La topologia del tempo nell'Antichità

Confronto preliminare fra mondo greco e mondo ebraico

(Lino Conti)


 


La prima e sconvolgente intuizione dello scorrere del tempo ha sicuramente contribuito ad innescare l'evoluzione culturale (o esosomatica) dell'homo sapiens sapiens. Ma ancor più dell'esperienza dell'inarrestabile flusso temporale, evidenziato dalle incessanti trasformazioni delle cose, è stata l'invenzione ( o la scoperta) del futuro a scatenare l'evoluzione culturale. Senza dubbio, la comparsa della sistematica capacità di far riferimento ad un futuro inosservabile con l'occhio dei sensi costituì il più chiaro attestato dell'effettiva apparizione del pensiero nello scenario dell'evoluzione biologica. Fu, infatti, proprio la piena conquista della dimensione dell'avvenire a sancire quel miracoloso salto nella noosfera, che rese la mente capace di elevarsi sopra il flusso dei dati percettivi immediati, immaginandosi dei mondi possibili, dei domani, ancora non visti, che anticipavano le oscure distese temporali posteriori alla morte.

Mai nessun contraccolpo dell'invenzione sull'inventore fu più decisivo di quello inferto dalla comparsa dell'avvenire e dalla conseguente inquietante aspettativa del futuro. Alla conquista della dimensione del futuro sono legati la religiosità, evidente già nel culto dei morti, e l'atteggiamento tecnico-progettuale, operativo già nello scheggiare una pietra di selce alla luce di una progettazione che ne anticipava l'uso e ne pianificava la funzione strumentale nelle circostanze future. Dalla prima consapevole intuizione dell'avvenire l'uomo non ha mai cessato di sondare l'enigma del tempo e di interrogarsi sul destino futuro. Unico vivente a possedere l'angosciante consapevolezza della propria mortalità, ha intrapreso tutte le strade pur di arginare il senso di tragica precarietà generato dall'irruzione del futuro nel campo della sua esperienza immediata. Un incessante avvicendarsi e intrecciarsi di tecniche e forme divinatorie ( profezia, astrologia, oniromanzia, epatoscopia, libanomanzia, lecanomanzia, aleuromanzia… ) (1) hanno così segnato la sua ininterrotta interrogazione sul tempo, perennemente alimentata dal bisogno di svelarne il segreto ritmo e l'ancor più enigmatica struttura. I suoi modi di scandagliare gli abissi del futuro hanno finito così con l'incidere in maniera talmente profonda nella formazione delle sue strutture mentali che ancora oggi è possibile ricavare i tratti distintivi delle antiche civiltà dall'evoluzione storica dei modi di concepire e di esplorare l'avvenire.

Quando, a partire dalle ancestrali concezioni animistiche del mondo, si iniziò a spiegare i fenomeni visibili mediante il ricorso a forze ed entità invisibili, si fece strada anche l'idea di un sotterraneo legame genealogico tra passato e futuro. Emerse così la convinzione che l'avvenire fosse generato dal passato-presente e che quindi dalle situazioni passate e da quelle presenti dipendessero le caratteristiche strutturali del tempo e dell'avvenire. Questa convinzione, innescando una risalita a ritroso verso il momento iniziale, verso il remoto capostipite di ogni processo di generazione, si sedimentò nell'idea che l'intera trama del tempo fosse determinata dagli eventi iniziali e, più in generale, dalla natura del principio da cui erano scaturite tutte le cose e tutti i processi naturali.

Tale idea legò indissolubilmente la questione della struttura del tempo alla soluzione del problema dell'origine e del principio di tutte le cose. Non a caso l'inscindibile nesso della topologia del tempo con la questione dell'origine è chiaramente attestato tanto dalla concezione greca della temporalità quanto da quella ebraica. E' infatti proprio intorno alla cruciale tematica del principio originario di tutte le cose che la cultura greca e quella ebraica, fra il VI e V secolo a.C., determinarono due poderose rotture con le tradizionali narrazioni mitologiche delle origini, da cui sgorgarono due diverse topologie della temporalità, tuttora in permanente tensione tra loro, le quali, in definitiva, sottintendono due concezioni diverse della salvezza, nonché due differenti atteggiamenti epistemologici nei confronti della conoscibilità del mondo.
 

  • In questa breve nota, prendendo come termine di riferimento la cosmologia di Anassimandro, non tenterò di ricostruire, neanche per sommi capi, la complessa storia delle concezioni del tempo nell'Antichità; mi limiterò invece ad indicare, in via del tutto preliminare, come le due diverse topologie del tempo delineate dal mondo greco e da quello ebraico discendano dalla diversità d'impostazione e di soluzione del problema dell'origine e del principio di tutte le cose.
  • 1. L'eterno e l'origine
    1.  
      A livello generale, il problema dell'origine, dalla cui impostazione dipende la struttura del tempo, si colloca sempre sullo sfondo di quella che Leibniz riteneva la domanda metafisica fondamentale: <<Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Il nulla, infatti, è più semplice e più facile di qualcosa>> (2).

      Naturalmente, questa domanda, che contiene l'implicito assunto secondo cui il nulla non ha affatto bisogno di spiegazione, è dettata dal <<grande principio di ragion sufficiente>>. Essa, di per sé, non implica che la realtà, presa nella sua globalità, abbia necessariamente un'origine, ma richiede solo <<una ragion sufficiente a spiegare perché>> c'è qualcosa di reale piuttosto che il nulla e quindi perché questo qualcosa è così e non altrimenti. Questa ragione, ovviamente, dev'essere essa stessa reale, cioè dev'essere, come minimo, reale quanto il qualcosa che è chiamata a spiegare. D'altra parte, non è infatti illogico supporre che questa ragione sia interna alla realtà, presa in tutta la sua estensione, e che quindi la realtà stessa sia dotata di un'autonoma energia immanente capace di garantire la propria esistenza e la propria perenne autoconservazione ed autorealizzazione. Dopo tutto, non va dimenticato che risulta impossibile fondare l'esistenza di qualcosa di reale a partire da qualcosa di totalmente irreale. Questa impossibilità ha spesso indotto a guardare con sospetto e con razionale diffidenza tutte le narrazioni delle origini, tanto quelle dell'antica mitologia quanto quelle dell'attuale cosmologia. Recentemente, ad esempio, l'astrofisico Fred Hoyle ha di nuovo invitato a coltivare una sana diffidenza verso tutte le tematiche dell'origine. <<Ogniqualvolta viene pronunciata la parola origine - ammonisce Hoyle - evitate accuratamente di credere a quello che vi raccontano, anche se sono io a raccontarlo>> (3).

      In effetti, <<la parola origine>>, in tutta la gamma delle sue applicazioni a quei problematici "eventi iniziali" che sembrano confinare col nulla o con l'amorfo ( gli amorfi inizi del mondo, del tempo, della vita , del pensiero…), ha sempre sollevato accese controversie in campo filosofico e scientifico. Non a caso, verso la fine dell'Ottocento, il fisiologo Emil du Bois-Reymond (1818 - 1896) poneva tra gli enigmi inspiegabili dalla scienza proprio le questioni concernenti l'origine. In due celebri conferenze, tenute a Berlino nel 1872 e nel 1880, proclamava l'esistenza di sette enigmi del mondo destinati a sfuggire per sempre a tutti gli assalti della conoscenza scientifica. Tutti i problemi concernenti le normali interazioni fra i sistemi fisici - affermava du Bois-Reymond - sono sicuramente risolvibili in base al modello di spiegazione scientifica incarnato dalla meccanica celeste di Laplace. Pertanto, di fronte a questioni ancora irrisolte concernenti l'evoluzione dei sistemi materiali si dovrà pronunciare soltanto un provvisorio "ignoramus": non siamo ancora riusciti a risolverle, ma le risolveremo sicuramente col progredire della conoscenza. Ci sono, però, sottolineava du Bois-Reymond, sette problemi ineludibili, sette enigmi del mondo, che la scienza non potrà mai risolvere e di fronte ai quali allo scienziato non resterà altro che pronunciare l'inappellabile e definitivo verdetto "ignorabimus": ignoriamo e ignoreremo per sempre. Le questioni concernenti l'origine costituiscono la maggior parte di questi sette enigmi inspiegabili dalla scienza. L'origine del moto, l'origine della vita, l'origine della sensibilità e dei processi di coscienza, l'origine del pensiero e del linguaggio, secondo du Bois-Reymond, sollevano interrogativi fondamentali a cui la scienza non sarà mai in grado di dare una risposta soddisfacente (4).

      Ernst Haeckel (1834 - 1919), zoologo dell'università di Jena, noto per la legge biogenetica fondamentale secondo cui l'ontogenesi ricapitola la filogenesi, si contrappose alle conclusioni scetticheggianti di Emil du Bois-Reymond , negando l'esistenza di problemi insolubili per la scienza. Nell'opera Gli enigmi del mondo (1899) Haeckel sostenne spavaldamente che per la scienza non esistono misteri, perché energia, materia, vita e coscienza non hanno un'origine, giacché sono proprietà dell'unica sostanza eterna, la cui eternità è chiaramente attestata << dalla legge chimica di conservazione della materia e dalla legge fisica della conservazione dell'energia>>. L'eternità della materia-energia, secondo Haeckel, eliminerebbe tutti gli enigmi del mondo, dal momento che il finalismo sarebbe riconducibile all'ordinamento meccanico della natura, la libertà della volontà risulterebbe un'illusione e la formazione della vita e del linguaggio si spiegherebbe con l'evoluzione (5).

      Non è qui il caso di entrare nel merito di questa disputa che vivacizzò il clima positivistico degli inizi del Novecento. Quello che invece va sottolineato è che la contrapposizione fra du Bois-Reymond ed Haeckel esemplifica in maniera paradigmatica la persistente antitesi tra l'idea di un'origine (del mondo e del tempo) che porrebbe la scienza di fronte a problemi insolubili e l'idea di un'eternità senza inizio (della materia-energia) che invece spazzerebbe via dall'orizzonte scientifico tutti gli enigmi insolubili.
       

    2. Per quale motivo, almeno in linea di principio, l'eternità della materia e del tempo sarebbe così favorevole all'illimitata estensione della spiegazione scientifica, mentre la loro eventuale origine porrebbe insormontabili difficoltà o limiti invalicabili alla razionalità scientifica? Per accostarci al cuore di questo problema è opportuno vedere, ancor prima di prendere in considerazione la possibilità o meno di risolvere razionalmente la secolare antitesi tra finitezza e infinità del tempo, qual è stata la condizione fondamentale che ha reso possibile la nascita della scienza, della razionalità scientifica. Quale delle due opposte tesi, sostenute rispettivamente da du Bois-Reymond e da Haeckel, era più vicina allo spirito che ha generato nel VI secolo a.C. la mentalità scientifica?
    3. 2. La scienza nasce dal grembo di un'eternità senza inizio
    <<Tra tutti i miracoli dell'universo mitico - ha scritto Harrison - il più notevole, più anomalo e più gravido di conseguenze fu il sorgere della scienza>> (6). E se si tiene presente che in molte culture antiche si assiste ad una sconcertante serie di mancati concepimenti della scienza, non si può non provare stupore di fronte a questo "miracolo greco", che ha creato e sviluppato la mentalità scientifica. Perché la scienza è nata proprio in Grecia e non altrove? Quali sono state le condizioni che hanno reso possibile la sua nascita?

    Soffermarsi, sia pure schematicamente, su questi interrogativi è indispensabile per comprendere la topologia del tempo, perché ciò che determinò la nascita della mentalità scientifica fu proprio una particolare connotazione temporale del principio primo, posto all'origine e alla base di tutte le cose di tutte le trasformazioni fisiche.

    Com'è noto, la nostra scienza, cioè il nostro modello di spiegazione causale dei fenomeni naturali, nacque da una nuova e rivoluzionaria impostazione del problema dell'origine di tutte le cose. La problematica dell'origine delle cose era stata ripetutamente affrontata già molto tempo prima di Talete. Essa veniva abitualmente risolta dal pensiero mitologico enunciando che a un certo momento, all'improvviso, emergeva una divinità ordinatrice o un qualcosa di ordinato. Esiodo, l'espressione matura del pensiero mitologico, senza preoccuparsi affatto di specificare da che cosa proveniva la divinità primigenia, affermava semplicemente che all'inizio nacque Chaos, poi la Terra ed Eros e così via (7). Più in generale, le soluzioni mitologiche del problema delle origini consistevano in narrazioni di teogonie-cosmogonie che prendevano l'avvio dall'improvvisa irruzione sullo scenario del mondo di una divinità primigenia, dalla cui sovranità assoluta discendeva la garanzia della regolare successione di giorni e stagioni. Nei miti cosmogonici narrati da tali teogonie non c'è né una nascita assoluta del mondo, né l'idea di una creazione ex nihilo. Nella visione mitologica, infatti, il processo cosmogonico viene inteso esclusivamente come un passaggio all'ordine, come una diakosmèsis.

