germania. Solo nel 1527, dietro le ragioni addotte dal mercante Robert Thorne, che viene considerato il primo autore inglese di un'opera di propaganda sull'espansione oltreoceano, Enrico VIII finanziò il viaggio di John Rut alla ricerca di quel passaggio a nord-ovest che avrebbe potuto permettere all'Inghilterra di raggiungere presto le Indie attraverso rotte che erano al di fuori del controllo spagnolo e portoghese. La spedizione risultò però un fallimento a causa dei banchi di ghiaccio incontrati dal capitano lungo le coste del Labrador e l'interesse del sovrano si volse ai numerosi problemi interni del paese che, in seguito al distacco dalla Chiesa di Roma, necessitava di una serie di riforme istituzionali e sociali per caratterizzarsi come stato nazionale. Con la morte di Maria la Cattolica e la reazione antispagnola che ne seguì, Elisabetta poté cambiare indirizzo alla politica estera dell'Inghilterra. L'aumento della produzione tessile rendeva necessario ampliare l'esportazione e i mercanti avevano cominciato ad organizzarsi per proprio conto sia fondando delle compagnie per azioni a fini commerciali (la compagnia della Moscovia, istituita nel 1553, si proponeva di raggiungere le Indie passando da nord-est e intratteneva intanto proficui scambi commerciali con la Russia) sia addirittura dandosi alla pirateria ai danni dei galeoni spagnoli. Menzione a parte meritano i singolari commerci di 'carne' umana iniziati nel 1562 da John Hawkins, che, con la tacita approvazione dell'Inghilterra, catturava gli Africani della Guinea per venderli come schiavi nei Caraibi. Seguendo i consigli del segretario di Stato, Sir Francis Walsingham, la regina legalizzò la guerra di corsa al fine di indebolire la Spagna senza esporsi ai rischi di un conflitto dichiarato. I profitti ricavati in tal modo furono immensi (come quelli ottenuti dalla tratta dei "negri") e facilitarono l'instaurarsi, a corte e tra i nobili, di un movimento d'opinione favorevole alla creazione di avamposti militari nel Nuovo Mondo che potessero se non emulare almeno contrastare la politica imperialistica della Spagna.

In questo clima si inserisce l'opera di Sir Humphrey Gilbert, A Discourse of a Discoverie for a New Passage to Cataia (1566), in cui, accanto all'opportunità di trovare quel passaggio a nord-ovest ritenuto da molti realmente esistente, praticabile e pertanto di indubbio valore commerciale, si proponeva per la prima volta un progetto di colonizzazione dello stretto di Bering e della regione ad esso adiacente come possibile rimedio per arginare alcuni mali interni della nazione. Lo spopolamento delle campagne, dovuto al provvedimento delle enclosures, cioè alla chiusura di vaste zone di terra prima coltivate dai contadini e poi devolute a parchi nazionali, alla caccia o al pascolo, aveva infatti provocato un massiccio inurbamento con conseguenti allarmanti fenomeni di disoccupazione, criminalità e miseria. Le terre toccate dai Caboto, sulle quali l'Inghilterra poteva accampare dei diritti, non erano ancora state occupate da alcun principe cristiano ed attendevano di essere evangelizzate; esse erano le più vicine, fuori dalle rotte del nemico, e per di più ritenute dotate di un clima simile a quello inglese; un certo commercio vi era già praticato dai pescatori che da quasi un secolo si rifornivano di merluzzi nella zona di Terranova e che riportavano notizie di luoghi fertili, ricchi di fiumi e di porti, e che quindi avrebbero potuto dare lavoro alla massa di poveri e diseredati gravitante intorno alla capitale14.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che un importante precedente alla colonizzazione dell'America fu costituito per la nobiltà inglese dalla conquista dell'Irlanda. L'isola, che nel XV secolo si era retta su un sistema di governo affidato alle famiglie aristocratiche locali discendenti dal ceppo inglese che dominavano la popolazione di origine gaelica, venne sconvolta nel suo assetto dalla politica di Enrico VIII. Questi impose al paese la religione protestante, abolì i monasteri e mandò a morte i capi dell'eminente famiglia Fitzgerald di Kildare, creando un diffuso malcontento tra la popolazione. La nuova religione non aveva ancora fatto presa quando si profilò la minaccia di un'invasione spagnola; il papa stesso mandò dei soldati nel tentativo di riconquistare l'isola al cattolicesimo ed Elisabetta si vide pertanto costretta ad intervenire. Prima i militari e poi una legione di gentlemen-adventurers tra il 1565 e il 1574 invasero l'Irlanda, distrussero le magre risorse dei nativi e decimarono la popolazione di origine gaelica, giustificandone la strage in quanto gente "pagana" e "barbara". Come i Romani avevano un tempo civilizzato gli antichi Bretoni, così gli Inglesi ritenevano fosse ora loro diritto ed anzi precipuo dovere soggiogare gli Irlandesi per poterli condurre gradatamente alla civiltà. Destituirono quindi tutti i loro Signori, giudicandoli indegni del comando perché "crudeli", "cannibali" e "tiranni", e colonizzarono l'Irlanda spartendosene i feudi e procacciandosi illustri titoli nobiliari. Lo stesso Gilbert aveva partecipato a tale impresa e così pure Sir Walter Raleigh, Sir Ferdinando Gorges, Ralph Lane e Richard Grenville, tutti uomini che di fatto si sarebbero recati in America e che, memori dell'esperienza irlandese, si sarebbero portati dietro un ristretto ma efficace bagaglio di convinzioni: ogni colonia doveva avere una base militare; l'indolenza e la barbarie dei nativi giustificavano l'invasione; quella terra, come già l'Irlanda, rappresentava una nuova possibilità di accrescere le ricchezze personali, di rendere un servizio alla Corona e di difendere la causa della vera religione in contrapposizione alla Spagna e al papato15.

"Gli insuccessi incontrati più volte finora da Spagnoli e Francesi nei paesi a nord della Florida", scrive Edward Hayes, relatore del viaggio di Gilbert verso le terre settentrionali d'America (1583), "ci inducono a pensare che Dio ha destinato gli Inglesi a far cristiane quelle terre e a portarvi la civiltà [...]. Sembra che Dio onnipotente stia dalla nostra parte, poiché continua ad ostacolare le imprese degli altri. A far nostri quei vasti, ameni territori che spettano di ragione alla Corona d'Inghilterra ci sproneranno due considerazioni: che siamo nei nostri diritti, e che la nostra è una missione di religione, e quindi santa."16 Si delineava così quella che sarebbe divenuta una delle più efficaci guide ideologiche del colonialismo inglese: il senso dell'elezione divina, tipico della mentalità protestante, unito alla visione escatologica, provvidenziale della storia che assegnava al popolo prescelto da Dio la missione di portare a compimento il destino dell'umanità con la conversione di coloro ai quali non era ancora giunta la parola di Cristo.

Anche se il viaggio di Gilbert incontrò difficoltà e perdite enormi concludendosi tragicamente con la morte dello stesso comandante, il suo fratellastro Sir Walter Raleigh, che godeva di notevole influenza a Corte, si fece presto promotore di nuove iniziative riuscendo ad imprimere una svolta decisiva al movimento di espansione inglese oltreoceano. I così detti Roanoke Voyages, effettuati per suo volere dal 1584 al 1590 nella zona battezzata poi con il nome di Virginia in onore di Elisabetta, "The Virgin Queen", costituirono in effetti un primo embrione di insediamento di tipo coloniale. Complessivamente, è vero, si risolsero in un insuccesso sia per la carenza di aiuti finanziari, sia per il dissenso sorto tra i capi, sia per la presenza di soldati mercenari non disposti a prestare lavoro manuale. Inoltre, essendo l'Inghilterra impegnata nella guerra contro la Spagna, non potè assicurare regolari contatti e sostegni agli uomini lasciati nella nuova terra tanto che la piccola colonia impiantata nell'isola di Roanoke, davanti alle coste dell'odierna Carolina del Nord, andò completamente dispersa. L'esperimento, però, non ebbe soltanto la funzione di segnalare quali potessero essere gli errori più vistosi da evitare, ma anche quella di stimolare, insieme alla ricerca dei connazionali scomparsi, una forte ripresa di interesse per quella parte di mondo che nel frattempo era penetrata in Europa anche iconograficamente grazie ai disegni di John White, comandante della spedizione del 1587, il quale aveva ritratto copiosamente flora, fauna ed abitanti del nuovo paese.

Come nel caso dell'Irlanda così anche per l'America prese corpo un vero e proprio programma di propaganda a favore della colonizzazione, il cui primo frutto fu A Discourse of Western Planting, scritto nel 1584 dallo studioso e geografo Richard Hakluyt, dietro richiesta dello stesso Raleigh. Gli ideali missionari, uniti a considerazioni di ordine pratico, come la funzione che gli stanziamenti inglesi avrebbero avuto quale sbarramento all'ingordigia della Spagna, l'apertura di nuovi mercati che avrebbero vivificato il commercio e soprattutto, è il caso di sottolineare, lo sfruttamento delle immense risorse del paese (e non dei suoi abitanti, che Hakluyt pensava dovessero essere trattati con umanità e cortesia contrariamente alle atrocità commesse dagli Spagnoli), sono le motivazioni strutturanti il progetto coloniale espresso nel Discorso. Viene così delineato un quadro misto di serenità arcadica e di attivismo rinascimentale, in cui si prefigura una comunità operosa e concorde, intenta a trarre tutti i benefici possibili da una terra ricca di alberi, fiori, frutta e selvaggina attraverso, però, il proprio lavoro e grazie ad una pacifica convivenza con la popolazione nativa17.

Dopo la vittoria sull'Invincibile Armata (1588), niente sembrava ostacolare l'espansione dell'Inghilterra, ma in realtà la guerra contro la Spagna non era ancora terminata e le casse dello stato non avevano più finanze sufficienti da investire oltre i propri confini. Hakluyt continuò, comunque, la sua opera di incitamento all'impresa colonizzatrice cercando di fare leva sull'orgoglio della nazione con la pubblicazione, nel 1589, della raccolta di tutti i viaggi effettuati dagli esploratori inglesi in ogni parte del mondo, e i cui resoconti era riuscito, con grande perizia di ricercatore, a reperire e catalogare. La prima edizione, intitolata The Principall Navigations, Voiages and Discoveries of the English Nation, made by sea or overland to the most remote and farthest distant quarters of the earth at any time within the compass of these 1500 years, fu successivamente ampliata dall'autore fino a comprendere le spedizioni compiute nel XVI secolo verso occidente, incluse le circumnavigazioni di Drake e Cavendish ed anche alcune relazioni dei principali viaggi degli stranieri. Ristampata in tre volumi nel 1598-1600, quest'opera è stata giustamente definita un monumento di esaltazione nazionalistica, e rimane a tutt'oggi una preziosissima fonte documentaria18. L'ultimo volume, dedicato interamente all'America, contiene già in sé una variegatissima gamma di immagini e percezioni del nuovo mondo legate alle diverse esperienze e proiezioni dei viaggiatori che vi si erano recati: dai freddi e lugubri paesaggi descritti dagli esploratori del passaggio a nord-ovest all'esotismo evocato dal viaggio di Raleigh in Guiana alla ricerca del mitico El Dorado, dal senso di frustrazione di chi aveva visto quella terra come barriera al raggiungimento delle Indie all'ottimismo di chi la proponeva, invece, come base verso le favolose ricchezze dell'Oriente stesso.

