ET IN ARCADIA EGO

Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri

di Guercino e Poussin

Parte Seconda - Poussin


 
 

3. I pastori d'Arcadia I

Il primo dipinto che Nicolas Poussin dedicò alla scritta epigrafica in questione è un olio su tela di cm. 101 x 82, eseguito pare intorno al 1629-30, ora alla Devonshire Collection a Chatsworth.
 
 


 




Stando agli storici dell'arte, l'ispirazione gli sarebbe venuta dall'aver visto il quadro di Guercino, quadro che all'epoca si trovava già a Roma. A nostro avviso il fatto che egli abbia ripreso l'enigmatica epigrafe può voler dire una sola cosa: egli ne aveva compreso - o creduto di comprendere - il significato. Se è così, il suo quadro deve in qualche modo esprimere questa comprensione, esibendo un significato almeno contiguo a quello del quadro di Guercino.

E tuttavia la scena che presenta è quasi totalmente diversa.

Il cranio è ancora visibile, posato però sopra un sepolcro scolpito nella parete stessa di un monte, dimodoché l'epigrafe incisa su uno dei suoi lati si offre, questa volta, non solo allo sguardo dello spettatore ma anche a quello di tre personaggi, una donna e due uomini, uno dei quali - con espressione tra il sorpreso e l'attento - ne sta accompagnando la lettura con l'indice della destra, fermo per sempre alla lettera D.

Sembra abbastanza certo che il vecchio seduto, intento a versare da un orcio acqua che forma un ruscello, rappresenti il fiume Alfeo: ma chi sono gli altri tre personaggi? Noi dubitiamo fortemente che si tratti - come vorrebbe la tradizione - di pastori, quando questo appellativo venga preso in senso letterale. Che la tomba sia incastonata nella parete di una montagna, è a nostro avviso la traduzione in immagini del nome Oreste: in Greco Oréstes vale appunto "montanaro", cioè "che abita in un luogo alto". Ora, se la tomba è quella di Oreste, il fatto che essa sia ancora perfettamente conservata, allo scoperto, ci suggerisce che la scena raffigurata nel quadro si svolge in un periodo storico anteriore a quello in cui ha luogo la vicenda narrata da Erodoto, un periodo probabilmente non molto lontano dalla data di morte dell'eroe. Un'altra cosa che ci colpisce è l'atteggiamento artificioso della donna che, oltre ad esibire una scollatura che le lascia scoperto un seno, tiene il leggero chitone di cui è vestita ostentatamente sollevato a scoprire la coscia destra. Non possiamo non constatare che questa figura femminile rispecchia esattamente i caratteri che la letteratura classica attribuisce ad Ermione, moglie di Oreste: le spartane erano note per indossare abiti assai succinti. Plutarco, parlando della "legislazione di Licurgo, che lasciava una libertà totale e sconveniente per le donne", cita Ibico che chiama le spartane "mostracosce". Euripide le descrive "discinte, con le cosce nude" e Sofocle parla proprio di "Ermione la giovane, la cui veste non ricopre, e si apre sulla coscia nuda".

Ora, se la donna è la moglie - o meglio, la vedova di Oreste - perché i due personaggi maschili non potrebbero essere gli altri due protagonisti di questo mito, ossia il figlio dell'eroe, Tisameno, e l'inseparabile compagno di tutte le sue avventure, Pilade? In effetti, la figura maschile vicina ad Ermione, più pingue e dalla muscolatura meno tonica dell'altra, sembra denunciare un'età più avanzata. Così, da sinistra verso destra, identifichiamo i personaggi come Ermione, Pilade, Tisameno ed Alfeo.

Di conseguenza, la scena comincia ad assumere un significato preciso: la famiglia dell'illustre defunto, in visita alla sua sepoltura, si accorge con sorpresa che qualcun altro è passato di là, lasciando dietro di sé - quale testimonianza del suo passaggio - l'enigmatica epigrafe. Questa è secondo noi la ragione per cui, nel quadro di Poussin, essa non è più riservata ai soli spettatori, ma è esplicitamente e innanzitutto offerta all'attenzione dei personaggi raffigurati.