    Nonostante questa sua totale estraneità all'idea di creazione ex nihilo, il pensiero mitologico non si curava affatto di portare il discorso sulla fonte di provenienza della divinità primigenia e del materiale informe. In particolare, non si preoccupava di indicare l'età o le caratteristiche temporali della fonte primigenia e del sostrato caotico che ex abrupto veniva messo in ordine. In questo modo, restando temporalmente indeterminati tanto la fonte di provenienza quanto l'amorfo elemento caotico primigenio, il pensiero mitologico lasciava sempre aperta la possibilità - osservava acutamente Kurt von Fritz - <<di inserire prima di ciò che è stato posto come inizio ancora un qualcosa, fosse pure un nulla o uno stato ibrido tra l'essere e il nulla>> (8). Non a caso, nelle civiltà mitologiche inserimenti di questo genere rientravano nella normalità. Di solito le popolazioni vincitrici o predominanti ridisegnavano l'ordine genealogico delle teogonie delle nazioni sconfitte, inserendo i propri dèi prima di quelli delle popolazioni vinte. L'assoluta indeterminatezza temporale dell'amorfa condizione iniziale da cui partivano le narrazioni mitologiche permetteva, insomma, un regresso all'infinito, perché rendeva possibile una sequenza infinita di regressioni (9) a qualcosa di ancor più originario rispetto a ciò che era stato posto come primo o come capostipite delle teogonie. Proprio questa possibilità di regressione all'infinito verso qualcosa di ancor più anteriore di ciò che veniva di volta in volta assunto come anello iniziale venne definitivamente bloccata dall'assioma (stabilito da Talete, Anassimandro e Anassimene) dell'eternità del principio originario da cui scaturivano tutte le cose. La prima fondamentale conseguenza dell'eternità del principio fu, infatti, proprio quella di impedire di ipotizzare che il principio primordiale fosse stato preceduto da qualcos'altro: non poteva esserci nulla, nemmeno il nulla, di anteriore ad un principio di tutto che è sempre esistito ed esiste per sempre.

    Poiché è insensato chiedersi da che cosa sia stato preceduto ciò che esiste da sempre e per sempre, l'eternità del principio determinava il blocco definitivo di qualsiasi possibilità di regresso all'infinito nell'inserimento mitologico di altri stadi considerati via via come ancor più originari. Non a caso tale eternità decretava la fine delle improvvise e inspiegabili generazioni spontanee narrate dai miti. Lo stesso Ferecide di Siro, mitografo vissuto intorno alla seconda metà del VI secolo a.C., avvertiva la necessità di abbandonare la categoria della generazione spontanea, tipica della mitologie e presente ancora nella cosmoteogonia di Esiodo. Iniziava, infatti, la sua storia mitica del mondo sottolineando l'eternità delle divinità primigenie: <<Sempre erano Zas, Crono e Ctonia>> (10). Da questo abbandono del mito della generazione spontanea e improvvisa emergeva l'assioma, anch'esso implicato dall'idea di eternità del principio, secondo cui nulla nasce dal nulla (ex nihilo nihil fit).
     

  • In breve, bloccando il regresso all'infinito, l'assioma dell'eternità del principio originario produceva una cascata logica di conseguenze che portava alla scoperta della causalità naturale e quindi al modello scientifico di indagine causale della natura. I passaggi e le strutture logico-razionali coinvolti in questa scoperta decisiva per la genesi della mentalità scientifica occidentale possono essere sinteticamente raccolti in due momenti fondamentali. Nel primo si arriva all'idea che ogni evento fisico consegue da antecedenti naturali; nel secondo si giunge alla nozione di nesso causale come connessione uniforme tra antecedente causale ed effetto conseguente basata sull'assioma dell'uniformità del corso della natura. Entrambi i momenti si fondano sempre sull'assunto dell'eternità del principio originario.
  • a) Ogni evento consegue da un antecedente

  • Il primo momento, quello della genesi dell'idea di derivazione di ogni evento da un antecedente causale naturale, è interamente basato sull'eternità del principio. Affermare che l'ingenerata sostanza primordiale da cui scaturiscono tutte le cose esiste da sempre e per sempre equivale a privare il nulla di qualsiasi potenza e di qualsiasi capacità generativa e operativa. Dire infatti che tutto deriva da un ente primordiale eterno significa decretare l'impossibilità di porre il nulla all'inizio dei processi di generazione degli enti: non è possibile nessuna derivazione dal nulla; nessuna cosa può nascere dal nulla e in nulla si può ammettere l'azione o l'iniziativa del nulla.

    Se dunque non si può partire dal nulla, né attribuirgli l'avvio dei processi, allora deve sempre preesistere qualcosa da cui procedono gli eventi. L'eternità del principio di tutte le cose costringe, infatti, ogni evento ad avere un antecedente. Di conseguenza, tutto ciò che accade deve derivare necessariamente da un antecedente preesistente, le cui radici ultime, in definitiva, affondano nell'eterno principio primordiale. Gli eventi, pertanto, non si limitano semplicemente ad accadere, come nelle improvvise e inspiegabili generazioni spontanee narrate dai miti, ma accadono solo e soltanto al darsi di opportune condizioni. Insomma, tutto ciò che accade, tutto ciò che nasce e perisce o che ha un inizio e una fine segue sempre da peculiari situazioni antecedenti; è l'effetto o la conseguenza di specifiche condizioni iniziali e nulla può quindi accadere senza una causa ( un motivo o una ragione) che determini perché accade così e non altrimenti.

    Ecco come dall'assioma dell'eternità del principio è nata l'idea di una concatenazione causale degli eventi. Da questo momento in poi tutto ciò che avviene in natura è prodotto da catene causali naturali e non da misteriose forze sovrannaturali. In questo modo, scaturito dal grembo di un'eternità senza inizio, il fitto reticolo tessuto dalla concatenazione causale estese il suo dominio su ogni processo, avviando così alla scoperta della natura, cioè alla consapevole distinzione fra naturale e sovrannaturale e quindi alla sistematica sostituzione dell'intervento sovrannaturale con la causalità naturale. Da questo momento in poi al capriccioso intervento degli dèi non venne assegnato più alcun ruolo esplicativo nel campo dei processi naturali: nella spiegazione dei fenomeni fisici non si doveva far più ricorso ad agenti e fattori sovrannaturali.

    L'estromissione dell'<<azione del dio>> dal corso della natura venne posta dal Male sacro, la celebre opera ippocratica sull'epilessia, a fondamento ontologico e metodologico della nuova logica della ricerca scientifica. Gli dei - afferma perentoriamente Ippocrate, il padre della medicina scientifica - non sono responsabili dell'insorgere dell'epilessia, perché <<se il mangiare o il somministrare queste cose genera il male [l'epilessia] o lo accresce, e il non mangiarle lo cura, allora il dio non è più la causa (aitios), né gli atti di purificazione sono la cura, ma sono i cibi che giovano o nuocciono, e svanisce così l'azione del dio>> (11).

    b) Il nesso causale come connessione uniforme

    La grandiosa scoperta greca della natura, che istituì le condizioni di possibilità della scienza e dell'intelligibilità causale del cosmo, consistette proprio in questa rivoluzionaria affermazione della naturalezza di tutti i fenomeni fisici: tutti i processi naturali (morte e malattie comprese) sono prodotti da sottostanti fattori naturali.

    Per quanto questa concezione greca della naturalezza dei fenomeni sembri a noi la più naturale, non va mai dimenticato che non c'è nulla di più culturale dell'idea di natura e non va mai sottovalutato il fatto che i Greci - come ha osservato Lloyd - non scoprirono la natura allo stesso <<modo in cui Colombo si imbatté nell'America>> (12), ma l'avvistarono solo alla luce dell'eternità del principio originario. E fu sempre e solo sotto questa luce che arrivarono a stabilire e a giustificare (dialetticamente o controfattualisticamente) il principio dell'uniformità del corso della natura, nonché lo stretto isomorfismo tra nesso causale e nesso di implicazione logica o, più concisamente, tra cosmos e logos.

    L'eternità del principio non portava semplicemente ad affermare che ogni accadimento discende da un antecedente naturale, ogni effetto da una causa, ma induceva a pensare che, a parità di condizioni al contorno e concomitanti, le stesse circostanze causali antecedenti si comportassero sempre allo stesso modo in ogni dove e in ogni tempo. In effetti, un conto è dire che ogni evento consegue da un antecedente o che ogni fenomeno dipende da una causa e un altro conto è affermare che dagli stessi antecedenti causali seguono sempre gli stessi effetti conseguenti. Per passare dalla prima alla seconda affermazione bisogna necessariamente fare appello al principio dell'uniformità della natura; bisogna, cioè, intuire o postulare che gli agenti naturali si comportino sempre e ovunque allo stesso modo e che quindi il corso della natura sia uniforme, cioè strutturalmente regolato da processi di causazione così impersonali, immutabili e costanti da rendere in qualche modo deducibile, dal passato, il futuro andamento del mondo, almeno su vasta scala.

    L'idea di uniformità del corso della natura vuol dire, ad esempio, che a parità di condizioni concomitanti, la fiamma sprigionata dalla legna ardente, analogamente a quanto fece in passato, eserciterà anche in futuro (anche nei casi ancora inosservati) sempre la stessa azione causale di riscaldamento dei corpi circostanti, così come le stesse cause che in passato hanno determinato la morte degli uomini (a meno che non vengano disattivate o rimosse) continueranno anche in futuro a rendere gli uomini mortali. In termini più generali, tale uniformità vuol dire che, a parità di altre condizioni al contorno, le stesse circostanze causali antecedenti agiranno sempre allo stesso modo in ogni dove e in ogni tempo e che quindi antecedenti causali simili daranno sempre origine a effetti conseguenti simili.

    Come ha ripetutamente sottolineato la storiografia filosofica, la nuova impostazione causale inaugurata dai filosofi ionici scaturì da un rivoluzionario processo di razionalizzazione delle precedenti concezioni mitiche del mondo (13). E' d'altra parte ben noto che in origine lo stesso concetto greco di causa era strettamente legato a quello di responsabilità (divina o umana) e di colpa, e solo in seguito venne semplicemente << trasferito dall'imputazione giuridica alla causalità fisica>> (14). Ma quello che è stato meno evidenziato dalla storiografia è che i Greci, senza una qualche implicita postulazione dell'uniformità del corso della natura, non avrebbero mai potuto passare dalla nozione di causa, intesa come derivazione di ogni evento da un antecedente causale, ad una nozione di causazione naturale intesa come impersonale e immutabile fattore operativo che, a parità di altre condizioni, agisce sempre allo stesso modo senza fare mai preferenze o scelte. Ed è solo grazie a questa postulazione che i greci riuscirono a compiere questo rivoluzionario passaggio, che permise di conferire al nesso causale quella costitutiva dimensione dell'universalità, che estromise definitivamente dalla natura il "capriccio mitico" (15), cioè l'arbitrario intervento di dèi che agiscono nel mondo fisico quando vogliono, come vogliono e producono ogni volta quel che vogliono.

    Uniformità della natura vuol dire connessione uniforme tra causa ed effetto, e a sua volta questa connessione uniforme vuol dire universalità del nesso causale . L'universalità immanente alla relazione causale consiste, infatti, nel costitutivo carattere di connessione uniforme (cioè costante o invariante) tra l'antecedente causale e l'effetto conseguente, cioè nella definizione essenziale di nesso causale in termini di connessione uniforme tra antecedente causale ed effetto conseguente. Senza l'inquadramento della primitiva nozione di causa (ogni evento consegue da un antecedente) entro la cornice del principio dell'uniformità della natura, la causalità naturale non avrebbe mai potuto pervenire a quella dimensione d'universalità, che conferisce ad ogni autentico nesso causale la capacità esplicativo-predittiva di valere anche per casi analoghi non ancora osservati. Questa inscindibile saldatura fra causalità e uniformità della natura porta a concludere che solo in presenza di una connessione uniforme tra due particolari circostanze ha senso parlare di nesso causale e ha quindi senso asserire che la circostanza A è causa della circostanza B. In questo modo la connessione uniforme tra la circostanza A e la circostanza B diventa la conditio sine qua non, cioè la condizione necessaria (ma non sufficiente) senza della quale non si può introdurre un legame causale tra A e B. Tutto ciò vuol dire che A può essere legittimamente definita causa di B se e solo se, a parità di altre condizioni, per qualunque occorrenza di A si avrà sempre ( o con qualche determinata probabilità) l'occorrenza di B.