Come segno inequivocabile della propria intenzione glorificatoria, nella lettera di dedica con cui si apre il volume, indirizzata al tesoriere, Robert Cecil, Hakluyt, che pur definisce l'America come Mondo Nuovo per la sua immensa estensione, fa esplicito riferimento all'Atlantide di Platone e alla profezia di Seneca ipotizzando una conoscenza già avvenuta di quella terra, risalente all'antichità. Si tratta di una scoperta sollecitazione di quell'eterno bisogno dell'uomo di figurarsi un mitico passato a sua volta specchio di un felice futuro, l'evocazione di un tempo diverso da quello presente tradotta nei termini più comprensibili e oggettivabili di uno spazio diverso realmente esistente. Il Nuovo Mondo si offriva ora come potenziale, concreto contenitore di tutti i sogni di rigenerazione e di libertà nutriti dall'uomo, mentre ai pensatori e ai filosofi non sarebbe restata ormai altra possibilità che di collocare le loro comunità ideali in un non-luogo, come l'Utopia di Thomas More, o in un luogo ancora al di là di quello recentemente scoperto, come La Nuova Atlantide di Bacone, posta ad ovest del Perù in una remota zona dell'Oceano Pacifico.

Per i più, per tutti quelli coinvolti o da coinvolgere nell'impresa colonizzatrice, l'America, come luogo geografico ancora 'spoglio di conoscenza', diviene un prolungamento naturale dell'Europa destinato ad ospitarne tutte le idealità e ad esserne 'rivestito': ora visto come terra edenica, immagine concreta delle mitiche origini, ora come luogo di un possibile avvenire, secondo un procedimento solo in apparenza contraddittorio, perché sia nell'uso della dimensione temporale al passato, che in quella al futuro, il processo descrittivo e il progetto operativo sarebbero stati sempre accomunati dal meccanismo dell'immaginazione, mentre sarebbe risultata elusa la realtà effettiva attuale del nuovo continente. Una invenzione dunque che, cominciata nei discorsi e nelle opere di propaganda di chi era rimasto in patria, avvalorata e arricchita dai resoconti per lo più affabulatori dei viaggiatori, sarebbe continuata nelle cronache delle colonie e nell'opera di tutti coloro che, attraverso la scrittura, avrebbero ambìto imprimere la loro forma a quella realtà per trasmetterla nell'altro luogo dell'Europa e nell'altro tempo delle successive generazioni.

A differenza della colonizzazione spagnola, che era nata come impresa di occupazione militare su commissione e per conto della Corona, la colonizzazione inglese del Nord America ebbe il carattere di impresa civile, finanziata con capitali privati da compagnie mercantili a cui lo stato concedeva delle patenti, cioè delle licenze che ne disciplinavano l'attività e, nel contempo, rappresentavano delle autorizzazioni a realizzare gli scopi societari19. Con la carta costituzionale nota con il nome di Virginia Charter, emanata nel 1606 da Giacomo I, il re autorizzava i mercanti della zona di Bristol, Plymouth ed Exeter, che formarono la così detta Plymouth Company, ad occupare le terre comprese tra il 38° e il 45° di latitudine nord mentre la London Company, che aveva tra i suoi sostenitori mercanti, nobili e intellettuali della capitale - tra cui lo stesso Hakluyt -, avrebbe agito più a sud, tra il 34° e il 41°. In modo divergente rispetto all'intendimento accentratore del monarca di Castiglia, il sovrano inglese non ritenne opportuno esercitare un controllo diretto su territori tanto distanti e preferì che fossero gli stessi organizzatori degli insediamenti a pensare al governo delle colonie. L'autorità regia, almeno nel periodo iniziale, avrebbe esercitato solo una funzione di copertura politica delle strutture locali.

Ad influenzare pesantemente il comportamento e le scelte dei primi colonizzatori furono così gli azionisti, mercanti, proprietari terrieri, ma anche persone del ceto medio, che, rischiando denaro in prima persona, esercitarono sempre una forte pressione affinché si producessero in fretta degli utili in modo da poter procedere ad una veloce ridistribuzione del capitale sociale. Dietro questa spinta, invece di esplorare il territorio o di pensare ad un approvvigionamento autonomo dei mezzi di sussistenza, i coloni si affannarono spesso in una faticosa quanto vana ricerca di quell'oro che aveva riempito i forzieri della Spagna, ma che nel Nord America risultava introvabile. Se un'impresa minacciava di essere poco sicura e infruttuosa, gli azionisti preferivano abbandonarla prima di incorrere in pesanti indebitamenti. La Compagnia di Plymouth, proprio per questo motivo, preferì rinunciare all'insediamento di Sagadahoc, stabilito nel 1607 sulla costa dell'attuale Maine, mentre la colonia di Jamestown, fondata nell'aprile dello stesso anno nella Baia di Chesapeake dalla più facoltosa Compagnia di Londra, riuscì a sopravvivere costituendo così il primo insediamento inglese stabile su suolo americano.

Gli inizi furono comunque rovinosi: i coloni, illusi forse dalla propaganda che aveva prospettato per chiunque si recasse nel Nuovo Mondo una vita facile e repentini guadagni, trascurarono l'agricoltura, soffersero la fame e vennero decimati dalle malattie. Fu solo grazie alla dura disciplina instaurata dal capitano John Smith, il quale prese il posto di Newport nel comando della colonia, che il piccolo nucleo di cinquantatré superstiti poté essere messo in grado di affrontare un altro inverno.

Per trovare i finanziamenti necessari a sostenere un'impresa così poco promettente, nel 1609 la Compagnia di Londra o Compagnia della Virginia, come venne più comunemente chiamata, lanciò una vera e propria campagna di pubblica vendita di titoli azionari: chi accettava di partire personalmente come colono avrebbe ottenuto una o più azioni a seconda del suo 'valore'; ad ogni azione sarebbero stati corrisposti 100 acri di terra al momento della divisione degli utili tra gli azionisti. Vennero coinvolti, a supporto promozionale di tale campagna, non solo intellettuali, uomini di stato, e mercanti, come Robert Johnson, ma anche i pastori di anime, come Robert Gray, William Symonds ed altri che dal pulpito potevano più facilmente raggiungere tutti gli strati della popolazione.

Il naufragio alle Bermude di una nave che in quello stesso anno partì per portare aiuti a Jamestown (l'episodio fornì a Shakespeare l'ispirazione per The Tempest, mentre il resoconto dei fatti, scritto nel 1610 da William Strachey, non venne pubblicato che quindici anni dopo perché giudicato controproducente) fece volgere l'interesse dell'Inghilterra anche verso quelle isole che si erano in fondo rivelate abbastanza accoglienti da far sopravvivere i naufraghi e che, in seguito, avrebbero costituito il primo passo verso l'occupazione dei Caraibi: nel 1612 le Bermude vennero colonizzate e nel 1620, grazie alle piantagioni di tabacco, vi vivevano abbastanza tranquillamente circa 1500 persone contro le 867 presenti a Jamestown. In Virginia, infatti, malgrado vi fossero ormai emigrate circa 4.000 persone, la situazione non accennava a migliorare. Nella smania di commerciare tabacco, la cui coltivazione intensiva aveva mostrato di fornire i primi guadagni, i coloni trascuravano di curare il grano ed altri prodotti commestibili. Così, mentre i pochi proprietari di servi che potevano far lavorare il tabacco moltiplicavano i loro profitti, gli altri morivano di stenti e di malattie.

Il 1620 può considerarsi un turning point nel processo di colonizzazione perché segnò l'inizio di un tipo diverso di immigrazione, questa volta del tutto spontanea, frutto di divergenze ideologiche. Un piccolo nucleo di perseguitati religiosi, seguaci, come i Puritani, delle teorie di Calvino, ma che consideravano la Chiesa d'Inghilterra troppo corrotta e troppo coinvolta in questioni politiche per poter essere riformata dal di dentro ed erano detti perciò Separatisti, si era rifugiato in Olanda, a Leida, fin dal 1609 per professare liberamente il proprio culto. Temendo, però, di essere fagocitati dall'ambiente e dalla cultura olandese, decisero di emigrare in America dove, agli estremi confini del mondo inglese, pensavano di poter essere liberi di conservare integro il loro programma di vita comunitaria religiosa, pur rimanendo sotto la protezione della Corona. La patente reale loro concessa, dietro il supporto finanziario del mercante Thomas Weston, li autorizzava a stanziarsi in Virginia, ma quando venne avvistata la terra, all'altezza di Cape Cod, stremati dalle fatiche del viaggio e temendo l'inclemenza del tempo, decisero di rimanere in quel luogo. Prima di sbarcare stipularono un patto, il celebre Mayflower Compact, con il quale non solo i Pellegrini, come si definivano quegli uomini devoti, ma anche servi a contratto, soldati e marinai, si impegnavano ad ubbidire alle leggi che la comunità di "Santi" si sarebbe data.

La storia della colonia di Plymouth, fondata l'11 dicembre 1620 nella zona che John Smith aveva già esplorato e denominato New England, è contenuta tutta nell'opera Of Plymouth Plantation che il governatore William Bradford cominciò a scrivere nel 1630 quando ondate successive di puritani, dietro l'esempio dei primi dissidenti, si erano ormai trasferite nel Nuovo Mondo stabilendosi nella Baia del Massachusetts. Prima che altri esuli, somiglianti a loro per il fondamentalismo religioso, ma ben più numerosi, facoltosi e colti, sopraggiungessero ad offuscarne il ricordo, l'autore volle affidare a quest'opera il compito di registrare per i posteri il faticoso inizio della vita nella wilderness che i Padri Pellegrini avevano intrapreso in nome della fede e che Dio aveva sostenuto e protetto con le sue straordinarie provvidenze, così come aveva fatto con il popolo d'Israele nel deserto.

Con l'ascesa al trono di Carlo I, che aveva manifestato sempre più chiaramente la tendenza a ripristinare un regime di culto anglocattolico appoggiando le riforme dell'arcivescovo Laud, in Inghilterra si erano infatti intensificate le misure di repressione contro gli oppositori della Chiesa ufficiale e, dopo che il re ebbe sciolto il Parlamento, i seguaci dell'idea puritana persero ogni speranza di una prossima ristrutturazione della gerarchia ecclesiastica che, a loro avviso, avrebbe diminuito la corruzione e restituito alla Chiesa una forma più semplice e dignitosa. Fu così che nel 1628 un primo gruppo di puritani decise di emigrare, al seguito di John Endicott, stanziandosi a Salem nel Massachusetts, non senza avere istituito, con grande efficienza e disponibilità di mezzi, una compagnia apposita, la compagnia della Nuova Inghilterra. L'anno seguente, i suoi azionisti ottennero una patente reale che qualificava la società come Massachusetts Bay Company, e dava diritto ai suoi membri non solo di occupare la regione omonima, ma anche di governare su tutti i sudditi inglesi che si sarebbero recati nella colonia.