Occorre qui sottolineare il ruolo che svolge Alfeo, figura a sé stante nella composizione: fiume d'Arcadia carsico, che per lunghi tratti svanisce sottoterra per poi riapparire alla luce del sole in luoghi assai distanti dal suo inabissamento, ai tempi di Poussin era spesso impiegato per rappresentare la permanenza della trasmissione di una tradizione segreta. In accordo con questo significato, Alfeo volge il dorso agli spettatori, non si fa vedere in faccia. Inoltre, esso porta l'alloro dell'immortalità accordata a una tradizione che sempre scompare e sempre riaffiora.

Si può così cominciare a gustare la sottigliezza dell'inventio poussiniana: avevamo detto che, riprendendo l'epigrafe, nel suo dipinto Poussin avrebbe dovuto cifrare la propria decifrazione dell'enigma guerciniano, in quanto doveva far sapere - a chi già sapeva - che sapeva anch'egli, pur senza che chi non sapeva capisse.

Ora, ci pare che egli abbia conseguito il suo scopo in modo splendido: ben lungi dal plagiare il soggetto di Guercino, egli ne riprende solo la misteriosa epigrafe situandola in un contesto temporale affatto diverso ma assolutamente congruente: conformemente al classicismo del pittore, la scena si sposta da quella della storia erodotea a quella del mito, talché, con l'epigrafe, è ora Poussin stesso che si rivolge non solo agli spettatori, ma ai protagonisti stessi del mito, informandoli che anche lui - Poussin - è in Arcadia, anche lui è a conoscenza della tradizione segreta che il quadro di Guercino cifrava. Un po' - diremmo - alla maniera del turista che lascia sul monumento archeologico la traccia graffita del proprio passaggio.

Abbiamo dunque visto che il significato letterale del quadro è relativo al mito di Oreste, in cui al contempo si cifra nuovamente una decifrazione. Il quesito che ora ci si presenta è il seguente: è possibile che ciò si estenda anche al significato allegorico del quadro di Guercino, ossia all'alchimia?

Occorre ora che menzioniamo una lettera - considerata inspiegabile - che l'abate Louis Fouquet scrisse dall'Italia, il 17 aprile 1656, a suo fratello Nicolas, il famoso e fastoso sovrintendente alle finanze di Luigi XIV, dopo aver reso visita a Poussin a Roma (Archives de l'art français, 2e série, 1862, p.266s):

"Non potreste credere, Signore, né le fatiche che si sobbarca per il vostro servizio, né l'affetto con cui lo fa, né il merito e la probità che mette in ogni cosa.

Lui e io abbiamo progettato certe cose nel merito delle quali potrei intrattenervi a fondo tra poco tempo, che vi daranno - attraverso il Signor Poussin - dei vantaggi (se voi non vorrete disprezzarli) che i re durerebbero molta fatica ad ottenere da lui e che, dopo di lui, nessuno al mondo scoprirà mai nei secoli a venire; e quel che più conta, ciò sarebbe senza molte spese e potrebbe perfino tornare a profitto, e si tratta di cose da ricercare così fortemente che nessuno oggi sulla terra può avere una fortuna migliore e forse neppure eguale".

Qualcuno ha creduto che il grande e raro segreto a conoscenza di Poussin riguardasse l'ubicazione di un sito archeologico all'epoca ancora sconosciuto: tuttavia questa ipotesi, per quanto plausibile, non ci pare affatto adeguata all'enfasi delle parole di Fouquet. Riteniamo improbabile che, nel fervore di scavi caratteristico dell'epoca, si potesse pensare che la sua ubicazione non sarebbe mai più stata scoperta nei secoli a venire. Al contrario, la descrizione di Fouquet si attaglierebbe benissimo a quello che, all'epoca, era indicato come "il massimo segreto ermetico".