    Come emerge da questa definizione, in ogni autentica asserzione causale è costitutivamente presente un elemento di universalità: ogni spiegazione causale è tale solo se si colloca al livello dell'universalità. Infatti, non ha senso dire che la situazione A è causa della situazione B se non si ammette che per tutti i casi (x) in cui si ha l'occorrenza della situazione A ( cioè Ax) si ha invariabilmente ( cioè sempre, ovunque, necessariamente o con una determinata probabilità) l'occorrenza della situazione B (cioè Bx). Ogni espressione causale del tipo "A è causa di B" sottintende, infatti, un asserto strettamente universale (di tipo legiforme), che ha la forma logica del condizionale generalizzato (x) (Ax Bx). Insomma, l'asserto universale "per tutti i casi (x), se si ha l'occorrenza della situazione A, allora si ha invariabilmente l'occorrenza della situazione B" costituisce la condizione senza della quale non ha senso dire che "A è causa di B".

    Come è stato ampiamente sottolineato, la dimensione dell'universalità insita in ogni nesso causale è ben evidente già nella spiegazione dei terremoti avanzata da Talete. Ponendo come causa naturale dei terremoti i violenti ondeggiamenti delle masse d'acqua dell'Oceano primordiale su cui galleggia la Terra, Talete non spiegò soltanto, come faceva il pensiero mitico, questo o quel singolo terremoto, bensì universalmente tutti i terremoti in generale: per la prima volta un'unica causa fondamentale rese conto di tutti i possibili terremoti.

    L'universalità, data dalla costanza del nesso causale, permise, altresì, di instaurare il fondamentale isomorfismo tra cosmos e logos, nel senso che consentì di esprimere la relazione causale in termini di implicazione logica. Gli effetti - così il razionalismo greco codificava l'isomorfismo tra cosmos e logos - seguono sempre (costantemente) dalle loro cause, così come le conclusioni seguono sempre (necessariamente) dalle premesse che le implicano. Anche se la traduzione linguistico-simbolica del nesso di derivazione causale (processo di causazione) in termini di implicazione (derivazione) logica spinse talvolta l'assimilazione del nesso causale (necessità causale) al nesso di implicazione logica (necessità logica) ad una identificazione tale da generare la cosiddetta fallacia naturalistica (16), non va mai dimenticato che è pur sempre il postulato dell'uniformità della natura il vero pilastro su cui si fonda la possibilità di esprimere il nesso causale in termini di inferenza logica.

    Se dunque il principio dell'uniformità della natura occupa un posto così rilevante nella fondazione del valore universale del nesso causale e nella legittimazione dell'isomorfismo cosmos-logos, risulta di estremo interesse tentare di comprendere lo schema logico delle argomentazioni che spinsero i primi filosofi greci ad avanzare e a difendere questo principio, la cui validità oltrepassa la portata dei sensi e dell'esperienza di ogni uomo.

    c) La difesa dialettico-controfattuale del principio dell'uniformità della natura e il plesso "causalità-conservazione-ciclicità"

    Ovviamente il principio dell'uniformità della natura non è una tautologia , né un assioma autoesplicativo , né una verità talmente evidente da essere conoscibile a priori. Esso, una volta acquisito, trova sicuramente conforto nell'esperienza quotidiana di reiterate e costanti correlazioni analoghe a quelle rilevabili, ad esempio, fra le nubi e la pioggia ( senza nubi non si dà pioggia). Ma non va mai dimenticato che, almeno dal punto di vista storico, la ripetuta osservazione di queste costanti correlazioni non è risultata sufficiente, prima dell'avvento della filosofia ionica, a imporre il principio dell'uniformità della natura. Quest'ultimo - come cercherò di evidenziare - trova nell'eternità dell'arché il vero terreno genetico e il fulcro della sua legittimazione razionale. Ovviamente si tratterà di una legittimazione che non approderà mai ad una diretta dimostrazione apodittica dell'assoluta necessità che il corso della natura debba essere sempre uniforme, o dell'assoluta necessità che, analogamente a quanto avvenuto nel passato, il corso futuro delle cose non cambi mai le proprie basilari regole di sviluppo, ma si svolga sempre secondo le stesse leggi ( le stesse strutture causali) che hanno governato l'andamento del mondo nel passato. Dei principi primi, infatti, non si può dare strutturalmente una dimostrazione, perché altrimenti si andrebbe incontro ad un regresso all'infinito nella dimostrazione. Del principio dell'uniformità della natura, al pari di tutti gli altri principi primi, si può dare solo una legittimazione razionale consistente in una difesa della sua validità mediante prove indirette basate su argomentazioni dialettiche. La caratteristica fondamentale di queste argomentazioni è quella di far leva su condizionali controfattuali, costruiti sullo sfondo di un passato di durata illimitata (di un passato privo di un inizio assoluto) e aventi ricadute empiricamente controllabili.

    Cerchiamo di ricostruire la struttura di questa difesa dialettica, che in generale ha il suo centro focale nel seguente schema controfattuale: << se l'uniformità del corso della natura potesse essere realmente violata, allora, poiché l'universo è sempre esistito e ha quindi alle spalle una storia di durata illimitata, violazioni del genere dovrebbero essere avvenute già da lungo tempo e almeno alcune conseguenze di queste violazioni dovrebbero essere osservabili ancora oggi>>. Per non ingenerare equivoci, questo schema richiede una precisazione preliminare: non si possono scambiare per violazioni dell'uniformità della natura eventuali cambiamenti olistici dell'intero assetto di leggi naturali, perché nessuno potrebbe mai rendersi conto di tali istantanei cambiamenti globali dell'intero sistema di leggi naturali, così come nessuna misurazione spaziale, ad esempio, potrebbe mai rilevare un improvviso e identico aumento di tutte le grandezze spaziali, per la semplice ragione che anche i regoli di misurazione avrebbero subito gli stessi incrementi di grandezza (17). Per di più, se vi fossero repentini cambiamenti olistici di tutto il complesso delle leggi naturali, si avrebbe tutt'al più una sequenza di sistemi di uniformità della natura, una serie di "nature", ma non ancora una violazione del principio di uniformità della natura. Ciascun elemento di questa serie di sistemi di uniformità della natura potrebbe, infatti, risultare al proprio interno inviolato e inviolabile. Di conseguenza, le uniche eventuali violazioni del principio di uniformità della natura che ha senso prendere in considerazione sono quelle di tipo locale o non olistico; le uniche di cui ci si potrebbe rendere conto in qualche modo. Le argomentazioni dialettiche a difesa del principio dell'uniformità della natura prendono in considerazione i condizionali controfattuali che descrivono tali ipotetiche violazioni non olistiche.

    E' stato fin dall'antichità ribadito che non è logicamente sufficiente constatare la mortalità (senza eccezioni) degli uomini che ci stanno intorno per concludere universalmente che in ogni tempo e in ogni luogo, in ossequio al principio dell'uniformità della natura, tutti gli uomini continueranno regolarmente ad essere mortali. Ma questa insufficienza logica non implica che gli uomini nel corso futuro della loro storia naturale debbano diventare immortali. Al contrario: se si assume che il genere umano, al pari del mondo, sia esistito da sempre, allora la sua permanente mortalità acquista un altissimo grado di probabilità. Se infatti fosse realmente concreta la possibilità di generare in questo mondo un uomo immortale, allora, poiché la storia umana ha già percorso l'immensa estensione di una passato senza inizio, tale possibilità avrebbe dovuto essersi verificata già da lungo tempo e ora noi dovremmo parlare almeno con qualcuno di questi fortunati immortali. Ma poiché nessuno finora ha mai visto e parlato con fortunati del genere, la possibilità che nasca in questo mondo un uomo immortale risulta, purtroppo, altamente improbabile. Non c'è infatti nessuna ragione per cui la natura debba attendere un'eternità prima di generare un uomo immortale. Se la natura non l'ha generato nell'infinità del tempo passato, ciò vuol dire che essa non può generarlo affatto. Pertanto, noi diciamo che tutti gli uomini sono mortali, non solo perché finora non è stato visto un solo uomo immortale, ma perché in un universo senza inizio, se la possibilità di un uomo immortale fosse in natura realmente oggettiva, avremmo dovuto vederlo mentre ancora non l'abbiamo visto e non lo vediamo. Analogamente, assumendo l'infelice esempio tradizionale dei corvi neri come espressione di un nesso causale, noi diciamo che tutti i corvi sono neri, non solo perché non ne abbiamo mai visto uno bianco, ma perché, in un universo esistente da sempre, se l'eventualità "corvo-bianco" fosse stata una possibilità veramente oggettiva, avremmo dovuto vederlo, e invece ancora non l'abbiamo mai visto.

    A supporto e difesa dell'uniformità della natura si possono addurre innumerevoli argomentazioni analoghe, basate sul principio che se qualche stato di cose è risultato molto improbabile nell'arco di un'eternità o di un lunghissimo tempo t, sarà ancor meno probabile entro un intervallo di tempo inferiore a t. Per esempio, visto che nell'arco dei passati millenni il piombo non si è spontaneamente tramutato in oro, è ancor più improbabile che tale mutazione avvenga nei prossimi cento anni. Proiettato sullo sfondo di una processualità naturale che dura da sempre e per sempre, l'improbabilità di questa mutazione si approssima al valore di un'impossibilità fisica. Se la tendenza del piombo a trasformarsi in oro fosse, infatti, un'oggettiva tendenza naturale, allora, vista l'immensità del tempo trascorso, ora, contrariamente a quanto osserviamo, dovrebbe esserci soltanto oro e non più piombo.

    Come si vede, si tratta di argomentazioni dialettiche imbastite su condizionali controfattuali, che anziché dimostrare l'assoluta necessità dell'uniformità della natura, attestano l'alta improbabilità di sue sistematiche violazioni. In sintesi, il tenore di tutte queste attestazioni è il seguente: poiché la natura è sempre esistita, se fossero state realmente possibili ipotetiche violazioni locali dell'uniformità del corso della natura, allora tali violazioni dovrebbero essersi già verificate da tempo e almeno alcuni effetti di tali violazioni dovrebbero essere osservabili, ma poiché finora nessuno ha mai visto tali effetti, bisogna concludere che secondo natura ( katà physin) tali violazioni risultano talmente improbabili da rasentare l'impossibilità fisica. Di conseguenza, l'uniformità del corso della natura appare un principio così ben consolidato dall'illimitato passato di una storia naturale senza inizio, che si può estendere legittimamente la sua validità anche al corso futuro della natura.

    E' vero che questa estensione non è garantita né imposta da nessuna necessità puramente logica. Come osserverà Hume (18), il fatto che il corso della natura sia stato finora sempre regolare, da solo non rappresenta una condizione sufficiente per provare la conclusione che il futuro continuerà a svolgersi sempre con la stessa regolarità. Ma la continua constatazione dell'inesistenza di un uomo immortale esemplifica paradigmaticamente il fatto che nessuno ha finora mai osservato un solo effetto concreto di tante immaginabili violazioni del principio dell'uniformità della natura che, in un universo esistente da sempre, avrebbero invece dovuto farsi vedere . Se questa constatata assenza di violazioni la si proietta sullo sfondo di una processualità naturale eterna, allora le argomentazioni dialettiche usate dai greci acquistano un notevole peso probativo nella difesa della ragionevole accettabilità del principio dell'uniformità della natura.

    In effetti, l'argomentazione dialettica greca, nella sua più vasta e pregnante accezione, è tutt'altro che riducibile al momento finale della confutazione o della reductio ad absurdum . Essa è piuttosto una raffinata e sottile discussione critica di condizionali controfattuali, volta a far emergere i nessi necessari e le impossibilità sottostanti. La dialettica greca, in sintesi, è la logica delle situazioni controfattuali, la logica più potente per tracciare, in tutti i settori dello scibile, i confini tra possibile e impossibile (19). La sua conoscenza è pertanto indispensabile per comprendere a fondo le strutture portanti della scientificità del pensiero greco, che sono state forgiate proprio dal confronto critico con i mondi possibili descritti dagli i asserti controfattuali. Uno dei segni distintivi di questa logica dialettico-controfattuale è la tendenza a mostrare che il principio di uniformità della natura si basa proprio sull'impossibilità di ipotetiche violazioni della regolarità della natura, descrivibili in termini di situazioni controfattuali.

    Il fatto che, in un universo che è sempre esistito, avremmo dovuto vedere (se la cosa fosse stata oggettivamente possibile) e non abbiamo mai visto un uomo immortale non indica forse che l'evento "uomo immortale" è fisicamente impossibile? La validità del principio dell'uniformità della natura, cioè l'estensione della regolarità della natura dal corso degli eventi passati a quello degli eventi futuri, non potrebbe reggersi proprio sulla dimensione di un'impossibilità fisica sancita da una processualità naturale eterna? La strategia del pensiero dialettico greco non è affatto insensibile al tentativo di mostrare che la validità del principio dell'uniformità della natura si regge sulla dimensione dell'impossibilità fisica piuttosto che su apodittiche dimostrazioni o su incerte e fluttuanti abitudini psicologiche.