A differenza degli umili Padri Pellegrini, i quali, una volta pagati i loro debiti con i mercanti, avevano preferito rimanere fuori dall'influenza corruttrice del mondo e non avevano cercato neppure di avere una Carta ufficiale che legalizzasse il loro insediamento per rendere più autorevole la loro posizione, i Puritani erano uomini d'azione, sicuri delle proprie capacità organizzative come della propria rettitudine morale, e determinati, quindi, ad esercitare tutto il potere necessario a costituire quella società degna dell'approvazione di Dio che non era stato possibile realizzare in patria. John Winthrop, avvocato e proprietario terriero, che aveva contribuito al costituirsi della società commerciale, fu eletto subito governatore della colonia, che, nel giro di una quindicina d'anni, era destinata ad accogliere più di 20.000 persone.

Benché avessero adottato, una volta in America, lo stesso sistema ecclesiastico congregazionalista dei Separatisti, i Puritani desideravano considerarsi ancora parte della Chiesa nazionale; e se da un lato condividevano con i Pellegrini l'estremo rigore morale e la subordinazione degli interessi privati al bene pubblico, dall'altro erano fortemente legati al concetto di distinzione tra le classi, che ritenevano garanzia di ordine, e si rivelarono assolutamente intransigenti verso tutti coloro che potevano mettere in crisi la forza coesiva del loro "sacro esperimento". Solo chi poteva dimostrare, attraverso la buona condotta e una pubblica professione di fede, di essere in possesso della grazia poteva entrare a far parte della chiesa visibile in quanto questa doveva essere il più possibile specchio della "Chiesa di Dio"; solo gli eletti, membri della Chiesa, avevano diritto di voto nelle pubbliche assemblee in modo da poter controllare che la società nel suo complesso rimanesse fedele al patto stipulato tra Dio e i prescelti, i quali, a loro volta, si impegnavano ad operare per i suoi fini ed a creare le condizioni più favorevoli perché tutti trovassero la via della salvezza.

Fu proprio in seguito ad una disputa in materia di fede che nel 1636 Roger Williams, un puritano dissidente, sostenitore tra l'altro della necessità di separare il potere civile da quello ecclesiastico, venne allontanato da Boston per le sue idee radicali, considerate anarchiche e disgregatrici, e, rifugiatosi nel Rhode Island, vi fondò la colonia di Providence.

L'intolleranza dei leaders del Massachusetts provocò altri dissensi tra i Puritani stessi: oltre al caso personale di Anne Hutchinson, bandita dal Massachusetts come eretica antinomiana, sempre in quegli anni, alcuni gruppi, che non condividevano la procedura imposta dal governo della colonia per diventare membri della Chiesa, cominciarono a distaccarsi dall'insediamento centrale cercando terre più fertili e maggiori possibilità di commercio lungo il fiume Connecticut; sorsero così dei piccoli centri, come Hartford, Windsor, Wethersfield e Springfield, che nel 1639 si dettero un proprio governo costituendo la colonia del Connecticut.

Ancora rifugio di una minoranza religiosa, questa volta cattolica, fu il Maryland, che nacque, però, non con il supporto del capitale di una compagnia di commercio, ma come donazione personale di re Carlo I a George Calvert, la cui famiglia si era di recente convertita al cattolicesimo. Durante l'occupazione dell'Irlanda, Calvert si era guadagnato il titolo nobiliare di "Lord Baltimore" e, godendo dei favori della corte, nel 1628-29 si era recato di persona nella Baia di Chesapeake per individuare un luogo dove avrebbero potuto stanziarsi i cattolici inglesi, che in patria erano osteggiati e mal visti. La Carta che, nel 1632, autorizzava lui e i suoi eredi a prendere pieno possesso della terra compresa tra il fiume Potomac e le foci del Delaware, più precisamente tra il 38° e il 40° di latitudine nord e, ad ovest, fino ai monti Appalachi, fu utilizzata da suo figlio Cecilius, poiché egli morì pochi mesi prima che gli venisse rilasciata. Per gestire l'immensa proprietà di cui era stato fatto signore assoluto, Cecilius Calvert ideò un sistema di tipo feudale, provando a realizzare un'utopica piramide con a capo se stesso che, come Lord Proprietor, avrebbe esercitato dall'Inghilterra diritto di veto su ogni atto legislativo della colonia, di cui nominò governatore suo fratello Leonard; ai suoi parenti concesse i feudi più estesi, ad altri signori feudi minori; alcuni contadini erano proprietari di piccoli appezzamenti di terra, e, infine, venivano i fittavoli che con il proprio lavoro avrebbero prodotto le rendite necessarie a mantenere i signori. Il piano si concretizzò sotto forma di una spedizione di circa 200 persone che, nel marzo 1634, arrivò nella Baia di Chesapeake e scelse di insediarsi presso la foce del fiume Potomac, in un luogo salubre e naturalmente fortificato cui venne dato il significativo nome di St. Mary, in onore della Madonna. Ben sapendo che la maggior parte dei coloni, già alla partenza ma soprattutto in seguito, sarebbe stata costituita da servi a contratto di confessione protestante, Cecilius Calvert, pur destinando ai cattolici i posti di maggior potere, impose la tolleranza religiosa come regola costitutiva della colonia e proibì espressamente che venissero sollevate controversie in materia di fede.

Il sistema feudale pensato dal Lord Proprietario non durò a lungo: data la scarsità di manodopera, indispensabile a far fruttare le terre per lo più coltivate a tabacco, gli stessi proprietari cominciarono a vendere parte dei loro feudi a chi semplicemente aveva denaro per comprarli; inoltre, molti furono i Protestanti che dalla vicina Virginia si trasferirono nel Maryland in cerca di nuove possibilità. Nel 1640, poi, per incentivare l'immigrazione, venne introdotto lo stesso sistema usato in Virginia di concedere una certa estensione di terra ad ogni colono indipendente disposto ad emigrare con la propria famiglia. Aumentò così notevolmente il numero dei freeholders, liberi proprietari di appezzamenti di terreno, per lo più protestanti, che, facendo forza sul loro stesso numero e sul fatto che rappresentavano gli interessi della maggioranza della popolazione, cercarono di arginare i numerosi privilegi di cui godevano i Signori, ed entrarono in conflitto con il Consiglio della colonia, di cui facevano parte solo cattolici, alleati o parenti del Proprietario, rivendicando il diritto di potersi riunire in assemblea indipendentemente dal volere del governatore. Lo scoppio della guerra civile in Inghilterra tra Corona e Parlamento, favorì le richieste dei freeholders, che ottennero di poter costituire una specie di camera bassa attraverso la quale far sentire la loro voce a livello legislativo. Nel 1649, la situazione iniziale era talmente cambiata che l'Act Concerning Religion, con il quale Lord Baltimore proibiva qualsiasi forma di persecuzione religiosa tra cristiani, serviva ormai paradossalmente a proteggere i cattolici: quella che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere una colonia tollerante e pacifica, basata sul rassicurante vecchio schema feudale, aveva cambiato il suo assetto economico-politico e si era tramutata in un groviglio di tensioni religiose e di fazioni in lotta per il potere.

Nel 1660, anno della Restaurazione monarchica - che costituisce il limite cronologico di uno studio da me condotto su relazioni, sermoni, cronache, storie e resoconti di viaggio relativi alla colonizzazione inglese del Nuovo Mondo20 - come conseguenza della guerra civile che aveva travagliato l'Inghilterra, tutte le colonie avevano in qualche modo tratto vantaggio dal fatto che la madre patria fosse stata impegnata per circa vent'anni a risolvere gravi problemi interni per affermare gli interessi locali e rafforzare la propria autonomia: la Virginia, che con lo scioglimento della compagnia omonima era passata fin dal 1624 sotto il controllo della Corona, fu contraria alla deposizione di Carlo I, ed accettò di riconoscere il governo di Cromwell solo a patto che l'Assemblea della colonia continuasse ad esercitare il potere legislativo e amministrativo ed ottenesse di nominare il governatore e i consiglieri; il New England, che aveva da sempre avuto un governo abbastanza autonomo, pur accogliendo con soddisfazione la notizia della vittoria dei Puritani, non per questo cedette alle pressioni provenienti dall'Inghilterra perché si esercitasse maggiore tolleranza nella colonia o perché questa aderisse al progetto avanzato da Cromwell di mandare parte dei suoi abitanti a colonizzare la Giamaica, da poco strappata agli Spagnoli; anche il Rhode Island approfittò del cambio dei poteri quando, nella persona di Roger Williams, chiese ed ottenne, nel 1644, il riconoscimento legale del suo stato.

Nel 1660, prima che la Restaurazione potesse portare ad un tentativo di impostare nel Nuovo Mondo una politica di maggior controllo da parte della Corona, le colonie avevano già sviluppato delle caratteristiche che avrebbero reso impossibile l'instaurarsi di un sistema imperiale centralizzato come quello spagnolo nel Sud America. Gli stessi diversi modi che avevano portato alla loro fondazione - compagnie di commercio con interessi prevalentemente economici, compagnie finanzianti l'esodo di dissidenti religiosi, filiazioni più o meno spontanee da una colonia già esistente, donazioni del re ad personam con poteri quasi assoluti - se da un lato riflettevano l'orientamento essenzialmente pragmatico piuttosto che ideologico del colonialismo inglese, dall'altro avevano favorito l'insediamento, nel Nord America, di una varietà di strutture economico-politiche e di confessioni religiose che sarebbe stata impensabile nell'impero, omogeneo, statalizzato e rigidamente cattolico, che la Spagna aveva creato nell'America del Sud.

Tale varietà rende conto anche della differenza, all'interno delle colonie inglesi, tra gli insediamenti sviluppatisi intorno alla Baia di Chesapeake e quelli fioriti nel New England. I primi, Virginia e Maryland, basati su un'economia di tipo agrario, legata soprattutto alle piantagioni di tabacco per le quali era necessaria una grande quantità di manodopera, videro il formarsi di una struttura gerarchica caratterizzata dalla differenza di status sociale tra i pochi proprietari e i molti servi (fino al 1660 erano meno di mille gli Africani importati come schiavi e utilizzati nelle piantagioni), che si annunciava foriera di proteste e trasformazioni. La vasta estensione dei campi coltivati, ognuno dei quali aveva la sua casa padronale, impedì inoltre il formarsi di vere e proprie comunità anche perché, essendo gli interessi dei coloni prevalentemente produttivi e commerciali, pochi furono coloro che si recarono in America con la propria famiglia e pochi quelli che pensarono di rimanervi per sempre.