Infatti un'opera del suo carissimo amico Félibien, ossia Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes avec la vie des architectes, nel dialogo che verte su Poussin, introduce un personaggio che un libello d'arte - interamente curato da uno dei massimi specialisti mondiali dell'opera poussiniana, che non menziono per pudore - definisce, in modo assai simile a certe informative dei carabinieri, "un amico, tale <<Pymandre>>". Poiché non bisogna mai lasciarsi scappare l'occasione di ridere, vale la pena riportare il brano per intero.

"Come è noto, il testo dal quale è tratto il presente brano è un dialogo fra l'autore, André Felibien, e un amico, tale <<Pymandre>>".

Un amico, tale <<Pymandre>>! Non capiremo mai come sia possibile che qualcuno possa considerarsi o esser considerato specialista di qualsivoglia autore del passato, sia esso uomo di lettere, pittore, scienziato o filosofo, senza minimamente conoscere la cultura di cui quegli si è nutrito e in cui ha operato. Ma noi, naturalmente, siamo solo poveri amateurs, e non possiamo avere idea di tutti i sottili sentieri che portano al conseguimento di una vera competenza. Tuttavia ci sia concesso di segnalare che, nel nostro povero, rozzo e approssimativo mondo amatoriale, "Pymandre" è la francesizzazione del titolo - e del nome del protagonista - di uno dei dialoghi attribuiti a Ermete Trismegisto e contenuti nel famosissimo - ma solo nel nostro mondo, si capisce! - Corpus Hermeticum, portato in Italia da un monaco macedone e tradotto, nel 1460, da Marsilio Ficino. Ora, riteniamo abbastanza difficile che Félibien potesse considerare Pimandro un amico in senso letterale, visto che sapeva bene - al contrario del nostro specialista - trattarsi della manifestazione sensibile del Nous supremo.

Più probabile è che si riferisse al fatto che Poussin, uomo straordinariamente erudito, aveva strettissime frequentazioni con personaggi quali Lorenzo Pignoria, Gerolamo Aleandro e - soprattutto - Athanasius Kircher, tutti gesuiti. Sentiamo ora cosa ci dice a loro proposito Paola Santucci, nel suo ottimo Poussin: tradizione ermetica e classicismo gesuita (Cooperativa Editrice 10/17, Salerno, 1985, p. 23):

"Costoro si erano resi divulgatori di quella particolare tradizione, già accolta e tramandata da Marsilio Ficino e dai dotti umanisti della fine del '400, che faceva capo allo studio degli Hermetica, cioè di quei testi attribuiti al mitico filosofo egiziano Ermete Trismegisto e che venivano considerati espressione della prisca theologia, di una conoscenza divina più antica dello stesso Mosè".

E aggiunge (p. 32):

"Poussin dunque aderì alla teosofia ermetica e di questa egli colse soprattutto l'aspetto relativo all'identità di tutti gli dei in un'unica divinità. Era la stessa tesi propugnata dai gesuiti contemporanei per i quali la diffusione del sincretismo in chiave cristiana fu compito primario poiché il momento storico richiedeva uno strumento valido per la evangelizzazione dei popoli extra-auropei. Fu forse su questa base di affinità ideologica ed intellettuale che Poussin strinse i suoi rapporti con i rappresentanti della Società".