    A prima vista, tuttavia, sembra che questa strategia sia destinata a cadere nel circolo vizioso di una petitio principii, dal momento che la portata universale dell'impossibilità fisica di certi eventi logicamente concepibili ( di un uomo immortale, ad esempio) presuppone , a sua volta, la validità del principio dell'uniformità della natura. E' infatti facile rendersi conto che certe classi di eventi risulteranno permanentemente impossibili da realizzare soltanto se tutte le cause naturali continueranno ad agire sempre allo stesso modo, cioè soltanto se il corso della natura resterà uniforme. E' dunque sempre il postulato dell'uniformità della natura ad assicurare che saranno oggettivamente possibili o realizzabili nel corso del tempo solo quegli eventi permessi dal modo impersonale di operare delle cause naturali e che risulteranno invece fisicamente impossibili, cioè irrealizzabili in natura, tutti gli eventi vietati dal reticolo causale. Se l'uniformità della natura è dunque il postulato che fonda la possibilità di una stabile demarcazione tra ciò che è fisicamente possibile (stati di cose possibili) e ciò che è invece fisicamente impossibile (stati di cose impossibili), non si potrà, a meno di altre assunzioni, collocare l'impossibilità fisica a fondamento dell'uniformità della natura.

    D'altra parte, il tentativo di ricavare l'impossibilità fisica dalla mancata constatazione di effetti osservabili implicati da eventuali violazioni "P" dell'uniformità della natura sembra cozzare contro le più elementari regole di logica modale. Dalla mancata osservazione dell'evento "uomo-immortale" non derivano informazioni sufficienti a decretare la falsità della possibilità di tale evento; potrebbe benissimo darsi una situazione in cui tale evento potrebbe essere vero. Lo stato di falsità fattuale della proposizione "R", descrivente un qualsiasi evento, non fornisce informazioni sufficienti a determinare il valore di verità dell'asserto modale "è possibile che R". Com'è noto, la verità fattuale di R rende vero l'asserto modale "è possibile che R" ( R), ma lo stato di falsità fattuale di R lascia del tutto indeterminato il valore di verità dell'asserto "è possibile che R" ( R).

    Ma se la continua constatazione dello stato di falsità fattuale di conseguenze osservabili "P" implicate da ipotetiche violazioni dell'uniformità della natura lascia indeterminato il valore di verità dell'asserto modalizzato "è possibile che P" ( P), allora lascia indeterminato anche il valore di verità dell'asserto (contraddittorio) " è impossibile che P" ( P). Questo vuol dire che dal punto di vista logico la mancata constatazione degli effetti di ipotetiche violazioni dell'uniformità della natura non ci permette di dedurre validamente l'impossibilità assoluta di tali violazioni.

    Come si vede, anche la difesa dialettica del postulato dell'uniformità della natura, basata sull'impossibilità fisica di violazioni dell'uniformità, sembra destinata ad oscillare tra le secche dei circoli viziosi privi di inoppugnabile forza probativa e l'inconcludenza dei "non sequitur". E' vero che ci si potrebbe sbarazzare facilmente di chi a parole rifiuta questo postulato, ricorrendo ad una confutazione ad hominem del seguente tipo: <<gettati tranquillamente nel pozzo, perché se non ritieni valido il principio dell'uniformità della natura devi ammettere che potresti benissimo volare in alto, anziché cadere in basso e rischiare di morire annegato>>. Ma anche questa facile eliminazione degli avversari, dopo tutto, lascia il tempo che trova.

    E' sicuramente difficile imbattersi in avversari, veramente coerenti, del principio dell'uniformità della natura, così come è altrettanto insoddisfacente pensare che tale principio sia nato e sia stato posto alla base di una poderosa e rivoluzionaria concezione del mondo senza altro supporto che la ripetuta osservazione di costanti correlazioni tra fenomeni fisici.

    La tesi che la sola e ripetuta osservazione di correlazioni costanti tra fenomeni sia sufficiente a generare l'idea di uniformità del corso della natura è un puro e semplice mito che crolla appena ci si chieda come mai tali correlazioni, già ben conosciute e apprezzate dal pensiero mitologico, dovettero attendere i filosofi ionici per suggerire l'idea di un'immutabile regolarità causale immanente al corso naturale degli eventi. In effetti, è bene ribadirlo, la pura e semplice osservazione di costanti correlazioni tra fenomeni non è affatto sufficiente a suggerire il principio dell'uniformità della natura. Lo prova il fatto che tali correlazioni, per quanto già note ed enfatizzate, non indussero mai la cultura mitologica (e non solo questa) a concepire il mondo in termini di ordinamento causale uniforme o invariante.

    Contrariamente a quanto affermerà Hume, il pensiero mitologico, proprio perché non arrivò alla scoperta della causalità naturale, costituisce la più evidente prova storico-fattuale che la relazione di causa-effetto non solo non ha un'origine a priori, ma non è ricavata nemmeno dalla sola ed esclusiva percezione sensoriale di successioni e di correlazioni costanti tra eventi. Il pensiero mitologico, proprio perché ancora lontano dall'idea di un ordinamento causale uniforme della natura, mostra di fatto che l'abitudine psicologica a veder seguire da situazioni antecedenti simili situazioni conseguenti simili non è sufficiente da sola a far nascere l'idea dell'uniformità del corso della natura. In breve, per la scoperta del cosmos, inteso come impersonale e costante funzionamento causale della natura, non bastò né un affinamento della percezione sensibile, né una maggiore sollecitazione della memoria che forma l'abitudine, ma occorse piuttosto un rivoluzionario mutamento di pensiero, i cui sotterranei assunti ontologico-cosmologici si ritrovano alla base della difesa dialettico-controfattuale del principio dell'uniformità della natura.

    Ovviamente, questi assunti, al pari della genesi dell'idea di causalità naturale, sono sempre indissolubilmente legati all'idea fondamentale dell'eternità dell'archè , intesa come materia-forza la cui inesauribile azione dinamica dura indefinitamente nel tempo, cioè persiste nel tempo senza inizio e senza fine e senza dissipazione alcuna (20). Il primo di questi assunti riguarda proprio il carattere autoconservativo del principio originario: il dinamismo espresso dall'archè deve possedere innanzitutto una struttura conservativa sia per quanto concerne la propria forza-energia, sia per quanto riguarda le modalità della sua azione.

    Che la concezione dell'eternità del principio implicasse proprietà autoconservative era una cosa già ben nota all'antica storiografia filosofica. Queste proprietà conservative derivano dal fatto che il principio originario non ha solo la funzione di remoto punto di partenza che si trova esclusivamente all'inizio dei processi naturali. Al contrario, esso costituisce la matrice originaria che resta sempre presente alla base di tutti i fenomeni fisici: tutti i processi e le trasformazioni naturali sono espressioni della sottostante energia dell'archè originario, che è principio e termine di tutte le cose. Non a caso, sottolineava già Aristotele , i primi filosofi <<affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento e principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre>> (21). E' del resto difficile non osservare che questa concezione ci pone di fronte a <<qualcosa di simile a una legge di conservazione della materia>> (22). In effetti, fu proprio la fede dei presocratici <<nel principio che qualcosa si conserva in natura>> a incanalare il pensiero scientifico occidentale verso la ricerca di principi di conservazione (23).

    Inoltre, se si scarta - come fecero i presocratici - l'ipotesi che l'archè possa manifestare arbitrarie preferenze o compiere libere scelte, allora si deve per forza concludere che la sua eternità rende impossibile l'esistenza di un istante in cui il suo dinamismo e il conseguente flusso del divenire cosmico si arrestino definitivamente. Se infatti l'approdo ad un ristagno definitivo fosse un evento realmente possibile per la struttura costitutiva dell' archè, allora, considerata l'illimitata estensione del passato, questo arresto definitivo si sarebbe realizzato già da lungo tempo e ora non esisterebbe più nessun processo fisico. Argomentazioni analoghe evidenziano, altresì, l'eterna invarianza delle sue modalità d'azione: se la caduta in una situazione di disordine permanente fosse oggettivamente possibile, allora tale possibilità si sarebbe realizzata già da lungo tempo e noi non staremmo qui a contemplare i meravigliosi moti dei cieli. Come si vede, queste considerazioni indicano che l'azione dinamica dell'archè si dipana secondo un'intrinseca struttura d'ordine eternamente immutabile.

    Da tutto ciò consegue che il dinamismo proprio dell'archè, in quanto vincolato alla propria intrinseca e invariante struttura d'ordine, non può realizzare tutte le possibilità logicamente concepibili ( tutti i sogni o tutti gli eventi immaginabili), ma solo quelle possibilità consentite dalla suo ordinamento architettonico, cioè dal suo reticolo di leggi immutabili. In questo modo la struttura d'ordine che governa da sempre il dinamismo dell'archè determina necessariamente una demarcazione fondamentale tra l'insieme delle possibilità-oggettivamente-realizzabili (sfera del fisicamente possibile) e l'insieme delle possibilità -non-realizzabili in natura (sfera del fisicamente impossibile). L'eternità dell'archè, infatti, nel generare l'idea di causalità naturale, genera anche un sistema di vincoli restrittivi che vietano l'accadere di innumerevoli classi di eventi logicamente concepibili. Non si può negare l'esistenza di questi vincoli restrittivi, perché se tutto il logicamente possibile o immaginabile fosse realizzabile nel mondo naturale, allora, vista l'infinita estensione del tempo passato, molti sogni dovrebbero essersi realizzati già da tempo. L'esperienza, però, ci attesta proprio il contrario: la stragrande maggioranza dei nostri sogni più allettanti resta irrealizzata in questo mondo. Come si evince da questo tipo di argomentazioni, l'eternità dell'archè porta al netto rifiuto della credenza che "a questo mondo tutto è possibile": essa infatti istituisce un vero e proprio principio generale di demarcazione tra ciò che è fisicamente possibile e ciò che invece risulta fisicamente impossibile o irrealizzabile in natura: tra ciò che la natura può fare e ciò che non può fare. L'archè, insomma, genera tutto ma non è onnipotente in senso assoluto o simpliciter: può fare solo tutto ciò che è consentito dalle sue leggi causali. Le strutture causali immanenti al principio primo risultano, infatti, dei veri e propri principi di impossibilità, che, perimetrando la sfera del fisicamente realizzabile, assegnano alla scienza il compito di scoprire le leggi causali che consentono di separare l'isola del realizzabile dallo sterminato oceano dei sogni impossibili.

    Questa demarcazione non solo pone le condizioni di possibilità della scienza (24), ma porta anche a concludere che <<tutto il possibile-oggettivamente-realizzabile in natura è stato già realizzato in passato>>, in un passato senza inizio e quindi di durata illimitata. Un principio eterno, il cui dinamismo è restato perennemente in azione fin da un passato di durata illimitata, ha infatti già avuto tutto il tempo necessario per realizzare tutto il possibile oggettivamente realizzabile dalla sua struttura causale. Anzi, non è difficile mostrare che la totalità del possibile-realizzabile sia stata realizzata nel passato per più di una volta.

    Ora, proprio questa idea cardine, secondo cui <<tutto il possibile oggettivamente realizzabile in natura è stato già realizzato in passato>> costituisce quel secondo assunto fondamentale del pensiero scientifico-filosofico greco che, a mio avviso, gioca un ruolo determinante nella giustificazione del principio dell'uniformità della natura e nella fondazione della concezione ciclica del tempo.

    Per quanto l'arché sia un principio caratterizzato da una dinamica non dissipativa ed autoconservativa, il suo campo e le sue modalità di realizzazione, proprio perché circoscritti entro insuperabili vincoli causali, risultano finiti. Ma poiché l'azione dinamica dell'arché si svolge per un arco temporale che va da t = - a t = + , è chiaro che, in virtù della finitezza del campo e delle modalità di realizzazione dell'arché, tutto debba essere già accaduto nel passato e che il blocco di "tutto il possibile fisicamente realizzabile" debba essersi realizzato più e più volte, all'infinito, nel corso del tempo. Da ciò consegue che il sempiterno flusso del divenire cosmico deve necessariamente acquistare un andamento ciclico: il nostro universo, secondo questa ciclicità, non è nient'altro che l'esemplare attuale di una serie infinita di mondi.

    La saldatura di questa concezione ciclica con l'idea che il passato è inalterabile determina quel fatalismo ciclico, tipico della mentalità greca, che risulta il vero sedimento profondo su cui poggia la legittimazione forte del principio dell'uniformità della natura. Nella filosofia greca la forma più radicale di questa legittimazione è rintracciabile nel celebre "Argomento Dominante" o "argomento vittorioso" (kyrieyon logos) di Diodoro Crono (IV sec. a.C.), filosofo della scuola megarica, celebre per le sue dottrine di logica modale.