Nel New England, invece, l'emigrazione era stata fin dal principio formata da gruppi di persone, donne e bambini inclusi, fermamente intenzionati a lasciare l'Europa per professare liberamente la propria fede. Il territorio su cui si erano stabiliti, ad esempio, i Padri Pellegrini, pur apparendo all'inizio freddo e inospitale, presentava caratteristiche climatiche e geografiche affini a quello da cui erano partiti e fu, quindi, anche più naturale cercare di riprodurvi il sistema di vita tipico della provincia inglese: villaggio con scuola pubblica, chiesa e prigione; piccoli orti intorno alle case, appezzamenti più estesi per coltivare il grano ed altri, in comune, destinati al pascolo. Le cittadine sorte poi sullo stesso schema ad opera dei Puritani, ma che divennero presto più popolose e caratterizzate da una maggiore intraprendenza e dinamicità, svilupparono, grazie anche alla posizione favorevole dei loro porti, un'economia mercantile legata al commercio delle pelli di lontra e di castoro, poco ingombranti e molto pregiate, che furono proficuamente scambiate con i prodotti industriali provenienti dall'Inghilterra. Quando questa risorsa venne meno per la progressiva estinzione di quegli animali, si pensò di ricorrere ai prodotti naturali che si offrivano in più grande abbondanza, come pesce e legname, ma, siccome l'Inghilterra non aveva bisogno di tali merci, cominciò un processo di scambio indiretto tramite Francia e Spagna, dalle quali si potevano avere zucchero e vino, prodotti che venivano rivenduti, direttamente o per mezzo di bills of exchange, ai mercanti inglesi in cambio dei manufatti di cui necessitavano tutte le colonie.

Sia a sud che a nord, comunque, a differenza della Spagna che era capitata in terre popolose e ricche di miniere, che si era insediata nelle città dopo averle conquistate e saccheggiate adattando, come dice O'Gorman21, le nuove circostanze al suo modello, e cioè trapiantandovi con la forza le istituzioni politiche, amministrative ed ecclesiastiche della Nazione madre, le colonie inglesi dovettero 'guadagnarsi' per prima cosa la loro stessa sopravvivenza. Stabilitesi in zone che non offrivano a prima vista possibilità di facili bottini, le bonificarono e le coltivarono e, pur portando con sé sistemi di vita, istituzioni e privilegi di origine europea, si trovarono a dover adattare il modello alle nuove circostanze. Quando non fu addirittura una scelta programmatica, come nel caso del New England, dove le nuove terre non furono mai intese come un dono di Dio alla madrepatria, ma come un'occasione provvidenziale offerta al popolo degli eletti per costruire una nuova Gerusalemme, lontano dalla corruzione del Vecchio Mondo.

Nel 1660, circa 60.000 inglesi erano ormai emigrati nelle colonie americane. Essi avevano dovuto confrontarsi, però, non solo con un diverso territorio, le cui caratteristiche più appariscenti erano state, agli occhi di tutti, l'immensa vastità e la grandezza di tutte le cose da esso prodotte, ma anche con i suoi abitanti, che di quel territorio erano parte integrante e ne impersonavano l'alterità.

Benché sia stato possibile tracciare, nei paragrafi precedenti, un quadro generale dell'espansione inglese oltreoceano senza considerare volutamente la presenza della popolazione nativa, come di frequente succede nella storia scritta secondo l'ottica dell'uomo bianco, si deve d'altra parte considerare che furono i così detti "Indiani" che di fatto costituirono il termine di confronto più significativo per gli Europei e che svolsero con la loro presenza un ruolo determinante nel processo di stanziamento, crescita e definizione dell'identità stessa degli abitanti delle colonie22.

Si pensa che le popolazioni autoctone che occupavano, agli inizi del XVI secolo, la costa atlantica ad est del Mississippi arrivassero a 600.000 unità (ma qualcuno giunge a calcolarne addirittura 2 milioni), senonché la trasmissione e diffusione delle malattie infettive causate dal contatto anche solo temporaneo con pescatori o viaggiatori europei, oltre che le guerre tra tribù e tribù, ne avevano ridotto a tal punto il numero che all'epoca dei primi stanziamenti inglesi stabili sembra fossero rimasti nella zona meno di 200.000 nativi. Non tanto quindi una terra "vergine" fu quella che trovarono i nuovi occupanti quanto semmai una terra rimasta in larga parte "vedova".

La denominazione di "Eastern Woodland Indians", comunemente accettata dagli antropologi per indicare gli Indiani stanziati lungo le foreste orientali della costa atlantica, comprende un vasto e differenziato numero di tribù. Mentre a nord del New England esse basavano la propria economia di sussistenza prevalentemente sulla caccia e sulla raccolta di frutti selvatici ed erano quindi nomadi, al centro e al sud, fino alla Virginia compresa, vivevano invece gruppi semisedentari che ubbidivano a complicate gerarchie di capi e che praticavano anche l'agricoltura. La cura dei campi veniva affidata generalmente alle donne, mentre la pulizia del sottobosco, regolarmente effettuata come necessaria alla caccia stessa, era eseguita dagli uomini; sempre gli uomini si dedicavano alla pesca, al commercio e alla costruzione delle canoe o di palizzate spesso erette a difesa dei villaggi.

Malgrado la diversità di costumi, di forme di governo e di linguaggi distinguesse una tribù dall'altra, e malgrado queste fossero spesso in lotta fra loro, gli Indiani d'America, anche quelli delle grandi pianure e del lontano ovest, condividevano una visione del mondo e della vita che era molto diversa da quella dell'uomo occidentale. Laddove gli Europei distinguevano nettamente tra cultura e natura ed erano stati educati a soggiogare quest'ultima considerandola come una forza opposta alla civiltà, gli Indiani vivevano un rapporto così intenso con la natura, dalla quale sapevano di dipendere direttamente, che si sentivano completamente immersi in essa, provavano una sorta di timore reverenziale per ogni suo fenomeno e la percepivano in tutta la sua complessità come fonte di vita e di morte, di gratificazione e di castigo. Anche gli animali che, alla loro stessa stregua, partecipavano del mondo naturale, erano per gli Indiani dotati di anima; essi non andavano perciò offesi con un comportamento brutale che non tenesse conto della loro sensibilità e preziosità. Il rituale della caccia, che prevedeva regole molto precise e la preghiera sul corpo dell'animale ucciso a testimoniare la necessità di quell'azione, era anche una prova di destrezza e di coraggio, tanto più ardua in quanto gli Indiani non disponevano né delle armi da fuoco né dei cavalli, introdotti solo in seguito dagli Europei. Se la misericordia era considerata una forma di corruzione dell'anima e la vendetta una virtù, questa era espressione di quella sete di giustizia che, in assenza di tribunali e leggi scritte, l'Indiano si faceva da sé in base all'educazione ricevuta e alle tradizioni che la sua gente aveva tramandato oralmente. L'importanza attribuita alla parola, che, data la mancanza della scrittura, rappresentava la sola possibilità espressiva del pensiero e del volere umani, rende conto anche del silenzio in cui si svolgevano le riunioni della tribù e contraddistingueva altresì il comportamento del singolo: l'Indiano preferiva tacere piuttosto che dire parole superflue o inappropriate; una volta data la sua parola, considerava gravissimo contravvenire al patto e questo senso dell'onore individuale era talmente radicato da travalicare il senso di appartenenza alla tribù o, come si dimostrò in seguito, alla razza stessa.

Dal punto di vista religioso, come riassume efficacemente Wilcomb E. Washburn, "la religione degli indiani comprendeva una vasta gamma di dottrine e di pratiche che spiegavano e nello stesso tempo stabilivano il rapporto dell'uomo con qualche potere sconosciuto o addirittura inconoscibile, che esercitava un'influenza sulla sua vita. Sia che cercasse la comprensione e l'aiuto delle potenze soprannaturali dell'universo individualmente, come molti cacciatori, oppure attraverso cerimonie comunitarie stabilite, come la maggior parte degli agricoltori, l'indiano credeva in una forza al di fuori di se stesso. Al tempo stesso, però, sapeva spesso riconoscere attraverso i sogni quelle forze inconsce dentro di sé che rappresentavano un ponte con le grandi forze dell'universo. La sua capacità di empatia con gli esseri umani e non-umani che sembravano partecipare anche loro di questa stessa forza vitale, fornì all'indiano una visione del mondo coerente e piena di significato"23.

Quanto questa visione animistica della Natura fosse lontana da quella oggettivante e strumentale dell'Europeo cristianizzato risulta evidente, e quanto, soprattutto, le sue manifestazioni esteriori fossero utilizzabili ai fini della politica coloniale è facile immaginare: dall'accusa prorompente di paganesimo e stregoneria al disprezzo per forme di vita basate sulla caccia, dalla critica per l'assenza di leggi e di governo alla disapprovazione per il ruolo svolto dalle donne in confronto all'indolenza attribuita agli uomini, tutto fu volto ad evidenziare lo stato di selvaggità e barbarie che legittimava la conquista.

Anche quando intenzioni assolutamente pacifiche contraddistinsero i primi contatti, la non comprensione di certi valori pur fondamentali, ma difficilmente trasmissibili, della società indiana, portò a successivi rancori e giustificate - da ambo le parti - rivendicazioni. Esemplare, a questo proposito, fu il problema dell'acquisizione della terra: alcuni bianchi, infatti, vuoi per scrupolo morale vuoi per pura opportunità, non se la sentirono di occupare semplicemente il territorio estromettendone gli abitanti naturali e si offersero pertanto di pagare loro la terra con del denaro, credendo così di saldare ogni debito. L'Indiano, invece, per il concetto stesso che aveva della Natura, non concepiva l'idea di proprietà privata della terra; essa era un bene che il Grande Spirito aveva concesso all'uomo perché lo potesse usare; la terra, come le piante e gli animali che vivevano in essa, e lo stesso cielo, facevano parte di una interpretazione globale del mistero della vita ed erano considerati beni inalienabili dell'umanità nel suo complesso. Quello che poteva essere 'pagato' con un dono simbolico era semmai il diritto di accesso alla terra, non certo il diritto di proprietà. Così se gli Olandesi, che cominciarono ad occupare Manhattan nel 1626, furono ben contenti di comprare l'isola dai nativi per soli 60 fiorini, ancor più lo furono di venderla gli Indiani, che erano già in procinto di lasciare quella zona per emigrare verso nord: nessuna delle due parti aveva però capito ciò che era successo e il misunderstanding si sarebbe perpetuato anche nei successivi patteggiamenti con gli Inglesi generando, per la facilità con cui poteva essere effettuato l''acquisto', una sempre maggiore domanda di territori, che in tal modo poterono essere sottratti agli Indiani senza eccessivi scrupoli di coscienza24.

Un altro grave motivo di incomprensione fu il diverso modo di intendere la guerra: mentre gli Europei combattevano ormai guerre di stato che venivano pubblicamente dichiarate e vedevano spiegati nei campi di battaglia eserciti contrapposti, gli Indiani colpivano di sorpresa, in piccoli gruppi o anche individualmente, per vendicarsi, fare prigionieri ed acquistare onori personali. Così se gli Indiani consideravano l'incursione nel territorio nemico e l'imboscata atti di destrezza che, con il minimo rischio e l'uccisione di pochi, riuscivano ad appagare il senso di giustizia della tribù procacciando ai guerrieri che si erano esposti prestigio e riconoscenza, gli Inglesi vedevano con disprezzo simili attacchi e, interpretandoli come segno di vigliaccheria e di slealtà, o addirittura di diabolicità, si sentivano legittimati a reagire con tutta la violenza possibile.