Félibien stesso - suo contemporaneo e grande amico - mette dunque Poussin sotto il segno di Ermete Trismegisto, con buona pace di interpreti prestigiosi come il curatore dell'edizione italiana delle sue lettere, docente di filosofia presso la Carnegie Mellon University e autore - davvero non si capisce perché - di diversi libri sulla storia dell'arte moderna e contemporanea, che invece tratta il problema nel modo seguente:

"Soltanto un lettore che creda a priori che Poussin dipingesse soggetti esoterici seguirà Blunt concludendo che quando Poussin usa il vocabolo francese <<délectation>> si riferisca all'affermazione di S. Agostino secondo il quale la <<delectatio>>, nel suo senso corretto di delectatio boni, conduce alla beatitudine ed è perciò uno dei mezzi che portano all'unione con il divino. Qui si entra nel famoso circolo ermeneutico. Il lettore che consideri Poussin un pittore-filosofo ermetico estremamente erudito, leggerà queste lettere preparato a trovarvi alllusioni a sottili dottrine; coloro che invece considerano in modo più semplice la sua personalità artistica, riterranno esagerata una tale lettura dei suoi testi. E' stato osservato che l'allegorista può diventare simile al nevrotico affetto da ossessioni maniacali, portato a leggere ogni cosa in termini personali. Ma non spingiamoci troppo oltre".

Infatti, di fronte a tale sfoggio di equilibrata saggezza empirico-nordamericana, cosa conta la testimonianza diretta ed esplicita di uno dei più intimi sodali del pittore?

Tuttavia, noi non pensiamo che l'iniziazione di Poussin all'ermetismo risalga ai suoi contatti con l'ambiente gesuita, quanto piuttosto al suo incontro - giovanile e parigino - con uno dei massimi poeti dell'epoca, ossia il cavalier Marino. I possibili aspetti esoterici dell'opera di Marino non sono affatto studiati, tuttavia si è recentemente affacciato almeno un sospetto, segnatamente ad opera di Cesare Vasoli nel suo L'ermetismo a Venezia (in AA. VV., L'ermetismo nell'antichità e nel rinascimento, Nuovi Orizzonti, Milano, 1998, p. 132-133):

"E, senza dubbio, se si affrontassero le ricerche, del resto, già affrontate, con ottimi risultati, nei confronti di personalità artistiche, come Jacopo Sansovino e Sebastiano Serlio, letterarie, come il Marino, o musicali, come Fabio Paolini o Gioseppo Zarlino, già studiati dal Walker, o gli autori delle grandi compilazioni enciclopediche della fine del Cinquecento o della prima metà del Seicento, si potrebbero scoprire indicazioni non meno utili sul ruolo svolto dallo Zorzi nell'assicurare la continuità di un "topos", appunto, l'"armonia del mondo", che affascinò il giovane Descartes degli Olympica, e che può condurre addirittura a talune celeberrime pagine di Leibniz".

Secondo noi è proprio attraverso il suo primo mentore, Giambattista Marino, che la tradizione ermetica preservata e rilanciata dallo Zorzi - come abbiamo visto già influente nella precedente parte relativa al Guercino - giunge fino a Poussin, prima ancora che egli la ritrovi nel circolo gesuitico della capitale.

E' difficile avere una nozione esatta delle conoscenze di Poussin in materia di ermetismo, a causa dell'estrema riservatezza da lui sempre dimostrata persino nella corrispondenza personale. Le sue lettere sono tuttavia piene di riferimenti a conoscenze segrete, come il brano seguente che varrà da unico esempio (a Chanteloup, 7 aprile 1647):

"Vi potrei dire cose su quest'argomento, che sono molto vere ma sconosciute a tutti. Bisogna dunque passarle sotto silenzio".

E tuttavia almeno una sua lettera - quella del 25 novembre 1658 a Chanteloup - contiene un riferimento, laconico ma preciso, a un aspetto operativo dell'alchimia a noi già ben noto:

"Vi ho promesso di spiegare i parerga che sono in fondo all'ultimo quadro che vi ho fatto.

Ecco quel che è.

Una processione di sacerdoti, dalle teste rasate e coronate d'alloro, vestiti nel loro modo con tamburini, flauti e trombe, e sparvieri sui bastoni. Quelli che sono sotto il portico portano la cassa, contrassegnata Sero Apin, in cui erano racchiuse le reliquie e le ossa di Serapide loro dio, al tempio del quale si incamminano. Il restante che appare dietro quella donna vestita di giallo, non è altro che un edificio costituito per il riposo dell'uccello ibis, che là è rappresentato, e quella torre, che ha il tetto concavo, con quel gran vaso per raccogliere la rugiada...".