    L'"Argomento Dominante" parte dalla tesi che il passato è inalterabile. Lo stesso Aristotele, del resto, nell'Etica nicomachea non mancherà di riconoscere l'inalterabilità del passato: <<Nessuno delibera intorno al passato, ma attorno a ciò che è futuro ed è possibile, mentre il passato non può non essere avvenuto; dunque ha ragione Agatone a dire: " D'una sola facoltà è privo Dio stesso: la facoltà di fare sì che non sia avvenuto ciò che è avvenuto">> (25). Dall'idea che il passato è necessariamente così come è stato, e non può più essere altrimenti, Diodoro ricavava la prima premessa del suo "argomento vittorioso": <<ogni cosa che è passata e vera è necessaria>> (26)

    Nonostante il suo elevato spessore di ambiguità, questa premessa, proprio perché conferisce il carattere della necessità ad <<ogni cosa che è passata e vera>>, conferisce al contempo anche il carattere dell'impossibilità a tutte le negazioni delle <<cose che sono passate e vere>>. Se, ad esempio, la morte di tutti gli uomini è uno stato di cose passato e vero, ed è quindi, secondo Diodoro, una stato di cose necessario, allora la negazione di questo stato di cose sarà impossibile, cioè sarà sempre falsa. Conferire la necessità ad una <<cosa che è passata e vera>>, indicata con "R", (R), equivale infatti a dire che è impossibile nonR (- -R).

    Ora, se tutto è già avvenuto, cioè se <<tutto il possibile realizzabile si è già realizzato nel passato>> più e più volte, la definizione di possibilità sostenuta da Diodoro (<<è possibile solo ciò che è vero o sarà vero>>) e il suo "argomento vittorioso" risultano non solo pienamente comprensibili, ma anche capaci di fornire la più solida e consistente legittimazione del principio di uniformità della natura. Quest'ultimo, in definitiva, si reggerebbe sull'impossibilità logico-ontologica di ipotetiche violazioni dell'uniformità della natura. Nella prospettiva ciclico-fatalistica di Diodoro Crono, infatti, gli stati di cose che i passati cicli della storia naturale non hanno potuto realizzare risulterebbe impossibili.

    Certo, il prezzo di questa legittimazione dell'uniformità della natura, non esente essa stessa da inevitabili circolarità, è, come è stato rimarcato a proposito delle tesi di Diodoro (27), quello di un eterno fatalismo ciclico. In ogni caso, ciò che non va dimenticato è che la mentalità scientifica nasce dal plesso "eternità-causalità-conservazione-ciclicità-fatalismo", che sottintende un'ontologia generale e una cosmologia ben precise. Questo inestricabile plesso - in cui giocano un ruolo primario nozioni complesse e altamente problematiche come quelle di infinito, causalità, possibilità e necessità - mostra che il principio dell'uniformità della natura, proprio perché tenuto a battesimo da precise dottrine ontologiche e da peculiari concezioni del tempo, non può essere analizzato soltanto sulla base di un sommario esame dell'inferenza induttiva.

    Ad ogni modo questo plesso lascia trasparire una topologia del tempo incentrata su tre elementi essenziali: 1) sul predominio del passato sull'orizzonte temporale; 2) sull'identità (su larga scala) tra futuro e passato; 3) sulla valenza soteriologica della ciclicità del tempo.

    Per quanto concerne il primo punto, va ricordato che il netto predominio del passato all'interno di questa topologia del tempo emerge già dalla difesa dialettica del principio dell'uniformità della natura. Quest'ultimo infatti veniva difeso sulla base di un passato senza inizio, la cui illimitata durata rendeva improbabili (o impossibili) ipotetiche violazione dell'uniformità della natura. In effetti, nella visione ciclica dei greci, il passato finisce con l'assumere il ruolo di vero e proprio criterio ontologico in grado di stabilire ciò che è realizzabile e ciò che non è realizzabile nel corso del tempo. Il Timeo di Platone fornisce uno degli esempi più significativi al riguardo. Per dimostrare che il modello di città ideale delineato nella Repubblica è un progetto concretamente realizzabile e non un'astrazione utopistica, Platone non ricorre affatto a previsioni ricavate da favorevoli tendenze sociali, politiche o economiche, ma guarda esclusivamente a quanto è già avvenuto in passato. Egli pensa, infatti, che la migliore conferma della realizzabilità della sua città ideale può essere data solo da quanto attesta il passato. Perciò, a solida prova della sua piena realizzabilità, Platone non porta altro che la memoria tramandata dagli scritti degli antichi sacerdoti d'Egitto, la quale assicurava che il modello platonico di città ideale aveva già avuto una sua realizzazione nella storia dell'antica Atene del passato (28), e precisamente nel ciclo precedente chiuso dall'ultimo diluvio universale.

    Come emerge da questo esempio, la teoria della ciclicità universale, sintetizzabile nell'espressione "tutto è già stato", porta a far coincidere storicità e predittività, perché fonda sulla ricostruzione storica del passato la possibilità di prevedere quanto avverrà nel futuro corso degli eventi. La grandiosa cosmologia di Anassimandro non solo conferma questa coincidenza, ma costituisce anche lo snodo fondamentale per cogliere appieno gli altri due elementi essenziali di questa topologia del tempo e per misurare l'altezza delle dorsali di pensiero che hanno generato la mentalità scientifica.

    3. Anassimandro: cosmologia, tempo ciclico e salvezza

    L'unico frammento che ci resta dell'opera Sulla natura di Anassimandro (610-545 a.C.) è la più antica parola scritta da un filosofo e il primo trattato di cosmologia scientifica, che delinei con lucida razionalità lo sviluppo dell'universo <<secondo l'ordine del tempo>>.

    Il frammento, in cui compare per la prima volta il termine principio (archè), staccato dal contesto dossografico, non è facilmente comprensibile. <<Principio (archè) degli esseri è l'infinito (apeiron)… - afferma Anassimandro - da dove infatti gli esseri hanno l'origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo>> (29). Questo lapidario testo, a causa della sua antichità e della sua eccezionale rilevanza, è stato sempre al centro dell'attenzione della storiografia filosofica. Di recente, lo stesso Heidegger, nel commentare in chiave ontologica questo celebre frammento, si è sentito in dovere di precisare che a proposito delle concezioni di Anassimandro il giudizio della scienza successiva è stato <<sufficientemente indulgente per non biasimare questa indagine fisica ai suoi primi passi>> (30).

    In realtà, contrariamente a quanto pensa Heidegger, la scienza successiva ha ben poco da essere indulgente, perché dal punto di vista scientifico non c'è proprio nulla da biasimare nella grandiosa cosmologia di Anassimandro. In effetti, come ha recentemente ribadito André Pichot , <<i pochi elementi che ci restano della concezione fisiocosmologica di Anassimandro bastano a fare di lui uno tra i primissimi "scienziati" non della sola antichità, bensì di tutti i tempi>> (31). La sua concezione dell'universo, secondo Mugler, è infatti il risultato di <<riflessioni paragonabili alle speculazioni suggerite agli scienziati e ai filosofi moderni dalle grandi scoperte della termodinamica nel XIX secolo>> (32).

    Per apprezzare la grandiosa rilevanza scientifica della cosmologia di Anassimandro è sufficiente una sintetica esposizione (33) del suo modello di formazione e di evoluzione dell'universo. L'apeiron, cioè l'illimitato senza forma e senza fine nello spazio e nel tempo, è per Anassimandro l'archè, il principio dinamico, l'elemento primordiale indeterminato da cui hanno origine tutte le cose e le trasformazioni fisiche. In seno all'apeiron, all'indifferenziato infinito, forse a causa del suo eterno moto vorticoso (34), si produce una differenziazione primordiale che provoca una primigenia separazione del caldo dal freddo. L'elemento freddo si dispone al centro dell'universo e va a formare il cilindro schiacciato della Terra, attorno al quale, come la corteccia intorno al tronco dell'albero, si dispone l'elemento caldo, che assume la forma di un involucro sferico di fuoco.

    Sotto la continua azione di riscaldamento generata dalla sfera di fuoco, una parte dell'umidità primordiale presente nella Terra evapora, separando così le terre asciutte dai mari e formando un cuscino d'aria-vapore che si frappone fra la primitiva sfera esterna di fuoco e la Terra centrale, distanziandole ulteriormente. Per effetto del continuo processo di evaporazione, la massa d'aria-vapore compressa tra la Terra e l'involucro sferico di fuoco aumenta al punto da generare una pressione talmente poderosa da squarciare l'involucro di fuoco, suddividendolo in diversi anelli concentrici. La maggior parte di questi anelli di fuoco, e precisamente quelli più vicini alla Terra, si dispongono su piani paralleli tra loro e costituiscono gli anelli degli astri fissi, cioè delle stelle. Ma nella lacerazione dell'involucro di fuoco si formano anche due anelli di fuoco più esterni: quello intermedio della Luna e quello ancora più esterno del Sole. Ogni anello di fuoco è circondato da un involucro opaco di aria condensata che non lascia filtrare la luce del fuoco interno se non da alcuni orifizi, la cui chiusura, più o meno completa, determina, nei due anelli superiori, le fasi di Luna e le eclissi di Luna e di Sole. Questi anelli ruotano intorno alla Terra, perché spinti dai venti, cioè dalle correnti di vapore che avevano squarciato la sfera di fuoco. La Terra, in quanto occupa il centro dell'universo, non ha bisogno di alcun supporto: non poggia su nulla, ma si mantiene in equilibrio, perché, trovandosi ad uguale distanza da tutte le parti, non è sottoposta a nessuna sollecitazione.

    4. Il modello di universo di Anassimandro

    L'universo, cioè questo sistema ordinato di anelli di fuoco ruotanti intorno alla Terra, ha una durata limitata nel tempo, perché è destinato necessariamente a finire. Anche se non è possibile calcolare con precisione quando arriverà la fine del mondo, questo evento catastrofico, proprio perché imposto da immutabili e implacabili leggi fisiche, è prevedibile con estrema sicurezza. L'intera storia cosmica, infatti, si snoda attraverso due fasi: quella costruttiva in cui il freddo ha il sopravvento sul caldo (formazione dei cieli) e quella distruttiva in cui tutte le trasformazioni fisiche avvengono nella direzione di un progressivo riassorbimento del freddo nel caldo. Secondo Anassimandro, infatti, il fuoco, che nella prima fase era stato violentemente squarciato dall'elemento freddo-umido, si fa riparare l'"ingiustizia" subita, disseccando e riassorbendo le riserve di umidità della Terra. L'incessante evaporazione, attestata dall'esperienza quotidiana, farà sì che il caldo riassorbirà infine l'ultimo residuo di umidità terrestre. Ma una volta disseccata completamente la Terra, scompariranno tutti i processi di evaporazione. Di conseguenza, non vi saranno più venti o correnti di vapore ad alimentare il moto degli anelli di fuoco; sparirà la pressione dell'aria che li tiene separati e tutto l'edificio celeste precipiterà e crollerà sulla Terra: l'universo intero verrà distrutto e tutto ripiomberà infine nel seno dell'apeiron, nel grembo dell'indeterminato da cui era nato. La storia del mondo, generata da una rottura dell'equilibrio e segnata da una catena di squilibri (termo-dinamici), di violenze e di ingiustizie dell'elemento freddo su quello caldo e viceversa, risulta dunque un processo di restituzione e di ristabilimento dell'equilibrio <<secondo l'ordine del tempo>>.

    In questo quadro cosmologico, la previsione dell'esito finale della vicenda cosmica non appare affatto problematica: la fine del mondo è talmente certa da essere fuori discussione. Ciò che invece risulta altamente problematico è piuttosto la natura di questa fine: si tratta della fine assoluta di tutto o della fine relativa di un singolo mondo? In altri termini, l'inevitabile ricaduta dell'universo nell'apeiron indifferenziato rappresenta la fine definitiva del mondo e del tempo o no? C'è un motivo per cui, dopo la scomparsa finale del mondo, l'apeiron, l'amorfa sostanza primordiale infinita non debba restare per sempre in uno stato di indistinzione perpetua? Vi sono delle ragioni per dire che la scomparsa di questo mondo nell'indifferenziato non rappresenta la fine definitiva del tempo e nemmeno l'arresto definitivo di ogni processo?

    Per quanto insoddisfacente sul piano della spiegazione razionale, la dossografia offre una prima risposta a questi interrogativi. Presentando l'archè come eterno movimento vorticoso (35) o come processualità infinita e inarrestabile, essa indica implicitamente che per Anassimandro la fine di un mondo non può rappresentare l'arresto definitivo del tempo e di ogni processo. Ma ancor più esplicito di questa indicazione dossografica è il tipo di ragionamento con cui Anassimandro, secondo la tradizione, scongiurava l'arresto definitivo di ogni processo, dimostrandone dialetticamente l'impossibilità.