Il conflitto tra le due culture era inevitabile ed avrebbe ineluttabilmente condotto alla vittoria la società tecnologicamente più avanzata che aveva deciso di portare il suo ordine, la sua civiltà e la "vera" fede nel caos rappresentato dalla wilderness. Ma proprio quest'ultimo scopo, che, pur secondario nei fatti, era stato la bandiera ideologica dell'impresa colonizzatrice, si rivelò particolarmente difficile da realizzare dal momento che più degli altri implicava, per la sua riuscita, una somiglianza di valori inesistente tra le due razze. Malgrado lo sforzo di alcuni missionari, come John Eliot nel New England e i Gesuiti nel Maryland, gli Indiani, pur mostrando di ascoltare con interesse la predicazione dei nuovi venuti, in realtà opposero resistenza alla conversione, ed anche quando sembrava che accettassero alcuni aspetti del rituale cristiano, come il battesimo, non ne interiorizzavano il significato e non erano perciò disposti a rinunciare alla propria forma di religiosità con la quale riuscivano a spiegarsi il mondo. L'ostinazione, o meglio la dignitosa fermezza, con cui essi difesero i valori della loro società contribuì in modo cruciale alla loro emarginazione da parte dei coloni inglesi i quali, vedendo sempre di più nei costumi indiani lo specchio del deplorevole stato in cui poteva ridursi l'umanità che viveva nel peccato, cominciarono a definire se stessi in contrapposizione agli altri ed usarono la 'negatività' del 'selvaggio' per rafforzare la propria identità 'positiva' di uomini 'civilizzati'.

Nel ripercorrere la vicenda attraverso cui prese corpo l'immagine dell'Indiano nella cultura europea moderna, si rileva come essa possa essere letta nell'ambito del più ampio processo di invenzione dell'America, a sua volta esemplare del travaglio che sottese il passaggio tra mondo antico e mondo nuovo, tra pensiero dogmatico, basato sull'autorità delle Sacre Scritture, e pensiero scientifico, basato invece sull'osservazione diretta dei fatti senza pregiudizi e problemi di coerenza con quelle. Mentre l'entità geografica dell'America fu investigata con estrema rigorosità tanto che fu ritenuta decisiva per la sua corretta identificazione la ricerca esplorativa, puramente sperimentale, effettuata da Vespucci lungo le coste del Brasile, del tutto diverso è stato il destino dell'universo umano presente nel nuovo continente. Lungi dall'essere stato oggetto di altrettanto appassionato studio e di accurata esplorazione, esso è stato piuttosto soggetto del tutto secondario della vicenda della conquista, ora ostacolo ora strumento di essa. L'umanità indigena, già misconosciuta da Colombo che l'aveva assimilata a quella dell'Asia, seguitò così a partecipare di un processo di rappresentazione affabulatoria determinata dagli interessi politico-ideologico-religiosi legati alla colonizzazione.

La collocazione dell'immagine dell'Indiano sul versante per così dire retrogrado, oscurantista, della cultura del tempo (anche di quella inglese) appare paradigmaticamente esplicitata dalla sorte dei nomi destinati a designare il nuovo continente e i suoi abitanti: America, Indiani. Mentre gli Spagnoli per almeno tre secoli continuarono a chiamare quelle terre "Las Indias" così come chiamavano "Indios" i nativi, gli Inglesi aderirono prontamente alla proposta scientifica di Waldseemüller adottando per il paese il nuovo nome che onorava chi, più libero di Colombo da pregiudizi di natura ideologica, aveva permesso di identificarlo come entità nuova25. Dall'altra parte, però, perpetuarono l'uso del termine "Indians", retaggio dell'errore del primo scopritore, ad indicare l'incerta identità antropologica dei 'vecchi' abitanti e come per privarli del diritto di appartenenza alla 'nuova' terra.

L'incoerenza semantica dei due sostantivi sortì inoltre l'effetto di lasciare inutilizzato per lungo tempo il termine più logico con il quale si sarebbe dovuto designare il popolo della nuova terra: quello di "Americani", usato in tal senso solo dal dissidente Roger Williams in quello che può considerarsi il primo vocabolario dall'algonchino all'inglese, A Key into the Language of America (London, 1643), opera che, del resto, Williams scrisse in aperta polemica nei confronti dei Puritani del Massachussetts che lo avevano bandito dalla loro colonia. E non sarebbe mancato alla fine il coraggio ai nuovi nativi di appropriarsi del nome che li avrebbe legittimati in tutto e per tutto nel possesso del nuovo paese. Il termine comparve per la prima volta in tale accezione, incluso in una metafora di sapore biblico coniata non a caso da un atto interpretativo del pensiero puritano, nel titolo latino dell'opera di Cotton Mather, Magnalia Christi Americana, pubblicata a Londra nel 1702, dove, narrando le cose compiute dal nuovo popolo eletto in America, si spiegava come la luce della Divina Provvidenza avesse ormai completamente irradiato la Indian wilderness!

Quando l'Inghilterra cominciò ad occuparsi concretamente della colonizzazione oltreoceano era ormai, come si è detto, passato circa un secolo dalla scoperta, e molto era già stato scritto dagli Spagnoli sugli abitanti del nuovo continente. Visti sia come virtuosi e sottomessi (Las Casas), sia come feroci e cannibali (Sepúlveda), essi erano stati comunque giudicati in base a quei valori la cui assenza presso di loro più li differenziava dagli Europei: cristianesimo e civiltà. Tale discriminante si ritrova sostanzialmente invariata anche alla radice dell'immagine dell'Indiano del Nord America quale ci viene trasmessa dai resoconti degli Inglesi, i quali per di più si trovarono a contatto con popolazioni nomadi e seminomadi che, non presentando neppure i segni esteriori di civiltà di Aztechi e Incas, si prestarono ad essere ancora più facilmente incasellate nell'ambigua categoria del "selvaggio" (silvaticus, abitante della selva, corrispondente all'inglese savage e ferus, feroce, corrispondente a wild), i cui diritti sul territorio potevano essere messi in discussione.

Più che teoriche, quindi, le differenze con cui Spagnoli e Inglesi portarono avanti il progetto di colonizzazione furono di tipo politico-organizzativo: l'una fu impresa di stato, fortemente accentratrice, imperialistica, l'altra fu affidata principalmente all'iniziativa privata. Mentre gli Spagnoli praticarono una politica di conquista e di annientamento degli Indiani come popolo o nazione, cui fecero però seguire l'assimilazione dei superstiti come persone individuali, gli Inglesi pensarono di potersi collocare, per così dire, 'accanto' ai nativi, ma eressero tra sé e loro una barriera che risultò poi insuperabile a tutti gli effetti e che, nella brama di sempre nuove terre, avanzò progressivamente fino ad estinguerne lo spazio vitale.

Attraverso l'analisi comparativa dei testi ufficiali che autorizzavano la conquista delle due nazioni - a partire dalle bolle papali e dalle "lettere patenti" - Patricia Seed, in un ben documentato saggio, dimostra come sia possibile sintetizzare gli scopi delle due autorità imperiali in una sorta di aforisma: gli Spagnoli intesero conquistare i popoli, gli Inglesi le terre. Gli Spagnoli sentirono pienamente legittimata la loro presenza nel Nuovo Mondo dimostrando di aver acquisito nuove anime alla Cristianità. Gli indigeni furono, quindi, obbligati molto presto ad assentire al contenuto di un documento (il celebre Requerimiento), letto ad alta voce da un funzionario regio, in cui veniva espressa, sostanzialmente, la "genealogia del potere" che da Gesù Cristo, attraverso S. Pietro e il Papa, arrivava fino al monarca di Castiglia e ai suoi rappresentanti. Reso pubblico atto di sottomissione, essi dovevano altresì promettere di non opporre resistenza alla predicazione dei missionari. Gli Inglesi, invece, pensavano che l'atto di "prendere possesso" di nuove terre, non ancora abitate da alcun Principe cristiano, consistesse innanzi tutto nello stabilirvi la propria dimora, costruendo residenze permanenti e fortificazioni; la religione funzionava come "sostegno all'autorità dello stato" e non come "mezzo per costringere gli Indiani a modi di pensiero europei". Così, mentre i coloni spagnoli vennero compensati con l'assegnazione di un certo numero di nativi come forza lavoro (sistema dell'encomienda), quelli inglesi furono incentivati con l'assegnazione di terre. Un effetto eclatante di tutto ciò, fa notare ancora Patricia Seed, fu che il colonialismo spagnolo contò gli abitanti e produsse il "censimento", quello inglese misurò le terre e produsse le "mappe". Non a caso le pestilenze che decimarono gli Indiani furono viste dagli Spagnoli come un flagello di Dio e dagli Inglesi, invece, come un segno della sua benevolenza, e non a caso la contestazione interna ad ognuna delle due politiche imperiali si indirizzò contro gli scopi precipui che l'una e l'altra si prefiggevano: mentre Las Casas, ad esempio, criticò i mezzi con cui veniva acquisito il diritto allo sfruttamento degli Indiani, Roger Williams attaccò il modo in cui i suoi connazionali si impossessavano della terra26.

Nell'arco di ottanta anni, dal 1580 al 1660, si compì l'opera di colonizzazione della Virginia, del New England e del Maryland, cioè del primo nucleo storico di quelli che saranno gli Stati Uniti d'America, e in ciascuna di queste regioni si può considerare che il ciclo migratorio che sottese la fondazione e lo sviluppo dei primi insediamenti durò circa trenta anni. Successivamente a questo arco di tempo le colonie continuarono a vivere e a svilupparsi principalmente con le forze dei nuovi nativi, cioè dei discendenti degli emigrati, i quali ricevettero ed assimilarono tutti coloro che volontariamente giunsero dopo. L'analisi della letteratura documentaria, in cui viene descritto il primo contatto con gli Indiani e lo svolgersi del primo e per tanti versi decisivo confronto con essi, permette di delineare un quadro sintetico i cui variegati elementi costitutivi appaiono strettamente connessi ed interdipendenti. In tale panorama si può innanzi tutto operare una specie di classificazione delle relazioni per zone geografiche e per tematiche ispiratrici dominanti, le une strettamente collegate alle altre. Sembra inoltre possibile scorgere un continuum di transizione degli interessi e dei punti di vista caratterizzanti le varie opere da una prospettiva prettamente europea/inglese ad una prospettiva che si potrebbe definire americana ante-litteram. Si possono infine individuare le ragioni del come e del perché l'immagine dell'Indiano sia stata strutturata dalle opere che l'hanno distorta e, insomma, inventata, piuttosto che da quelle che hanno cercato di delinearla realisticamente e con spirito, per così dire, di scoperta.