Se si ha presente quanto abbiamo documentato nella prima parte rispetto al ruolo svolto dalla rugiada nell'Opera alchemica, il riferimento poussiniano non può non risultare assai significativo.

Non dimentichiamo che il seicento è il secolo di maggior fulgore dell'alchimia tradizionale, quello che vedrà esplodere il fenomeno dei Rosacroce, del cui bagaglio culturale questa disciplina faceva necessariamente parte.

Ora, nonostante le palesi e notevoli differenze rispetto al dipinto di Guercino - la moltiplicazione dei personaggi e dei colori degli abiti, nonché la profonda diversità nell'architettura - è possibile mostrare che esso allegorizza i medesimi aspetti dell'operatività alchemica.

Come abbiamo scritto, Poussin deve trovare un modo diverso da Guercino per riferirsi alla medesima fase del lavoro alchemico. Per comprendere quale sia, dobbiamo ora ricordare che le varie fasi dell'Opera alchemica erano spesso anche presentate come episodi di un dramma in cui i materiali canonici interpretavano il ruoli dei princìpi - mercurio, solfo e sale - o degli elementi - aria, acqua, terra, fuoco - della fisica teorica del tempo.

Così, dai colori dei loro abiti possiamo dedurre che in questo caso i personaggi del dipinto - tranne Alfeo che gioca un ruolo a sé, come dimostra anche la sua posizione appartata - impersonano proprio gli elementi: l'abito bianco di Ermione ne fa una rappresentazione dell'aria, come quello blu di Pilade e quello arancione di Tisameno ci rinviano rispettivamente all'acqua e al fuoco. La terra, cioè Oreste, giace nel sepolcro: Poussin esprime dunque in altri termini la stessa fase operativa che era oggetto del precedente quadro del Guercino.

Infatti, seguendo la diversa terminologia simbolica adottata da Poussin, si può dire che l'esito della Prima Opera consiste nel fatto che l'aria si unisce all'acqua, mentre il fuoco alla terra. In particolare, terra e fuoco vengono chiusi insieme nel sepolcro, come non manca di segnalarci Janus Lacinus nel suo Margarita pretiosa pubblicato a Venezia nel 1546:

"Nella quinta casa il figlio pensava di gettare suo padre nella tomba e di lasciarvelo ma (per mezzo della nostra arte) vi sono posti entrambi".

Questa idea è espressa da Poussin nella sequenza spaziale delle figure: aria e acqua sono contigui, così come fuoco e terra che - proprio come nel brano di Lacinus - sono figlio e padre.

Quindi - come abbiamo detto nella parte relativa a Guercino - occorre che il fuoco venga recuperato dalla massa del caput mortuum con un'operazione apposita e che poi anche la terra venga "rigenerata" o "resuscitata" con un'altra operazione particolare.

Il cranio posto sopra il sepolcro ci dice poi che la prima delle due operazioni è già stata compiuta, ossia che il fuoco salino - il "sale mirabile" di Sabine Stuart de Chevalier - è già stato estratto dal caput, ed è per questa ragione che Tisameno, che lo impersona, è visibile all'esterno della tomba e porta la corona della rigenerazione. Questo cranio appoggiato sul sepolcro ha lo stesso significato dello scheletro ritto in piedi sulla bara nell'illustrazione delle Dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino, riprodotta nella prima parte, come pure dell'immagine della Pretiosa margarita di Lacinus, che riproduciamo qui sotto con il suo commento:
 
 

"Nella nona casa le ossa sono tolte dalla tomba.

Ciò si produce quando tutto il corpo è stato

dissolto con soluzioni successive:

fatto questo, conservatele accuratamente".


 


Nel secolo seguente, che vedrà esplodere il fenomeno Massoneria, lo stesso concetto sarà espresso dal "mak benak" del magistero massonico: "La carne si stacca dalle ossa".