    Se la natura della sostanza primordiale - così, secondo Mugler, ragionava Anassimandro - fosse quella di restare in uno stato di perenne indifferenziazione dopo il riassorbimento del mondo nel suo grembo, allora il momento fatale della fine definitiva del mondo sarebbe arrivato già da tempo, data l'infinità del tempo trascorso. Non c'è infatti nessuna ragione per cui la sostanza primordiale, l'apeiron, dovrebbe attendere un'eternità prima di fermarsi del tutto. Se non si è arrestata definitivamente nell'infinità del tempo passato, ciò vuol dire che essa non ha potuto arrestarsi, che quindi non c'è nulla nella sostanza primordiale che le impedisca di differenziarsi più e più volte e di riprodurre così all'infinito altri mondi.

    Come si vede, questo ragionamento ha la tipica forma dei condizionali controfattuali. Di sicuro il ragionamento controfattuale non doveva essere estraneo ad Anassimandro, perché si ripresenta anche nella giustificazione dell'idea di una derivazione evolutiva dell'uomo da un'altra specie animale (36). Certamente, anche l'argomentazione controfattuale, con cui Anassimandro dimostra razionalmente l'impossibilità di un arresto definitivo e di una fine assoluta di tutto nell'indifferenziato primitivo, è circolarmente intrecciata tanto con il postulato dell'eternità del tempo, quanto con l'idea di una natura causalmente strutturata ed estranea a qualsiasi tipo di predilezione e di scelta. Anzi, il suo valore probativo si regge interamente sul postulato che la <<natura non conosce predilezioni, né nel flusso del tempo, né nella distribuzione degli oggetti nello spazio, né nelle trasformazioni materiali di cui essa è sede, che essa non ammette, a meno di una ragion sufficiente, né momenti privilegiati, né fatti o eventi di scelta>> (37). Questa idea di natura, secondo Mugler, è l'espressione di un vero e proprio <<principio di indifferenza>>, che, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale (38), impone il sistematico ricorso ad una "ragione sufficiente". Anassimandro si serve proprio di questo principio di indifferenza per dimostrare che il mondo, una volta riassorbito nello stato primitivo di indifferenziazione, rinasce ancora eternamente, perché non c'è nessuna ragione per cui la sostanza primordiale debba attendere un'eternità prima di arrestarsi definitivamente. Il filosofo-scienziato di Mileto non è tuttavia il solo a ricorrere a questo principio. Parmenide, ad esempio, sempre sulla base di questo principio, affermerà perentoriamente che l'essere non può nascere, perché non c'è nessuna necessità o ragione per farlo nascere prima piuttosto che dopo (39).

    Evidentemente, se la natura (o l'archè primordiale) facesse spontaneamente libere scelte o arbitrarie preferenze, potrebbe benissimo arrestarsi definitivamente, a suo piacere ed arbitrio, in qualsiasi momento. In questo caso, ovviamente, l'argomentazione dialettico-controfattuale di Anassimandro, privata di una delle sue premesse essenziali, perderebbe qualsiasi valore probativo. Se invece si assumono le premesse da cui parte Anassimandro, allora l'idea di eterno ritorno dell'identico e di ciclicità del tempo risultano l'espressione di una necessità fisico-razionale interna alla struttura del divenire cosmico.

    Quando un mondo scompare nell'apeiron, svanisce semplicemente il prodotto di una differenziazione fra caldo e freddo, ma non scompare affatto il potere della sostanza primordiale di produrre una nuova differenziazione da cui prenderà l'avvio la costruzione di un nuovo mondo. Ogni nuovo mondo, comunque, non potrà essere che una riedizione rigorosamente identica a quello precedente. Non è infatti possibile che lo storia del nuovo mondo si differenzi da quella del mondo precedente, perché la più piccola deviazione del corso del nuovo mondo dal cammino di quello precedente implicherebbe una disuguaglianza nelle condizioni iniziali; implicherebbe, cioè, una differenza nell'indifferenziato, il che è assurdo (40). Di conseguenza, il mondo quale noi lo vediamo è la copia perfetta degli innumerevoli mondi che lo hanno preceduto e l'esemplare di tutta la serie infinita di mondi che lo seguiranno.

    Questo sistema cosmologico segna una delle tappe più decisive di tutta la storia del pensiero scientifico in generale, e delle concezioni del tempo in particolare. Per la prima volta nella storia l'intero meccanismo di formazione e di funzionamento della natura va avanti da solo senza bisogno di nessun intervento degli dèi. Per la prima volta la causalità naturale e la spiegazione razionale soppiantano completamente le rappresentazioni mitiche. Per la prima volta si ha una geometrizzazione dell'intero universo, che, oltre ad offrire una poderosa naturalizzazione dei cieli, ha il merito di fornire spiegazioni geometriche dell'immobilità centrale della Terra e dei moti circolari degli astri, le quali superano decisamente la semplice astronomia di posizione dei Caldei. Da questa rivoluzionaria geometrizzazione nascono due concezioni di grande successo: il modello di universo sferico, il paradigma di tutta l'astronomia antica, e la teoria secondo cui il movimento di rotazione uniforme costituisce la legge fondamentale dei moti celesti.

    Sfericismo, circolarità e moto di rotazione uniforme, oltre a rendere perfettamente conto della regolare periodicità dei fenomeni astronomici, risultano l'espressione matematica della ciclicità che domina e pervade la natura. Questa universale ciclicità, scandita dall'infinita sequenza di distruzioni e rinascite dello stesso mondo, determina, ovviamente, una topologia del tempo caratterizzata, su larga scala, dall'identità fra passato e futuro e dal rifiuto dell'irreversibilità del tempo. Per quanto impedisse il concepimento di qualsiasi idea di progresso, questa identità fra cicli passati e futuri svolgeva per la mentalità antica una funzione estremamente positiva e rassicurante. Secondo Mircea Eliade era proprio mediante questa ciclicità, negatrice di qualsiasi novità, che <<l'umanità arcaica si difendeva come poteva contro tutto ciò che la storia comportava di nuovo e di irreversibile>> (41), cioè, contro il terrificante carico d'incertezza legato all'idea di un futuro realmente diverso dal passato.

    A ben guardare, l'idea di eterno ritorno dell'identico finisce col far girare a vuoto il tempo. Essa ha infatti <<il senso di un supremo tentativo di statizzazione del divenire, d'annientamento dell'irreversibilità del tempo. Poiché tutti i momenti e tutte le situazioni del cosmo si ripetono all'infinito la loro evanescenza si rivela in ultima analisi come apparente; nella prospettiva dell'infinito, ogni momento e ogni situazione restano fermi e acquistano così il regime ontologico dell'archetipo>> (42). Vista da questa prospettiva, la concezione dell'eterno ritorno di Anassimandro mostra implicazioni etico-religiose di primaria grandezza. Essa ha indubbiamente una valenza religiosa, se per religione si intende la credenza in una garanzia di salvezza offerta all'uomo. La visione ciclica del tempo, infatti, è una vera e propria teoria della salvezza, perché offre la garanzia di scongiurare il rischio di un annientamento totale della realtà in generale e di ogni singola sostanza in particolare. Come ha recentemente ribadito Davies, l'attrattiva maggiore del mondo ciclico consiste proprio nello sfuggire risolutamente <<allo spettro dell'annientamento totale>> (43). Se le immutabili leggi della natura fanno sì che il mondo attuale non differisca in nessun minimo dettaglio dai mondi che l'hanno preceduto e da quelli che seguiranno, allora ogni evento, ogni cosa, ogni uomo si è già ripetuto un'infinità di volte nel passato e ritornerà puntualmente con le stesse caratteristiche e gli stessi destini infinite volte nel futuro. Poiché, grazie a questa infinita reiterabilità, la vita di ogni cosa si prolunga al di là dei limiti dell'esistenza attuale, la teoria dell'eterno ritorno risulta in grado di soddisfare l'istinto di conservazione e la naturale sete d'immortalità di ogni uomo. L'idea di un'eterna rinascita, razionalmente codificata da Anassimandro, rende infatti ogni uomo eterno, nel senso che gli offre quantomeno un'eternità intermittente, in cui nessun più piccolo e insignificante dettaglio della sua vita andrà mai perduto, e in cui ciascun istante della sua esistenza acquistava la dignità dell'eterno.

    Presentata da Anassimandro come l'espressione di un implacabile ordine immanente alla natura, la concezione dell'eterno ritorno si rivela, in definitiva, come la vera religione dei Greci, come la loro autentica idea di salvezza. Questa grandiosa concezione, fra l'altro, aveva anche la forza di far accettare con maggiore serenità la sofferenza, la decadenza della vecchiaia e la morte, perché assicurava ad ogni uomo non un'incolore e umbratile immortalità nell'Ade, ma una perenne ritorno del vigore della giovinezza sotto la calda e amata luce del Sole.

    Una concezione di questa grandezza, una volta nata, era destinata a lasciare un'impronta profonda nel pensiero successivo. Gran parte della filosofia greca, comprese le dottrine di Platone e di Aristotele, non sarà altro che un commento e uno sviluppo del pensiero di Anassimandro. Il più grande filosofo-scienziato dell'Antichità delinea per la prima volta con estrema nitidezza quella strategia di nientificazione del nulla, o di messa al bando di qualsiasi rischio d'annientamento totale, che costituisce la profonda dorsale della mentalità scientifico-filosofica greca. I principali snodi di questa strategia li possiamo ora riassumere in questa sequenza logica: l'eternità dell'archè, privando il nulla di qualsiasi capacità d'azione e bloccando il regresso all'infinito, genera l'idea di causalità naturale (ogni evento ha un antecedente), stabilizza poi l'ordinamento causale (uniformità della natura) battezzandolo con la logica dialettico-controfattuale, pone quindi alla base delle trasformazioni fisiche principi di conservazione della materia-energia e genera infine una ciclicità del tempo che, vera e propria fonte di salvezza, garantisce ad ogni esistenza finita un'eternità intermittente vissuta nella piena luce del Sole. In conclusione, l'eternità dell'archè, del tempo e della materia-energia non solo genera la mentalità scientifica, non solo è disposta , come sosteneva Haeckel, ad eliminare dall'orizzonte scientifico tutti gli enigmi insolubili, ma arriva anche a garantire tante resurrezione dei corpi quante sono le infinite reiterazioni del ciclo cosmico.

    5. Il mondo ebraico: un tempo finito, futurocentrico, separato dall'eternità

    Per quanto allettante sotto il profilo ontologico, epistemologico e soteriologico, la visione ciclica dei Greci presentava lo svantaggio di imprigionare per sempre l'intera processualità cosmica nelle gabbie di un'eterna ripetizione degli stessi schemi di sviluppo, dalle cui sbarre nulla sfuggiva. Già Epicuro aveva avvertito il soffocante peso dell'implacabile fatalismo insito in questa perenne ricorsività delle stesse fasi di sviluppo. <<Era meglio credere - scriveva nella lettera a Meneceo - ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici [cioè dell'inesorabile fatalismo ciclico]: quelli infatti suggerivano la speranza di placare gli dèi per mezzo degli onori, questo invece ha implacabile necessità>> (44). Per quanto potesse apparire amara, questa schiavitù del "destino dei fisici" dominò quasi incontrastata sulla cultura classica dell'Antichità. Solo una popolazione che avesse sperimentato sulla propria pelle la devastante disperazione della deportazione di massa e della schiavitù avrebbe potuto ribellarsi ad una ciclicità che non liberava mai definitivamente dalla prigionia, ma rinnovava all'infinito nel tempo la condizione di schiavi. Gli Ebrei furono il popolo che spezzò le sbarre della ciclicità, proponendo una nuova topologia del tempo.

    Come per i primi filosofi, anche per la visione ebraica dell'Antico Testamento alla base di tutto c'è l'eternità: c'è Dio, l'Eterno per definizione. Analogamente alle dottrine dei filosofi ionici, anche la Bibbia afferma che tutto ha avuto origine dall'Eterno, che la causa prima di tutto l'esistente è necessariamente unica ed eterna. Il primo atto divino di cui ci parla la Genesi è infatti la creazione dell'intero mondo: <<In principio Dio creò il cielo e la terra>> (Gn 1,1).

    Al pari dei filosofi ionici, che non ci hanno lasciato nessuna dimostrazione dell'esistenza del principio eterno, cioè del "divino", la Bibbia non compie nessuno sforzo per dimostrare l'esistenza di Dio. Tanto nell'approccio dei primi filosofi quanto in quello biblico, l'esistenza, rispettivamente, dell'archè divina e di Dio è data per scontata alla stregua di una verità prima. In entrambi gli approcci, a mio avviso, è presente la seguente struttura logica di fondo: se esiste qualcosa, allora esiste Dio (o l'archè divina), perché questo qualcosa di esistente o è esso stesso Dio (ha cioè il potere di darsi l'esistenza da sé), oppure deriva da Dio (riceve cioè l'esistenza da Dio o dall'archè divina) (45).