La letteratura documentaria sulla Virginia, colonia 'pioniera' nel Nuovo Mondo, è dominata dalle tematiche della propaganda della colonizzazione, sostanzialmente quindi interne alla società e alla politica dell'Inghilterra, e in essa si ritrova un riflesso del dibattito tutto europeo su vecchio e nuovo pensiero, vecchia e nuova cultura. L'Indiano è ancora in qualche misura partecipe del processo di conoscenza/invenzione del Nuovo Mondo: accanto a relazioni che presentano descrizioni stereotipate, per lo più benevole, ma generalmente inconsistenti e superficiali della popolazione indigena, si rinviene non a caso e del tutto precocemente (già nel 1588) l'opera più completa per la conoscenza della realtà dei nativi, quella di Thomas Harriot, esempio unico del nuovo metodo sperimentale, frutto di una nuova visione del mondo, inteso non più come un testo su cui leggere l'idea di Dio, ma come un insieme di dati da conoscere e da ordinare27. Considerando il tipo di approccio presente nei propaganda pamphlets del 1609, in cui vennero esposti i fondamenti di diritto e le ragioni di opportunità dell'espansione coloniale dell'Inghilterra, risulta evidente come l'avventura oltreoceano, che aveva portato parte dell'Europa a cominciare a sganciarsi dal peso della tradizione e dai vincoli della fede, fosse invece paradossalmente guidata da chi trovava le argomentazioni più convincenti all'interno della vecchia visione del mondo. In questi discorsi, infatti, veniva soprattutto e piuttosto retoricamente proposta l'analogia, che ebbe così grande successo, tra l'impresa della colonizzazione e l'insediamento del popolo d'Israele nella terra di Canaan, tra il destino degli "idolatri" e quello degli Indiani, dipinti opportunamente con immagini e metafore tratte dal mondo animale: docili e mansueti se si pensavano assetati di rigenerazione, infidi e feroci se resistevano ad essa28. Trascurando gli ingombranti approcci di tipo conoscitivo-scientifico, la propaganda faceva leva sul senso di missione della nazione e sulla mentalità di crociata.

Al rifiuto degli elementi di modernità di pensiero proposti da un Harriot, si accompagnò del resto anche il rigetto della proposta politica di stampo pragmatico di un John Smith, protagonista della colonizzazione di Jamestown, il quale ebbe il torto di suggerire con eccessiva franchezza un uso razionale della forza per vincere le resistenze ed ottenere la sottomissione dei "selvaggi". Eppure il ritratto della società indiana lasciatoci da Smith29, pur non appartenendo alla tradizione della benevolenza, nasceva dall'osservazione di dati reali e dal presupposto di una sostanziale parità umana che riconosceva all''altro' caratteristiche proprie e gli conferiva dignità di effettiva controparte, di fattore da non sottovalutare per il successo dell'impresa. Il rapporto sostanzialmente non realistico che gli Inglesi preferirono adottare verso gli Indiani, continuando ad ignorare la loro vera identità, li portò a subire un massacro nel 1622 a seguito del quale, però, si sentirono legittimati a dipingerli senza mezzi termini quali "ignobili selvaggi", giustificando in tal modo la vendetta e l'espropriazione dei loro territori30.

Le relazioni sul New England, viceversa, sono improntate dal dibattito ideologico di cui furono protagonisti i Puritani, i quali si erano allontanati dalla "corrotta" madrepatria europea per fondare la nuova società "santa e giusta". In esse si colgono già tematiche attinenti all'identità della futura nazione americana, ai valori etici della società progettuale che la caratterizzerà: il sogno della città sulla collina, la missione nel mondo, la lotta al male. La convinzione di essere chiamati da Dio a svolgere un compito particolare, se da un lato conteneva elementi propulsivi in grado di dar vita e alimentare con la sua stessa forza l'esperimento nella wilderness concepito come un nuovo inizio, un distacco da vecchi moduli comportamentali per far leva sul senso della responsabilità morale dell'individuo nei confronti della collettività, dall'altro implicava più che mai la visione di un mondo in cui male e bene erano drammaticamente contrapposti e l'uomo dipendeva interamente da Dio per la sua salvezza. Il senso di superiorità, o meglio di unicità, di cui si sentivano depositari i "Santi" del New England, rese ad essi ideologicamente impossibile qualunque apertura verso coloro che non facevano parte del gruppo. L'intolleranza di cui dettero prova nei confronti degli stessi connazionali che osarono dissentire dalle loro opinioni testimonia della tendenza alla chiusura che ne caratterizza l'orientamento ideologico e l'adesione ad una prospettiva che rifiuta il concetto di conoscenza come espansione nell'area della non-conoscenza, per concepirla invece come trionfo della verità sulla menzogna. Le conseguenze che un tale atteggiamento produsse sul piano della percezione puritana dell'Indiano sono facilmente deducibili. Se il mondo è un testo su cui leggere la volontà di Dio ed il suo intervento nella storia, l'attenzione non sarà rivolta tanto al contenuto, già determinato a priori, quanto all'espressione, per cui non saranno tanto importanti le cose (o gli Indiani) di per sé ma la loro interpretazione. Al genere della "descrizione" si sostituisce così in maniera preponderante quello della "storia"; più che osservazione degli usi e costumi indiani le opere dei Puritani sono infatti racconto dei rapporti avuti con i nativi, già contenente una riflessione sul loro significato. Proprio perché venne giudicato solo in funzione delle proprie finalità, l'Indiano, per i Puritani, quando è buono viene considerato uno strumento della Divina Provvidenza31, quando è cattivo (come in occasione di un conflitto) è il diavolo in persona, il maledetto da Dio che bisogna distruggere, anzi che Dio stesso distrugge32.

La storia scritta dal Popolo Eletto è così fortemente impregnata dall'ideologia provvidenzialistica che la sostiene che il fronte del New England appare a prima vista molto compatto nel piegare l'immagine dell'Indiano alla propria interpretazione. Tale compattezza viene tuttavia incrinata dagli scritti di coloro che si trovarono ad essere in qualche modo 'fuori' dell'ordine costituito: o concorrenti dei Puritani nel commercio delle pelli, come Thomas Morton33, o dissidenti religiosi, come il già citato Roger Williams, o semplici viaggiatori, come William Wood34. Le loro opere mostrano un modo diverso di accostarsi all'alterità che contribuisce sia a ristabilire la verità di certi fatti (è il caso soprattutto della polemica intrecciatasi tra Morton e i Puritani) sia a fornire organiche e precise fonti di informazione sul New England e sulle caratteristiche dei suoi abitanti originari. Questi autori, infatti, spinti da motivazioni diverse, ma comunque in contrasto con la visione soggettivizzante e totalizzante dei leaders puritani, nel descrivere usi e costumi dei nativi riescono a limitare valutazioni etnocentriche scegliendo di riferire piuttosto il punto di vista degli Indiani e invitando il lettore a trarre le sue conclusioni dal confronto tra i due stili di vita. Le loro voci dissonanti sembrano invitare a riflettere sul male insito piuttosto all'interno delle nuove comunità e in qualche misura, per antitesi, tendono a rendere giustizia all'identità reale dell'Indiano.

Per quanto riguarda la letteratura legata alla colonizzazione del Maryland, essa documenta una storia che potremmo definire "a passo accelerato". L'interesse rivolto alla popolazione indigena nella fase iniziale dello stanziamento viene infatti molto presto soppiantato da problematiche tutte interne alla colonia, che sembrano già attinenti alle idee portanti della futura società politica americana: la democrazia, la pluralità religiosa e razziale. Paradossalmente, proprio qui si sancisce già l'oblio dell'Indiano, l'esclusione (solo per lui!) dal nuovo paese programmaticamente aperto a tutti e di tutti o tramite il silenzio35, o tramite la sua collocazione, quale fantasma minaccioso e crudele, dignitoso e fiero, nell'ambito dell'immaginario per eccellenza, quello della finzione letteraria36.

La scarsità e la pacificità della popolazione nativa, infatti, non rappresentò mai un vero problema per il governo di Lord Baltimore, se si ricorda che, a soli due anni dal loro insediamento, gli Inglesi avevano già ottenuto il diritto di nominare il successore del capo indiano in caso di un suo decesso. Ragioni di accorta pragmaticità ispirarono, come si è visto, lo stesso principio della tolleranza religiosa sulla base del quale venne impostata la politica della colonia, tanto che il cattolicesimo del Lord Proprietario e delle altre famiglie di signori non condizionò affatto il progressivo e costante aumento della popolazione di fede protestante. Mentre nel New England lo scoppio delle ostilità tra Puritani e Pequots servì a metter fine ai dissensi e alle controversie sorte in materia di fede all'interno delle stesse comunità per concentrare gli sforzi contro il pericolo rappresentato dall''altro', nel Maryland si verificò l'inverso. La presenza di altre colonie inglesi ormai consolidate e l'assenza di una reale minaccia da parte indiana fecero sì che le lotte sorgessero all'interno dei Bianchi a causa di interessi obiettivamente divergenti tra componenti sociali e religiose in concorrenza per la conquista del potere. La stessa documentazione dei Gesuiti non trascura, ad esempio, di dare rilievo all'opera da essi svolta nei confronti dei bianchi miscredenti, oltre che degli Indiani, e il racconto che un Padre gesuita fa del sogno avuto dal tayac, in cui comparvero al capo indiano tre divinità a confronto - tre (anziché due, come sarebbe stato più plausibile): quella indiana, la più sbiadita; quella protestante, la più repellente; quella cattolica, senza dubbio la più bella - appare chiaramente un'invenzione mirata a colpire il credo che maggiormente si sentiva rivale37.

A soli venti/trenta anni dalla fondazione della colonia, l'attenzione dei relatori non è più rivolta alla popolazione indiana, ma ai nuovi nativi del posto, i bianchi della seconda generazione, che vengono caratterizzati con aggettivazioni simili a quelle attribuite prima agli Indiani, quasi a segnalare in anteprima un processo di trasposizione delle caratteristiche degli aborigeni ai coloni che sarebbe stato sempre più diffuso nei resoconti di propaganda per l'emigrazione. Come scrivono Bailyn e Wood, fu in genere nel corso del XVIII secolo che l'immagine ambigua con cui erano stati ritratti gli Indiani all'epoca dei primi contatti - immagine che "combinava semplicità e selvatichezza, vigore e barbarie, innocenza e paganesimo" - "cominciò ad essere riferita ai creoli - cioè ai nordamericani di discendenza europea - [...] nella convinzione che questi ultimi avessero deliberatamente copiato dai primi modi di fare e tecniche e che di conseguenza avessero anche acquisito certe particolari loro caratteristiche"38.