Con quale mezzo ciò si sia potuto ottenere è Tisameno stesso a mostrarcelo, per il fatto che il suo dito indica senza possibilità di equivoco la lettera D. Questo gesto ci dà la certezza che Poussin conosceva la tecnica operativa dell'alchimia altrettanto bene che Guercino.

Conformemente al sincretismo allora vigente in ambito ermetico - consolidato dai kabbalisti cristiani fin dai tempi di Pico della Mirandola e di cui si può vedere un esempio nel De occulta philosophia di Enrico Cornelio Agrippa - la lettera latina D era considerata strettamente equivalente alla greca D (delta) nonché all'ebraica d (daleth), sicché l'interpretazione mistica delle lettere ebraiche, come è per esempio contenuta nel Sephèr Jetziràh, veniva comunemente estesa anche agli altri alfabeti. In particolare, la daleth era collegata kabbalisticamente tanto con il numero 4 quanto con il pianeta Giove. Erano tempi in cui ci si compiaceva di trovare significati supplementari e segreti nel fatto che la greca delta aveva la forma di un triangolo rivolto verso l'alto, che era anche il simbolo spagirico del fuoco, e che il numero 4 aveva la medesima forma del simbolo astrologico di Giove:    . Ora, Paola Santucci, nel libro già citato (p. 77-78), ci ricorda in modo assai pertinente quanto segue:

"Nel dipinto di Poussin Apollo, cioè il Sole, simboleggia l'anima del mondo; Giove, cioè il cielo, il suo spiritus e le ninfe, cioè la terra, il suo corpo, analogie che si ritrovano anche in Campanella. Ma a questo punto va ricordato che anche Ermete Trismegisto nell'Asclepius aveva affermato che il reggitore del cielo è Giove e, tramite il cielo, egli dispensava la vita a tutti gli esseri. Giove - affermava il filosofo egiziano - è dio dell'aria o spiritus mundi ed occupa un luogo intermedio tra la terra e il cielo".

Se ora ricordiamo la frase - citata nella prima parte - di Limojon de Saint Didier sulle virtù dell'"acqua celeste", così come quella di Sabine Stuart de Chevalier sul fatto che "la vita e la salute sono contenute nello spirito universale" e che "l'unica fomentazione è contenuta nel mare universale", riusciamo anche a cogliere tutta la pertinenza del riferimento poussiniano alla lettera D: la sfera di Giove è questo stesso "mare universale", cioè l'aria, allora considerata piena degli influssi del sole, della luna e degli astri, la cui azione si riteneva necessaria per recuperare il "fuoco salino" dal caput mortuum.

Abbiamo dunque visto come il significato letterale del quadro si discosti da quello del Guercino pur interagendovi strettamente, e come tuttavia quello allegorico si riferisca alla medesima fase dell'Opera Ermetica da lui cifrata.

A proposito del significato morale, dobbiamo dire che anch'esso - come quello letterale - si discosta sensibilmente da quello dell'opera guerciniana: qui non si tratta affatto della carità ma di tutt'altro.

Un uomo come Poussin, ossessionato dall'idea di risalire all'origine della prisca theologia, doveva aver letto con particolare emozione la seguente frase tratta dal Crater hermetis, quarto trattato del Corpus hermeticum:

"A partire da questo principio, vediamo dunque di chiarire brevemente la strada del bene. Si tratta di una via tortuosa, che consiste nell'abbandonare le cose familiari e presenti, per risalire verso le antiche e primordiali".

Questa coincidenza del bene con l'origine fornisce a nostro avviso la chiave morale del quadro, conformemente tanto al fatto che la scena si svolge alle fonti dell'Alfeo, all'origine della tradizione segreta.

Per quanto riguarda infine il senso anagogico esso è palesemente lo stesso del quadro di Guercino, per cui rinviamo a quanto ne abbiamo scritto nella prima parte.