    Sulla scorta dell'assioma dell'eternità del Principio primo, tanto il punto di vista filosofico quanto quello biblico, sia pure con accenti diversi, istituiscono le condizioni di possibilità di una leggibilità razionale-causale della realtà, perché partono da una causa ultima autosufficiente che, bloccando il regresso all'infinito, sostiene la catena della cause penultime o seconde (il reticolo delle cause naturali). Entrambe le prospettive, per quanto in forme diverse, condividono una strategia di nientificazione del nulla, cioè di eliminazione del pericolo di un annientamento totale. L'atto creatore di Dio, di cui ci parla il primo versetto della Bibbia, non ribadisce semplicemente l'impossibilità di qualsiasi iniziativa del nulla, ma fa dell'universo creato l'espressione della più tangibile nientificazione del nulla. Nella creazione, infatti, il nulla da cui è tratto il creato non è la materia di cui è composto il mondo, ma è semplicemente il non essere (ancora) del mondo a cui segue l'esistenza della realtà creata. Inoltre, tanto i filosofi ionici quanto l'Antico Testamento si contrappongono alle rispettive tradizioni culturali, sostenendo ciascuno un risoluto processo di demitizzazione che libera la natura dal capriccioso intervento degli dèi. Alla critica dei primi filosofi contro le divinità mitologiche corrisponde l'implacabile critica biblica contro ogni forma di idolatria e di politeismo. Entrambi gli atteggiamenti critici, in definitiva, approdano alla stessa conclusione: al divieto di ogni forma di deificazione delle forze naturali.

    Certamente, queste analogie strutturali non attenuano affatto le profonde diversità esistenti, persino nell'impostazione ontologica di fondo, tra il discorso filosofico greco e quello biblico. Senza alcun dubbio la Torah vede, sì, l'ordinamento naturale come il risultato delle leggi imposte da Dio al creato, ma non è interessata a fondare una concezione del mondo in termini di causalità naturale. Questa mancanza d'interesse, però, non vuol dire che la visione biblica della natura sia incompatibile con la concezione causale dei filosofi ionici. Quest'ultima, assunta in un quadro di radicale contingenza, può benissimo, come di fatto avverrà, essere innestata nell'idea biblica di natura. Ad ogni modo non è qui il caso di soffermarsi sull'ampio spettro delle differenze esistenti tra l'impostazione filosofica e quella ebraica, perché, dopo tutto, si tratta di diversità ben note e ripetutamente enfatizzate da tutte le ricorrenti contrapposizioni illuministiche tra theoria greca e Torah ebraica. Ciò che nell'economia del presente discorso merita invece di essere sottolineato è la profonda divergenza esistente tra filosofia greca e mondo ebraico nell'impostazione del rapporto tra eternità e tempo: mentre nel pensiero greco il flusso temporale del divenire cosmico resta sempre inscritto nell'eternità, nel mondo ebraico la temporalità, proprio nel suo fluire, risulta invece nettamente separata dall'eternità.

    Per vedere come da questa separazione nasca una topologia del tempo antitetica a quella ciclica è bene soffermarsi innanzitutto sul concetto di eternità. Nella filosofia ionica, e soprattutto nella cosmologia di Anassimandro, predomina l'idea di un'eternità come illimitata estensione nel tempo, cioè come durata senza inizio e senza fine del flusso temporale. Anche Eraclito si attiene a questa idea di eternità quando afferma che <<quest'ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura>> (46). In generale, è proprio su questa nozione di eternità che si fondano tutti i tentativi di giustificare dialetticamente l'uniformità della natura, ossia l'invarianza dell'ordinamento causale immanente al cosmo.

    Quando, attraverso i primi rigorosi procedimenti logico-dimostrativi, si scopre che le verità matematiche sono necessarie, immutabili e valide per sempre, cioè sono eterne, si fa strada anche il concetto di eternità atemporale, secondo cui eterno è ciò che permane immutabile senza successione: ciò che non era né sarà ma è soltanto. L' "essere" di Parmenide, ad esempio, gode soltanto di questa eternità atemporale, intesa come contemporaneità o come presenza immutabile che resta sempre identica a se stessa, esiste sempre al presente, non ha né principio né fine, ed è esente da qualsiasi tipo di successione. La mentalità scientifica greca, nata sotto l'egida di un'eternità temporale, conobbe dunque anche un'eternità al di fuori del tempo e separata quindi dalla temporalità (47). Tuttavia, escluse le negazioni parmenidee del divenire, per il pensiero greco l'eternità atemporale ( delle verità matematiche, delle idee platoniche, delle essenze e dei motori immobili di Aristotele) coesiste sempre con l'eternità temporale del divenire cosmico. La durata illimitata è infatti l'orizzonte comune entro cui restano inscritti i due tipi di eternità. Nel mondo greco, pertanto, non si assiste mai ad una completa scissione fra eternità e tempo, perché anche il flusso temporale gode di una forma di eternità (di divinità), nel duplice senso che la successione temporale dura indefinitamente senza inizio e senza fine e riproduce sempre gli stessi immutabili schemi eterni di sviluppo. Poco importa se questi schemi eterni siano chiamate idee da Platone e essenze da Aristotele.

    A differenza della filosofia greca, che aveva preso l'avvio dall'eternità temporale, la Bibbia, invece, parte risolutamente dall'eternità atemporale di Dio. Nel Pentateuco, infatti, ci troviamo di fronte al paradosso di un Dio eterno, unico e totalmente trascendente il tempo, che tuttavia crea il mondo, si rivela all'uomo ed interviene misteriosamente nel corso della storia. L'assoluta trascendenza di Dio si manifesta, infatti, in una duplice separazione dalla successione temporale: l'Eterno trascende il tempo non solo perché è al di fuori del tempo, al di là di qualsiasi successione, ma anche perché dura per sempre, mentre il tempo del mondo creato ha giorni e secoli contati. Insomma, per la Bibbia solo Dio è l'unico Essere veramente eterno. Di conseguenza, a differenza di quella greca, la temporalità biblica non ha in sé nessuna qualità divina ( cioè nessun tipo di eternità), perché la sua durata finita non le consente di coesistere per sempre con l'eternità atemporale di Dio. Infatti, il principale elemento differenziale che contraddistingue nettamente la concezione biblica da quella greca consiste proprio nell'assegnare alla temporalità, cioè all'asse strutturale di questo mondo, lo statuto di una condizione transeunte di durata finita. Nonostante i ripetuti accostamenti tra la Genesi e il Timeo di Platone, sempre ricorrenti a partire da sant'Agostino, alla temporalità biblica non è affatto applicabile la definizione platonica di tempo come <<immagine mobile dell'eternità>> (48), perché il tempo biblico, a causa della sua durata finita, non può fungere nemmeno da immagine dell'eternità.

    Com'è noto, la concezione della creazione, oltre che dall'armonizzazione dei diversi racconti biblici alla creazione, dipende dal modo in cui viene interpretato il primo versetto della Genesi. Se lo si interpreta come una proposizione dichiarativa, allora il senso dei primi due versetti risulta il seguente: <<In principio Dio creò>> dal nulla <<il cielo e la terra>> allo stadio di qualcosa di informe, vuoto e caotico. Se invece si attribuisce al primo versetto la funzione di sommario introduttivo o di titolo del primo capitolo della Genesi, allora il senso appare il seguente: dapprima, quando Dio si accinse a creare il cielo e la terra, la terra era (ancora) <<informe e vuota e la tenebra era sulla faccia dell'abisso>> e proprio da questo stadio caotico preesistente ebbe inizio il processo di creazione.

    Come attesta la storia dell'esegesi biblica, la possibilità di queste due antitetiche interpretazioni ha fatto versare fiumi d'inchiostro per dirimere la questione se Gn 1 parli di creazione dal nulla (creatio ex nihilo) oppure dal caos. Dal punto di vista strettamente filologico la questione risulta, se non indecidibile, sicuramente di difficile soluzione. Dal punto di vista logico, invece, la preesistenza all'atto creativo divino di un elemento caotico o di una terra <<informe e vuota>>, è del tutto incompatibile con l'onnipotenza e con l'unicità assoluta di Dio. Se infatti preesistesse all'atto creativo un qualcosa di caotico, allora vi sarebbe una realtà non causata da Dio, e Dio non sarebbe più l'unica e onnipotente causa di tutto. In definitiva, è il radicale monoteismo del Pentateuco, cioè il netto rifiuto ebraico di qualsiasi dualismo e politeismo, ad implicare l'idea di una creatio ex nihilo (49), in cui l'universo e il tempo, creato necessariamente con il mondo, presentano la singolarità di un inizio assoluto. Certamente, l'inizio assoluto di un mondo lanciato nel corso del tempo, cioè questo salto dal nulla all'universo in divenire, è destinato a restare un mistero inafferabile alla ragione umana: l'inizio assoluto, in quanto tale, cade infatti oltre l'orizzonte dell'esperienza possibile; può essere solo rivelato da Dio o dedotto dalla ragione umana (50). Di fronte a questa singolarità dell'inizio ( ed anche della fine del mondo) la ragione umana mostra limiti conoscitivi insuperabili. Non a caso la problematica dei limiti della conoscenza umana, cioè il pessimismo epistemologico, appartiene al mondo ebraico e non a quello greco. D'altro canto, la concezione di un tempo finito, delimitato cioè da una singolarità iniziale e da una finale, non consente più di legittimare il principio dell'uniformità della natura sulla base delle sottili argomentazioni controfattuali elaborate dai Greci alla luce dell'eternità del flusso temporale. Nella visione ebraica l'invarianza delle leggi naturali si basa solo sull'imperscrutabile volontà di Dio. E di fronte alla Sua assoluta trascendenza a ben poco servono le ragioni ricavate dalle nostre più raffinate argomentazioni controfattuali.

    Senza alcun dubbio, dalla Genesi emerge con estrema chiarezza che la creazione è un passaggio al temporale: non solo la formazione del mondo risulta un processo che si snoda lungo una successione temporale ( i sei giorni della creazione), ma la temporalità risulta una delle fondamentali proprietà oggettive del mondo. Non c'è nulla di più distante dalla Genesi dell'idea che il tempo sia qualcosa di puramente soggettivo. La creatio ex nihilo implica che il tempo sia creato col mondo, ma questo non vuol dire che il tempo biblico sia un contenitore inerte, utile soltanto a fornire agli eventi l'etichetta di una datazione. Nella Genesi il tempo appare piuttosto come una sorta di operatore che presiede alla formazione del mondo e in cui sono inscritte le potenzialità di sviluppo della storia cosmica. Si tratta, in ogni caso, di una storia che ha un inizio assoluto (la creazione) e una fine assoluta (l'avvento del <<regno di Dio>>). Secondo la visione ebraica, infatti, prima della fine dei tempi arriverà il Messia, che sarà di stirpe davidica ed annuncerà la fine dei tempi e l'inizio di un'era nuova, in cui <<Il Signore distruggerà la morte per sempre>> (Is 25,8) e in cui si prefigura la resurrezione dei morti ( Is 26,19; Ez 37, 1-14).

    L'avvento di questa era nuova di pace (shalom), cioè di pienezza e di appagamento completo, non implica la distruzione del mondo, bensì la sua trasfigurazione paradisiaca in una <<nuova Gerusalemme>> la quale, affrancata definitivamente dalla morte e da qualsiasi rischio di annientamento, durerà per sempre, acquisendo così una nuova dimensione temporale la cui topologia resta inattingibile anche alla visione profetica. L'avvento del <<mondo a venire>> comporterà la fine di una temporalità fatta di privazioni, di sforzi di realizzazione, di precarietà e di morte.

    L'era messianica, che precorre e annuncia la fine dei tempi, si colloca in un momento del futuro indefinito e imprevedibile: potrebbe essere molto vicina come incommensurabilmente lontana. In ogni caso la continua attesa del Messia incentra l'intera temporalità biblica sul futuro. Ed è proprio il netto predominio del futuro nell'orizzonte temporale a conferire direzionalità al tempo biblico: l'intera storia ha un senso, perché ha per metà finale l'avvento del regno di Dio.

    Del futuro corso della storia, tuttavia, si conosce solo l'esito finale, il punto di approdo, ma non l'esatta sequenza delle tappe e nemmeno la traiettoria del suo decorso. Anche se la realizzazione dell'esito finale, la salvezza, è garantita dal Creatore, l'uomo è chiamato ad un'alleanza con Dio, che lo impegna a cooperare attivamente per il raggiungimento della salvezza finale. Questa richiesta di cooperazione vuol dire che, a parte l'esito finale, il futuro è relativamente aperto, nel senso che il corso futuro della storia è affidato in parte alla libera e operativa collaborazione dell'uomo alla realizzazione del progetto di salvezza, inscritto nel tempo fin dal primo istante della creazione. In questo modo, all'atteggiamento contemplativo, implicato dalla temporalità ciclica dei Greci, la Bibbia contrappone un atteggiamento pratico operativo tendente alla trasformazione del mondo, fondato sull'idea che il futuro è ancora un testo da scrivere e non un libro già tutto scritto.