In conclusione, si può osservare come l'ideologia coloniale inglese fu nel suo complesso prevalentemente ispirata da immagini tratte dall'universo simbolico veterotestamentario piuttosto che dall'osservazione diretta della natura come i nuovi metodi di conoscenza proponevano. Nel corpus di opere esaminato, questa stessa linea di separazione tra vecchio e nuovo modo di rapportarsi al reale potrebbe essere ricondotta in un certo senso anche all'antitesi norma/trasgressione, se si intendesse raggruppare sotto la denominazione di 'trasgressivi' rispetto alla norma quegli autori, un'esigua minoranza, che cercarono di accostarsi al 'diverso' con maggiore obiettività ed un certo interesse conoscitivo. Harriot, Smith, Wood, Morton e Williams, tutti accomunati ad esempio e non a caso dal fatto che conoscessero la lingua degli Indiani, dettero prova con le loro opere di un atteggiamento mentale che li portò a considerare la nuova società incontrata anche come soggetto, internamente autonoma e dotata di una sua struttura. In realtà, però, per le esigenze di supporto alla colonizzazione in cui tutti furono in varia misura coinvolti, nessuno di essi poté sottrarsi del tutto al più consono meccanismo dell'invenzione. Lo stesso resoconto di Thomas Harriot, nella sua veste scientifica, si rivelava strumento di controllo quanto mai efficace della nuova realtà nel rassicurare il lettore, attraverso il racconto delle opinioni dei nativi, dell'indiscutibile superiorità della cultura e della tecnologia europee e nella valutazione, espressa dall'autore, che l'intelligenza stessa degli indigeni li avrebbe presto indotti "ad abbracciare la verità e di conseguenza ad onorare, obbedire, temere ed amare" gli Inglesi. John Smith, che non aveva mai messo in dubbio la necessità di sottomettere gli Indiani, aveva finito con l''inventare' una Pocahontas nel ruolo di salvatrice dell'eroe bianco quando la principessa indiana si era convertita all'anglicanesimo, aveva sposato un inglese di nome John Rolfe ed era stata persino ricevuta a Corte in qualità di principessa (1616), e quando i mutati rapporti di forza nella Virginia del 1624 (data della sua Generall History) non potevano far nascere dubbi sul significato del suo gesto quale riconoscimento e accettazione della superiorità dei valori dei Bianchi39. William Wood, che era ricorso sapientemente all'umorismo per far 'digerire' ai suoi lettori l'estraneità dei "selvaggi", aveva ritenuto inoltre opportuno dividere la sua opera in due parti, l'una dedicata agli Inglesi, l'altra agli "old native inhabitants", a rassicurare della netta separazione esistente comunque tra le due razze e quasi a suggerire con l'aggettivo "old" un prossimo soppiantamento degli indigeni. E gli Indiani di Thomas Morton, forse un po' troppo belli e felici nella loro totale assenza di religione, che l'autore aveva enfatizzato in contrapposizione alla cupa pesantezza del credo dei Puritani, rischiavano di tornare a far parte di un Eden più vagheggiato che reale e risultavano, a ben vedere, strumenti di una polemica più che soggetti di una storia. Anche Roger Williams, per ottenere il riconoscimento della sua colonia, aveva deciso in fondo di consegnare al Parlamento inglese la sua conoscenza della lingua indiana come "chiave" da utilizzare per quell'opera di evangelizzazione in cui egli personalmente non credeva, ma che ben sapeva costituire il caposaldo morale dell'ideologia coloniale.

Si può dire, insomma, che anche le voci apparentemente dissonanti provenienti da coloro che per i propri interessi particolari o per la loro visione del mondo fornirono fonti preziose di verità sul conto dei nativi americani, hanno sempre comunque riconosciuto motivazioni dialettiche interne al processo di colonizzazione, ed intenti promozionali non certo contestativi di esso. Come tali, non poterono quindi incidere sulle determinanti ideologiche attraverso le quali si strutturò l'immagine dell'Indiano. Nel processo di espansione dell'Inghilterra verso la nuova parte di mondo, Chiesa, Stato e Scienza, pur usando diverse metodologie di approccio con l''altro', si trovarono alleati nello scopo comune di esaltare la superiorità della religione, della civiltà e della tecnologia appartenenti all'uomo bianco. Anche se mano a mano si cominciò ad apprendere che esistevano differenze tra tribù e tribù, che ognuna aveva il suo linguaggio, il suo governo, le sue tradizioni e i suoi riti, che potevano essere osservati e descritti senza paura, "il significato dell'Indiano", come afferma Berkhofer, rimase sempre "al di là di tale conoscenza"40.

 

Note

1 M. Eliade, Mythes, rêves et mystères, Paris, Editions Gallimard, 1957; tr. it. Miti, sogni e misteri, Milano, Rusconi, 1986, p. 87.

2 Cfr. H. Levin, The Myth of the Golden Age in the Renaissance, London, Faber and Faber, 1969.

3 Cfr. F. Colombo, La vera storia di Cristoforo Colombo, Genova, I Dioscuri, 1989; rist. Trento, Fratelli Melita Editori, 1989, p. 41.

4 Cfr. B. Penrose, Travel and Discovery in the Renaissance, 1420-1620, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1960.

5 Cfr. E. O'Gorman, The Invention of America, Bloomington, Indiana University Press, 1961; in particolare si segue l'indagine condotta nella terza parte "The Process of the Invention of America", pp. 73-124.

6 Un'interessante panoramica degli studi fioriti negli ultimi anni intorno alla figura di Colombo in relazione al contesto storico del tempo è offerta da D. West, "Christopher Columbus and His Enterprise to the Indies: Scholarship of the Last Quarter Century", William and Mary Quarterly, 3rd ser., XLIX (1992), pp. 254-77. Una menzione particolare merita il libro di Umberto Bartocci, America: una rotta templare, Milano, Edizioni Della Lisca, 1995, in cui l'autore indaga acutamente e profondamente sulla nascita del pensiero scientifico moderno nella sua fase ancora sommersa rispetto alla cultura dominante del tempo.

7 Cfr. "Lettera di Cristoforo Colombo a Rafaele Saxis tesoriere del re", in C. Correnti (cur.), Cinque lettere autografe sulla scoperta dell'America, Milano, 1873; rist. Torino, Messaggerie Pontremolesi, 1990, p. 93.

8 Preziosa, a questo proposito, è anche la testimonianza di Michele da Cuneo, che, avendo partecipato al secondo viaggio di Colombo (settembre 1493), ne diede vivace relazione in una lettera indirizzata a un gentiluomo di Savona, Girolamo Annari, subito dopo il suo ritorno in Europa, nell'ottobre del 1495. Tale documento, poco conosciuto eppure notevole per la quantità e la qualità delle cose raccontate, è stato ripubblicato in P. Collo e P.Crovetto (curr.), Nuovo Mondo. Gli Italiani, Torino, Einaudi, 1991, pp. 101-19.

9 Nella "Lettera ai Reali di Spagna", datata "Hispaniola, settembre-ottobre 1498", si legge una lunga argomentazione di Colombo sull'esistenza del Paradiso Terrestre: "Per quel che riguarda il fiume se esso non proviene dal Paradiso Terrestre non può che avere origine da una terra sconfinata situata a sud e di cui fino a questo momento non si è avuta alcuna notizia. Ma io sono profondamente convinto di aver trovato il Paradiso Terrestre lì dove ho detto e baso questa mia affermazione sugli argomenti e sulle autorità menzionate sopra", in P. Cimò (cur.), Il Nuovo Mondo. La scoperta dell'America nel racconto dei grandi navigatori italiani del Cinquecento, Milano, Editoriale Giorgio Mondadori, 1991, pp. 116-33.

10 Cfr. E. O'Gorman, op. cit., p.105.

11 Cfr. P. Chaunu, Conquête et exploitation des nouveaux mondes, XVIe s., Paris, P.U.F., 1969; tr. it. La conquista e l'esplorazione dei nuovi mondi, XVI secolo, Milano, Mursia, 1977.

12 Cfr. E. O'Gorman, op. cit., p. 139.

13 Cfr. H. Honour, The New Golden Land. European Images of America from the Discoveries to the Present Time, New York, Pantheon Books, 1975; F. Barker, et al. (eds), Europe and its Others, vol. II, Colchester, University of Essex Press, 1985; F. Surdich, Verso il Nuovo Mondo. La dimensione e la coscienza delle scoperte, Firenze, Giunti, 1990.

14 Cfr. G. Trevelyan, History of England, London, Longmans, 1960; tr. it. Storia d'Inghilterra, Milano, Garzanti, 1962; S. Morison, The European Discovery of America, vol. I, New York, Oxford University Press, 1971; tr. it. Storia della scoperta dell'America, vol. I, Milano, Rizzoli, 1976; M. Sanfilippo, Europa e America. La colonizzazione anglo-francese, Firenze, Giunti, 1990.

15 Cfr. H.M. Jones, O Strange New World, New York, The Viking Press, 1964; N. Canny, "The Ideology of English Colonization: From Ireland to America", William and Mary Quarterly, 3rd ser., XXX (1973), pp. 575-98.

16 E. Hayes, "Vicende ed esito del viaggio intrapreso nell'anno del Signore 1583 da Sir Humphrey Gilbert...", in F. Marenco (cur.), Nuovo Mondo. Gli Inglesi, 1496-1640, Torino, Einaudi, 1990, pp. 92-93.

17 Cfr. F. Rossi, L'idea dell'America nella cultura inglese (1500-1625), vol. I, Bari, Adriatica Editrice, 1986, pp. 106-15.

18 Cfr. R. Hakluyt, The Principal Navigations, Voyages, Traffiques and Discoveries of the English Nation, London, 1598-1600, ed. J. Masefield, 8 vols, London, Everyman's Library, 1908 and 1962; F. Marenco (cur.), I viaggi di Hakluyt, 2 voll., Milano, Longanesi, 1966-1971.

19 Per l'inquadramento storico relativo alle colonie inglesi in America cfr. B. Bailyn and G.S. Wood, The Great Republic: A History of the American People, Lexington, D.C. Heath and Company, 1985, tr. it. Le origini degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 1987; R.D. Mitchell, "The Colonial Origins of Anglo-America" in R.D. Mitchell and P.A. Groves (eds), North America: The Historical Geography of a Changing Continent, Totowa, Rowman and Littlefield, 1987, pp. 93-127; R.C. Simmons, The American Colonies, New York, David McKay Company, 1976.

20 C. Bartocci, Gli Inglesi e l'Indiano: racconto di un'invenzione (1580-1660), Alessandria, Edizioni Dell'Orso, 1992, cui si rimanda per un'analisi più ampia e dettagliata delle fonti primarie citate a sostegno delle considerazioni qui espresse.

21 E. O'Gorman, op. cit., p. 141.

22 Tale è anche la tesi sostenuta ed ampiamente illustrata da J. Axtell in The European and the Indian, New York and Oxford, Oxford University Press, 1981.

23 W.E. Washburn, The Indian in America, New York and London, Harper and Row, 1975; tr. it. Gli indiani d'America, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 77.

24 Cfr. W.B. Jacobs, Dispossessing the American Indian, Norman, University of Oklahoma Press, 1985.

25 La prima menzione del nome Armenica, o America, in inglese, si trova in un testo pubblicato attorno al 1510 ad Antwerp dal titolo Of the newe landes and ye people found by the messengers of the kynge of portyngal; nel 1520 il nome America figurava di nuovo nel recitativo satirico di John Rastell A new interlude and a mery of the nature of the four elements, a testimonianza di quanto l'ambiente dei teatranti fu pronto ad appropriarsi del materiale linguistico e figurativo ispirato dal Nuovo Mondo. Entrambe le opere furono ristampate da Edward Arber nel 1885 in The First Three English Books on America. Per queste notizie cfr. H.C. Porter, The Inconstant Savage, cit., pp. 18 e 34-40.