4. I pastori d'Arcadia II

Circa dieci anni dopo, pare intorno al 1638-39, forse anche più tardi, Poussin sente il bisogno di tornare sul soggetto. Da quella prova giovanile è passato parecchio tempo: nella sua frequentazione dell'ambiente libertino come di quello gesuita il pittore ha acquisito competenza e cultura: il suo lavoro di ritorno alle fonti se è ancora lungi dall'esser compiuto, è senz'altro assai più avanzato.
 
 


 


Infatti, rispetto all'opera precedente, i cambiamenti sono rilevanti. Intanto, il sepolcro non è più iscritto nella parete di un monte ma posto in un luogo pianeggiante. Il cranio è scomparso. Ci sono ancora tre figure maschili e una femminile, ma questa volta tutti i personaggi sono coinvolti nella medesima azione: non c'è qui nessun Alfeo che se ne sta appartato. Ritroviamo ancora i colori simbolici degli elementi: bianco per l'aria, blu per l'acqua e rosso - in luogo dell'arancione del quadro precedente - per il fuoco; tuttavia uno dei personaggi, ossia l'imponente signora che domina la composizione, nel suo ricco abbigliamento li riveste tutti. Le uniche cose rimaste immutate sono il sepolcro e l'iscrizione epigrafica, entrambe cose che testimoniano del fatto che tra il quadro presente e quello precedente vi è senz'altro un legame.

Poussin dunque ha qualcosa da aggiungere al discorso svolto nel suo primo lavoro, ma che cosa?

Secondo noi, egli doveva aver avuto modo di considerare che la tradizione cui si riferiva non era nata in Arcadia, e che dunque nel suo primo quadro egli aveva solo creduto di indicarne l'origine. Infatti, crediamo poco probabile che abbia ignorato il seguente brano, anch'esso tratto dalle Storie di Erodoto:

"170. Anche la tomba di colui che non considero pio nominare in tale circostanza si trova a Sais, nel santuario di Atena, alle spalle del tempio, contiguo a tutta la parete del tempio di Atena. [2] E nel recinto sacro ci sono grandi obelischi di pietra, e vicino c'è un lago ornato da un margine di pietra ben costruito di forma circolare, e per dimensioni, a quanto mi parve, grande quanto il lago chiamato Trocoide a Delo.

171. Su questo lago celebrano di notte le rappresentazioni della passione di lui, che gli Egiziani chiamano Misteri. Ma intorno ad essi, pur conoscendo io con più esattezza come ciascun rito si svolge, conserverò un religioso silenzio. [2] Ed anche riguardo all'iniziazione ai misteri di Demetra, che i Greci chiamano Tesmoforie, anche riguardo a questo ch'io mantenga il silenzio, tranne per quanto di essa è lecito dire. [3] Le figlie di Danao furono quelle che portarono questa cerimonia sacra dall'Egitto e la insegnarono alle donne pelasgiche; più tardi poi, essendo stata tutta la popolazione del Peloponneso scacciata dai Dori, il rito andò perduto, e solo quelli dei Peloponnesiaci che rimasero superstiti e che non si trasferirono, gli Arcadi, lo conservarono".

Dunque, dopotutto, c'è un capitolo preliminare alla tradizione arcadica, e questo capitolo è egizio. Siamo in un'epoca in cui il sincretismo alessandrino viene pienamente ripreso e - se possibile - ulteriormente sviluppato: Oreste che muore per il morso di un serpente è Dioniso sbranato dai Titani ed è Osiride ucciso da Set. Nel secolo seguente - come abbiamo detto, secolo massonico - tutti questi diversi eroi e dei lasceranno il posto ad Hiram il cui nome, curiosamente, in ebraico ha lo stesso significato che quello di Oreste in greco: "colui che risiede in alto".