    Com'è facilmente deducibile da queste schematiche osservazioni, la topologia del tempo biblico rappresenta l'antitesi di quella ciclica. Nella Bibbia, infatti, è il futuro e non il passato ad avere il predominio nell'orizzonte temporale. Alla concezione greca dell'eternità del tempo il mondo ebraico contrappone una temporalità di durata finita, in cui il futuro - plasmabile dal lavoro e dall'azione dell'uomo e aperto ad accogliere novità, eventi unici ed irripetibili - contiene qualcosa di più del passato e può progredire verso la meta finale. Per l'Antico Testamento, in antitesi alla ciclicità greca, la salvezza non si trova nel tempo; non risiede in un'eternità intermittente fondata sul prolungamento all'infinito del tempo mediante la continua reiterazione dello stesso ciclo. Il tempo è solo il cammino progressivo verso la pace; la via che porta alla salvezza. Una via di lunghezza finita, perché Dio mantiene la Sua promessa.
     


    Note

    1. 1 Per rendersi conto di quanto la conoscenza del futuro sia stata al centro degli interessi delle civiltà antiche è sufficiente una rapida lettura del testo di G. PETTINATO, La scrittura celeste. La nascita dell'astrologia in Mesopotamia, Mondadori, Milano, 1998, pp. 29-56.
    2. 2 G. W. LEIBNIZ, Les principes de la nature et de la grace fondés en raison, par. 7 ( trad. it. G. W. LEIBNIZ, Monadologia, Rusconi, Milano, 1997, p. 47).
    3. 3 F. HOYLE, L'origine dell'universo e l'origine della religione, trad. it., Mondadori, Milano, 1998, p. 16.
    4. 4 E. du BOIS-REYMOND, I confini della conoscenza della natura, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1973, pp. 51-80.
    5. 5 E. HAECKEL, Les énigmes de l'univers, trad. franc., Schleicher Frères, Paris, 1902, p. 243 e pp. 51-80.
    6. 6 E. HARRISON, Le maschere dell'universo, trad. it., Rizzoli, Milano, 1989, p. 96.
    7. 7 ESIODO, Teogonia, 123-130.
    8. 8 K. von FRITZ, Le origini della scienza greca, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1988, p.22.
    9. 9 Questo blocco del regresso all'infinito verso qualcosa di ancor più originario viene definito da K. von FRITZ, op. cit., p. 22, una "forma di finitismo". Questa definizione tuttavia non è adeguata a rilevare che l'eternità del principio costituisce il blocco logico-ontologico di qualsiasi regresso all'infinito.
    10. 10 H. DIELS W: KRANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin, 1966,

    11. 7 B 1 ( trad. it. I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari, 1969). D'ora in poi faremo riferimento a questa opera con l'abituale sigla "DK" seguita dalla relativa numerazione delle testimonianze e dei frammenti dei presocratici.
    12. 11 IPPOCRATE, Morb. sacr., II, 41-46.
    13. 12 G. E. R. LLOYD, Metodi e problemi della scienza greca, trad. it., Laterza, Bari, 1993, p.745.
    14. 13 Cfr. W. JAEGER, Paideia, trad. it., La nuova Italia, Firenze, vol. I, p. 287.
    15. 14 W. JAEGER, op. cit., p. 302.
    16. 15 BLUMENBERG, La legittimità dell'età moderna, Trad. it., Marietti, Torino, p. 175.
    17. 16 Come è noto D. HUME, nel libro I, parte III, sez. XIV del Trattato sulla natura umana, trad. it., Laterza, Bari, 1978, pp. 169-193, mostrando l'indeducibilità logico-apriori dell'effetto dalla causa, evidenzia la fallacia naturalistica contenuta nell'identificazione del legame causale con il nesso di derivazione logica. L'eliminazione di questa fallacia non impedisce, però, di esprimere il nesso causale in termini di derivazione logica. Come attesta il modello nomologico deduttivo di spiegazione scientifica, le spiegazioni e previsioni della scienza non sono altro che deduzioni logiche ricavate da premesse esprimenti relazioni causali. Hume, insomma, ci dice semplicemente che la buona fisica non si fa a priori.
    18. 17 H. REICHENBACH, La filosofia dello spazio e del tempo, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 36-44, prendendo in considerazione esempi di variazioni olistiche di tutte le grandezze spaziali conclude che <<una espansione che concerna tutti i corpi allo stesso modo non è osservabile>>.
    19. 18 D. HUME, op. cit., lib. I, parte III , sez. VI.
    20. 19 La dialettica greca, da Hegel a Gadamer, è stata sempre considerata giustamente il cuore della razionalità filosofica. Tuttavia nessuno si è reso conto che essa poggia interamente su argomentazioni controfattuali. Anche senza affrontare i dialoghi di Platone, è sufficiente leggere i frammenti di Melisso (ad esempio, DK 30 B 7- 8) per scoprire che i condizionali controfattuali costituiscono lo spazio logico della dialettica. E' sicuramente giusto sottolineare il momento elenctico, tipico dell'argomentazione filosofica greca, ma senza un serio esame delle strutture controfattuali sottostanti sarà impossibile comprendere la vera natura della dialettica e della razionalità del mondo greco.
    21. 20 Per la mentalità greca i processi dissipativi hanno un valore meramente locale e non globale, riguardano cioè le singole sostanze, ma non la processulità cosmica nella sua interezza.
    22. 21 ARISTOTELE, Metaph., I 3, 983b 6-13.
    23. 22 K. von FRITZ, op. cit., p. 38.
    24. 23 Y. ELKANA, La scoperta della conservazione dell'energia, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1977, p. 13, sottolinea giustamente che la lunga storia attraverso cui emerge il moderno concetto di energia mostra quanto la scienza <<sia radicata nella metafisica>>, nel senso che fu proprio la <<fede nel principio che qualcosa si conserva in natura a condurre a quell'attività di creazione concettuale che sfociò infine nello sviluppo del concetto di energia>>. Ad Elkana sfugge, tuttavia, il fatto che è stato proprio il pensiero greco a fare delle proprietà conservative il quadro strutturale della scienza. Causalità e principi di conservazione costituiscono infatti il plesso inscindibile da cui nasce la mentalità scientifica. Le attuali critiche al concetto di causalità, provenienti soprattutto dalle interpretazioni della meccanica quantistica, sembrano dimenticare questo legame strutturale tra causalità e principi di conservazione. Dubito che possano valere ancora i principi di conservazione in una fisica che elimini la causalità, proclamando "la causalità impossibile".
    25. 24 Una delle condizioni di possibilità della conoscenza scientifica è data dal postulato che in natura non tutto è possibile: paradossalmente, un mondo in cui tutto fosse possibile renderebbe impossibile la scienza (cfr. L. CONTI, Possibilità realizzabili e potenzialità tecnologiche, in M. BALDINI (ed), L'uomo la tecnica e Dio, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna, 1994, pp. 63-73).
    26. 25 ARISTOTELE, Eth. nic., VI 2, 1139b 7-11.
    27. 26 Epitteto (cfr. W. C. KNEALE - M. KNEALE, Storia della logica, trad. it., Einaudi, Torino, 1972, p. 144 ) ci ha lasciato la seguente versione completa dell'argomentazione di Diodoro Crono: <<L'Argomento Dominante sembra sia stato formulato movendo da premesse come quelle che seguono. V'è un'incompatibilità tra le tre seguenti proposizioni: "ogni cosa, che è passata e vera, è necessaria", "l'impossibile non segue dal possibile", "Ciò che né è, né sarà, è possibile". In considerazione di questa incompatibilità Diodoro usò l'attendibilità delle prime due proposizioni per stabilire la tesi che è possibile solo ciò che o è vero, o sarà vero>>.
    28. 27 Cfr. P.-M. SCUHL, Le Dominateur et les possibles, Paris, 1960.
    29. 28 PLATONE, Timeo, 19 C - 26 E.
    30. 29 DK 12 B 1.
    31. 30 M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 307.
    32. 31 A. PICHOT, La nascita della scienza. Mesopotamia, Egitto, Grecia antica, trad. it., Edizioni Dedalo, Bari, 1993, p. 326.
    33. 32 Ch. MUGLER, Deux thèmes de la cosmologie grecque: devenir cyclique et pluralité des mondes, Librairie C. Klincksieck, Paris, 1953, p. 20. Lo studio più ampio su Anassimandro resta quello di Ch. H. KAHN, Anaximander and the origins of greek cosmology, Columbia University Press, 1960, tuttavia nel presente lavoro seguiremo soprattutto il lavoro di Mugler, verso ci riconosciamo profondamente debitori.
    34. 33 Cfr. MUGLER, op. cit., pp. 13-15.
    35. 34 DK 12 A 11.
    36. 35 DK 12 A 10, 11, 12.
    37. 36 DK 12 A 10. Anassimandro, a quanto tramanda Plutarco, sostenne che l'uomo da principio fu generato da altre specie viventi, perché <<mentre gli altri viventi si nutrono subito da sé, solo l'uomo ha bisogno per molto tempodelle cure della nutrice: ora (ecco l'argomentazione controfattuale) se all'inizio fosse stato tale[com'è adesso] non avrebbe potuto sopravvivere>>.
    38. 37 MUGLER, op. cit., p. 20.
    39. 38 Ibidem.
    40. 39 DK 28 B 8.
    41. 40 MUGLER, op. cit., p. 16.
    42. 41 M. ELIADE, Il mito dell'eterno ritorno, trad. it., Borla, Torino, 1966, p. 70.
    43. 42 M. ELIADE, op. cit., p. 159. A proposito delle differenze fra tempo statico e tempo dinamico cfr. L. CONTI, Teilhard de Chardin e la prevedibilità del fenomeno evolutivo, in <<Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia>> Università degli Studi di Perugia, vol. XXXII, pp. 341- 402, L. CONTI, Il tempo e il problema del futuro, in G. BONOMI (ed.), Il tempo. Scienza, cultura ed educazione, Irrsae Umbria, Città di Castello, 1999, pp. 117-139.
    44. 43 P. DAVIES, Gli ultimi tre minuti, trad. it., Sansoni, Firenze, 1995, p. 146.
    45. 44 EPICURO, Ep. ad Men., 133-134.
    46. 45 In senso rigoroso dell'esistenza di Dio non si dà dimostrazione vera e propria, perché dimostrare significa dedurre una conclusione da premesse. Ma un Dio la cui esistenza dipendesse da premesse non sarebbe più il Dio incondizionato e assoluto. Se proprio si vuol parlare di prove dell'esistenza di Dio, allora bisogna dire che la semplice esistenza di qualcosa è l'autentica prova dell'esistenza di Dio. In realtà, il vero problema non è l'esistenza di Dio, ma Chi è Dio. L'autentico problema filosofico consiste infatti nell'alternativa fra immanentismo e trascendenza: Dio è un Essere trascendente il mondo o non è altro che l'universo stesso nella sua globalità? Molto spesso si scambia l'ateismo con l'immanentismo, cioè con le divinizzazioni del mondo o di qualche aspetto della realtà fisica. La stessa molteplicità di forme di religiosità, in generale, attesta che la questione cruciale non riguarda l'esistenza di Dio, ammessa da quasi tutte le religioni, ma Chi e Dio. Il compito proprio della filosofia consiste nel mostrare dialetticamente (controfattualisticamente) l'aporeticità delle sempre ricorrenti tentazioni idolatriche di divinizzazione del mondo.
    47. 46 DK 22 B 30.
    48. 47 L'eternità come perenne durata atemporale (aion) è chiaramente definita da Parmenide (DK 28

    49. B 8) da Platone (Tim, 37 e) e da Aristotele (Phys. IV 12, 221b 3).
    50. 48 PLATONE, Tim., 37 D.
    51. 49 Cfr. 2Mac 7,28.
    52. 50 Sul fatto che <<non c'è posto nella coscienza umana per l'esperienza dell'inizio>> ha insistito giustamente P. GIBERT, Bibbia, miti e racconti dell'inizio, trad. it., Queriniana, Brescia, 1993, pp. 27-44. Per inquadrare in via preliminare i problemi sollevati dall'interpretazione dei primi capitoli della Genesi cfr. E. van WOLDE, Racconti dell'inizio. Genesi 1-11 e altri racconti di creazione, trad. it., Queriniana, Brescia, 1999; I. ASIMOV, In principio. Il libro della Genesi interpretato alla luce della scienza, trad. it., Milano, 1997.
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    Lino Conti è nato a Città di Castello, nel 1947. Insegna "Storia del pensiero scientifico" presso l'Università di Perugia. Ha svolto attività didattica e di ricerca presso l'Università di Padova. Si occupa di tematiche concernenti la storia e la filosofia della scienza, con particolare riferimento alla nascita della scienza moderna (Galilei). Tra i saggi pubblicati: I no della scienza (1982); Giuseppe Neri un matematico aristotelico (1990); Il cuore dal circolo cosmico al trapianto (1997); Dio e le dinamiche della natura (1997).

    E-mail: contibor@tiscalinet.it