26 Di fronte alla possibile obiezione che la diversità dei metodi praticati dalle due potenze europee fu determinata dalla sostanziale diversità numerica dei popoli incontrati, Patricia Seed fa notare come sia il sistema dell'encomienda, creato nel 1503, sia la dottrina del Requerimiento, che risale al 1512, ebbero origine "quando gli stanziamenti spagnoli erano ancora confinati a poche isole dei Caraibi non più densamente popolate delle aree in seguito rivendicate dagli Inglesi", e che l'interesse primario di questi ultimi per la terra appare chiaro fin dalla patente concessa da Elisabetta nel 1578, prima che qualsiasi spedizione potesse aver accertato che quelle zone non fossero popolate come il Messico e il Perù. Cfr. Patricia Seed, "Taking Possession and Reading Texts: Establishing the Authority of Overseas Empires", William and Mary Quarterly, 3rd ser., XLIX (1992), pp. 183-209.

27 T. Harriot, A Report of the New Found Land of Virginia, London, 1588; facsimile, Amsterdam and New York, Theatrum Orbis Terrarum Ltd., 1971.

28 Si vedano, ad esempio, R. Gray, A Good Speed to Virginia, London, 1609, facsimile, Amsterdam and New York, Theatrum Orbis Terrarum Ltd., 1970, e W. Crashaw, A New-yeeres Gift to Virginea, London, 1610.

29 J. Smith, A True Relation of such occurences and accidents of noate as hath hapned in Virginia, London, 1608; A Map of Virginia, Oxford, 1612, A Description of New England, London, 1616, per citare solo le più celebri, tutte contenute insieme alla Generall Historie in The Complete Works of Captain John Smith, ed. P.L. Barbour, 3 vols, Chapel Hill and London, University of North Carolina Press, 1986.

30 "Le nostre mani, che prima erano tenute legate dalla gentilezza e dalla correttezza, sono ora poste in libertà dalla violenza traditrice dei selvaggi...", scrive Edward Waterhouse subito dopo l'uccisione di 350 coloni. Gli Indiani, nelle sue parole, "sono per natura indolenti e pigri, viziosi, melancolici, sudici, di aspetto sgradevole, bugiardi, di scarsa memoria, di nessuna costanza e affidabilità...", A Declaration of the State of the Colony in Virginia, London, 1622, cit. anche in E. Dudley and M.E. Novack (eds), The Wild Man Within, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1972.

31 Così viene definito, ad esempio, l'Indiano Squanto dal governatore di Plymouth, William Bradford, nella sua History of Plymouth Plantation, 1606-1646, ed. W.T. Davis, New Jersey, Barnes and Noble, 1982. Squanto era stato catturato in una precedente spedizione dagli Inglesi al seguito di John Smith; a Londra, era stato servo di un mercante per due anni e si era poi rimbarcato per l'America. Conoscendo l'inglese, Squanto funse da intermediario tra gli Wampanoags e i Padri Pellegrini, insegnò a quest'ultimi dove pescare, come piantare il mais e si rivelò un'indispensabile guida. Eppure Bradford non spende parole per commemorare la sua morte se non appunto per esaltare l'opera della Divina Provvidenza che lo aveva messo sulla loro strada. E' noto che la tradizione del "Thanksgiving" risale alla festa di "Ringraziamento" che i Padri Pellegrini, circa un anno dopo il loro sbarco, rivolsero a Dio per essere stati salvati durante l'inverno precedente dagli Indiani che li avevano sfamati portando loro tacchino e mais.

32 Esemplare, a questo proposito, è il resoconto della guerra, che i Puritani condussero nel 1637 contro i Pequots, scritto dal Capitano John Mason circa vent'anni dopo lo sterminio della tribù affinché non andasse persa la memoria dell'evento: A Brief History of the Pequot War, in C. Orr (ed.), History of the Pequot War, Cleveland, 1897, reprint, New York, AMS Press, 1980, pp. 1-46. L'autore descrive con estrema crudezza l'incendio da lui appiccato all'intero accampamento dei Pequots, in cui persero la vita circa 400 Indiani, concludendo: "Così Dio fu visto sulla Montagna schiacciare i suoi fieri nemici e i nemici del suo popolo... ...bruciarli nel fuoco della sua collera, e concimare la terra con la loro carne: fu un'azione del Signore, ed è meravigliosa ai nostri occhi! E' lui che ha fatto la sua opera meravigliosa e perciò deve essere ricordata".

33 Thomas Morton era arrivato in America nel 1624 e si era stabilito presso la colonia del capitano Wollaston (l'odierna Quincy nel Massachussetts). Durante l'assenza dei capi, secondo quanto scrive Bradford nella History of Plymouth Plantation, Morton avrebbe indotto i servi a ribellarsi, promettendo loro una compartecipazione nei proventi della colonia, e sarebbe caduto nella licenziosità e nella dissolutezza più sfrenate invitando a danzare tutti, indiani e indiane comprese, intorno a un Albero di Maggio "come se avessero vivificato di nuovo e celebrato le feste della Dea dei Romani Flora, o le usanze bestiali dei folli Baccanali" (p. 238). Ben diversa la versione data da Morton nel suo New English Canaan, pubblicato ad Amsterdam nel 1637. Morton accusa i Puritani, che riuscirono ad espellerlo dal suolo americano, di aver finto zelo religioso quando in realtà agirono solo per il proprio interesse materiale, essendo egli un loro temibile concorrente nel commercio delle pelli di castoro. A suo dire, essi si dimostrarono privi della ben che minima carità cristiana dal momento che, dopo averlo condannato ingiustamente, lo abbandonarono in un'isola senza curarsi della sua sopravvivenza. Nell'attesa di trovare un passaggio per l'Inghilterra, Morton afferma di essersi potuto salvare solo grazie agli Indiani che lo accolsero con vero spirito di fratellanza, dimostrando maggiore umanità di "coloro che si proponevano di purificare il mondo" (New English Canaan of Thomas Morton, C.F. Adams (ed.), New York, Burt Franklin, 1967, p. 289).

34 W. Wood, New England's Prospect, London, 1635, A.T. Vaughan (ed.), Amherst, University of Massachussetts Press, 1977. L'opera, frutto dello spirito di osservazione di un semplice viaggiatore che rimase quattro anni nel posto, è a tutt'oggi considerata come la più attendibile e organica fonte di informazione sul New England del tempo e sui suoi abitanti originari.

35 Si veda, ad esempio, la relazione di John Hammond, Leah and Rachel, or the Two Fruitful Sisters of Virginia and Maryland, London, 1656, in C.C. Hall (ed.), Narratives of Early Maryland, 1633-1684, New York, Barnes and Noble, 1967, pp. 281-308, in cui l'autore tratteggia un quadro di vita operosa e di civile collaborazione tra gli abitanti delle colonie, descrivendoli come "affabili", "cortesi", "astuti", "svelti nell'apprendere", aggettivi che erano stati generalmente usati a proposito degli Indiani, ai quali invece non viene tributata alcuna attenzione.

36 Frutto di fervida immaginazione e volutamente esagerato è senza dubbio il ritratto dei Susquehannas tratteggiato da George Alsop in appendice a A Character of the Province of Maryland. L'autore, emigrato nel Maryland nel 1658 come semplice servo a contratto, dopo quattro anni di servitù e uno di malattia, fece ritorno in Inghilterra dove diede alle stampe la sua operetta, con la quale si proponeva essenzialmente di attrarre l'attenzione del lettore medio/basso per convincerlo della facilità con cui anche chi non aveva soldi poteva emigrare ponendosi al servizio di qualcuno finché non avesse riscattato il prezzo del biglietto.

37 I Provinciali inglesi inviavano dall'Inghilterra a Roma dei resoconti annuali dell'operato svolto dai missionari sotto forma di missive. Il sogno citato viene raccontato in "The Annual Letter of 1639", in C.C. Hall (ed.), op. cit., pp. 124-25.

38 B. Bailyn e G. Wood, tr. it. Le origini degli Stati Uniti, cit., p. 225.

39 Nella sua prima relazione inviata a Londra nel 1608, subito dopo i fatti, John Smith aveva raccontato che, essendo stato fatto prigioniero dagli Indiani e condotto dal loro capo Powatan, era stato poi da lui liberato perché con la sua abilità oratoria era riuscito a convincerlo di essere arrivato lì come amico e di voler essere suo alleato. Narrando lo stesso episodio nel III libro della Generall Historie (1624), Smith scrisse invece che a decidere della sua sorte fu la figlia di Powatan, Pocahontas, che, gettandosi su di lui quando tutto era pronto perché la sua testa, posta su due grandi pietre, venisse sfracellata dai bastoni degli Indiani, impedì che si portasse a termine l'esecuzione facendolo graziare dal padre. E' chiaro che Smith era ben consapevole della carica emozionale che un episodio del genere avrebbe suscitato. Una donna indiana, di sangue regale, che non ostacola, ma anzi favorisce la salvezza dei Bianchi, accettandone anche i valori, avrebbe costituito un espediente propagandistico dei più felici. Grazie a questa seconda versione dei fatti, Pocahontas, che all'epoca era comunque una bambina di undici anni, divenne nell'Ottocento un'eroina leggendaria, protagonista - spesso procace - di numerosi romanzi d'appendice e di commedie finchè nel nostro secolo, per bocca di poeti quali Lindsay, Crane e Mac Leish, è assurta addirittura a statura mitica, essendo stata cantata come "madre" di tutti gli Americani, simbolo vivente di quella terra destinata a dar vita a una nuova razza di uomini.

40 R. Berkhofer, The White Man's Indian, cit., p. 21.

 

* Questo saggio e' stato composto specialmente per Episteme, a partire da una fusione tra l'Introduzione e l'Epilogo del testo citato nella Nota N. 20.

** Dipartimento di Scienze Linguistiche e Filologico-Letterarie

dell'Area Anglo-Germanica

Università degli Studi di Perugia

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Clara Bartocci è nata a Perugia (1947), dove si è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne nel 1970. Attualmente è Professore Associato di Lingue e Letterature Angloamericane presso l'Università di Perugia. Ha scritto vari articoli sul rapporto tra Bianchi e Nativi nel primo periodo coloniale, e un libro dal titolo: Gli Inglesi e l'Indiano: racconto di un'invenzione (1580-1660) (Alessandria, Edizioni Dell'Orso, 1992). Si è occupata a fondo dello scrittore postmoderno John Barth, sul quale ha ultimato una monografia (in corso di stampa) e ha pubblicato saggi su Mark Twain, Henry James, Francis Scott Fitzgerald, Jean Toomer, William Faulkner e Paul Auster.

E-mail: cbartox@unipg.it