La doppia anima del Cristianesimo

(Mario Smargiassi)

 

L'ipotesi di una doppia anima del cristianesimo primitivo, ovvero di una polarizzazione del primo dibattito cristologico attorno a due opposte interpretazioni della missione storica di Gesù, mi pare la più plausibile per spiegare le numerose oscillazioni e contraddizioni che emergono da una lettura, anche superficiale, dei testi evangelici. Queste contraddizioni, ad una prima analisi davvero sconcertanti, appaiono in diversa luce se dislocate in un ambito evolutivo e diacronico, se cioè nel loro insorgere si ravvisano le dinamiche conflittuali di una comunità religiosa che tentava faticosamente di ridisegnarsi e riorganizzarsi dopo i tragici avvenimenti del 70 d.C. Il cristianesimo come dottrina della salvezza di tutti gli uomini non sarebbe allora l'autentico nucleo della predicazione del Gesù storico, che non aveva alcuna intenzione di fondare una religione extragiudaica e che, in modo del tutto coerente, affermava di essere venuto soltanto per le "pecore perdute della casa di Israele".

L'impressione tratta dai miei primi studi sulle origini del cristianesimo è che più ci avviciniamo al Gesù della storia, più risulta sfocata ed improbabile l'immagine del predicatore pacifico, apolitico, filo-romano, anti-ebreo che la tradizione ecclesiastica ha consolidato lungo i secoli e che tuttora splende incontrastata nella mente di moltissimi credenti e non-credenti. Paradossalmente, i risultati dell'indagine storica sulla figura di Cristo conducono ad una erosione delle differenze che tradizionalmente hanno diviso la fede di ebrei e cristiani: non nel senso, puramente apologetico, di un superamento-inveramento, di una Aufhebung, per cui il cristianesimo sarebbe la verità più profonda dell'ebraismo, il compimento delle promesse dell'ebraismo; ma nel senso, assai meno rassicurante per i cristiani, di una totale e consapevole appartenenza di Gesù Cristo alle proprie radici giudaiche.

Gesù era ebreo e tale voleva restare; il "regno di Dio" che egli intendeva stabilire tra gli uomini era, con ogni probabilità, un regno di questo mondo. Fin dai primi decenni di vita del cristianesimo, l'appello di Gesù alla preparazione del "regno" è stato rimodellato nelle sue linee essenziali, cioè privato della pungente ed inequivocabile accezione politica che originariamente possedeva, e interpretato in termini puramente spirituali e trascendenti. Del resto, è estremamente significativo il fatto che gli stessi Vangeli canonici, per molti aspetti frutto del revisionismo paolino, manifestino le tracce indelebili della dimensione messianico-politica della predicazione di Gesù (l'interesse per la questione del tributo, la presenza di combattenti zeloti nella cerchia degli apostoli, l'episodio della "purificazione del tempio", la condanna a morte per sedizione, la crocifissione, ecc.).

Questi elementi attraversano come un filo rosso la narrazione evangelica e sconfessano patentemente la diffusa convinzione secondo la quale Gesù avrebbe compiuto la propria missione storica in una sovrana indifferenza rispetto ai fermenti politici del suo tempo, chiudendo gli occhi sulla situazione reale del suo popolo, o addirittura santificando il giogo dell'oppressione romana con la dottrina dell' "amore per il nemico". E' assai più probabile, come molti studiosi hanno fatto notare, che i capisaldi di questa celebre dottrina siano stati elaborati da Paolo, che non era affatto interessato alla concreta figura storica di Gesù, ma al Cristo eterno e trascendente, paradigma della parola divina, redentore dell'umanità intera, estraneo alle vicende particolari che punteggiano la storia dei popoli e decidono del loro destino terreno.

Questo Cristo paolino, divinizzato e degiudaizzato, quindi lontanissimo dal Gesù condannato a morte da Pilato e crocifisso come "re dei Giudei", era l'incarnazione di tensioni ed esigenze profonde che la catastrofe del 70 d.C. avrebbe ulteriormente radicalizzato e condotto ad una soglia critica. Il lento tramonto delle prospettive di liberazione dal dominio romano giocò in favore della riforma paolina e, con la scomparsa della Chiesa di Gerusalemme, che rappresentava per così dire l'anima giudaica del cristianesimo primitivo, cioè quella più vicina al Gesù storico, la nuova immagine di Gesù divenne sempre più vincolante ed "autentica". La storia, com'è noto, è scritta dai vincitori. Il cristianesimo riformato di Paolo è il cristianesimo che ha vinto la lotta per l'esistenza, è la forma di cristianesimo che la storia ha selezionato e trasmesso fino ai nostri giorni, nonostante tutte gli scismi, le divisioni, le eresie che ne hanno segnato il cammino.

Senza potermi ora addentrare nella ricerca delle cause di questo successo, vorrei proporre un'ipotesi: il cristianesimo paolino è sopravvissuto alle tempeste della storia non tanto per la sublimità dei valori che incarnava, quanto per l'estrema indeterminatezza dei contorni della sua dottrina, una indeterminatezza che ha significato flessibilità ed adattabilità del messaggio al mutare delle situazioni economiche, politiche e sociali. Solo al prezzo di questo "principio di indeterminazione" il cristianesimo avrebbe potuto sopravvivere nelle difficili congiunture storiche che, di volta in volta, ha dovuto affrontare; configurandosi, di volta in volta, come religione dei martiri o degli imperatori, dei re taumaturghi o dei giacobini, del socialismo popolare o del capitalismo selvaggio, della teocrazia politica o della secolarizzazione tecnologica.

Non bisogna passare sotto silenzio, poi, la frequente riscoperta degli aspetti "militaristici" della missione di Gesù in situazioni contingenti di pericolo per la Chiesa: in tali circostanze, non è stato certo l'amore per il nemico a proteggere i vecchi equilibri dalla minaccia di dissoluzione; semmai, è stata la pura e semplice volontà di potenza, talvolta esercitata in modo brutale. Una volontà di potenza che, attualmente, appare sopita o che, quantomeno, percorre strade meno violente ed autoritarie; ma ciò avviene proprio perché minori sono i pericoli per la stabilità complessiva della Chiesa.

Oggi, l'Occidente sembra un cimitero di ideologie e il cristianesimo è di fatto l'ultima grande "ideologia" capace di infiltrarsi con successo nelle maglie della società capitalistica matura e di costituire anche (ma fino a che punto?) un'alternativa, adombrando una prospettiva di trascendenza e di salvezza nel macrocosmo di una civiltà tecnologica alle prese con problemi ed inquietudini che nascono dal suo stesso cuore.

 

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