Infatti non comprendiamo come generazioni di studiosi abbiano potuto continuare a considerare la dama del dipinto come una "pastora" quando tutto, dalla sua aria ieratica ai colori del suo abbigliamento ce la presenta come la consorte vedova di Osiride, ossia Iside, secondo la classica descrizione di Apuleio nel suo Asino d'oro [XI, 3]:

"La tunica era di colore cangiante: intessuta di bisso finissimo, ora brillava d'un bianco luminoso, ora appariva d'un giallo oro, ora rosseggiava d'un colore di viva fiamma. Quello che poi mi abbagliava completamente la vista era il mantello: nerissimo, tutto lucente d'un fosco splendore".

Per sapere che il Seicento è stato il secolo di Iside non è necessario leggere il libro che le ha consacrato Baltrusaitis. Ora, uno dei fulcri del rinnovato culto di Iside era proprio l'ambiente gesuitico della capitale, soprattutto per opera dell'amico di Poussin, il padre Kircher.

La grande dea, dallo sguardo al contempo assorto, addolorato e colmo di bontà, con un gesto di affetto materno, tiene la mano appoggiata sulla spalla del suo primogenito Orapollo (Horus - Apollo), naturalmente vestito del colore del fuoco. E' facile arguire che la figura vestita di bianco all'altro capo del sepolcro è il suo figlio adottivo Ermanubi (Ermes - Anubi, figlio illegittimo di Osiride e di Neftis), figura eminentemente aerea. E chi può essere il personaggio accosciato, intento a leggere l'iscrizione, se non il terzo e ultimo dei suoi figli, ossia Arpocrate, dio del silenzio e della riservatezza iniziatica? E in effetti, egli proietta sul sepolcro un'ombra che restituisce proprio la figura di un uomo accosciato intento a portarsi un dito alla bocca come per intimare il silenzio: era proprio questa la rappresentazione tipica del dio, come si può vedere nella rappresentazione seicentesca seguente, tratta proprio da un libro di Pignoria:
 



 


Alfeo lascia dunque il posto ad Arpocrate, senza che nulla muti quanto a significazione. Allo stesso modo il cranio, ora assente, è sostituito dal gesto di Orapollo, il fuoco, che indica alla madre il luogo della propria provenienza. Tuttavia, l'aspetto più delizioso dell'inventio poussiniana è secondo noi fornito dal fatto che il dito di Arpocrate non indica più la lettera D come nel quadro precedente, bensì la R.

Che ora la lettera latina che viene indicata sia proprio la R, ermeticamente equivalente alla R (rho) greca e alla r (resh) ebraica, ci mostra in modo lampante quanto il Poussin della maturità fosse progredito, rispetto a quello giovanile, nella sua capacità di sintesi semantica. Kabbalisticamente, la r corrisponde a Saturno. Simbolizza la testa dell'uomo. Secondo Boehme, la r trae la sua origine dalla facoltà ignea della natura e a causa di ciò è l'emblema del fuoco. Basterebbe questo a mostrare che la R, per la sua maggiore estensione semantica, esprime il segreto del caput mortuum o saturno dei filosofi in modo più pregnante che non la D. Tuttavia, questa lettera presentava il vantaggio di dire qualcosa di preciso intorno alla soluzione del problema, cioè a quell'aria che era lo strumento necessario per estrarre le ossa saline dalla carne metallica di Osiride. A uno sguardo superficiale sembrerebbe dunque che la sostituzione implichi la perdita di un'informazione a vantaggio di un'altra ma se si considerano le cose più attentamente ci si rende conto che non è affatto così: il riferimento all'aria non sparisce affatto ma rimane pienamente evocato da la erre, l'aere. Non si può non rimanere incantati dal genio enigmistico di Poussin: sostituendo la R alla D riesce a darci addirittura - e in un modo estremamente elegante - un supplemento di informazione rispetto a quanto era contenuto nel quadro precedente.

Il quadro esprime dunque soltanto una retrodatazione della tradizione arcadica, e formula un differente giudizio quanto alla sua origine. Conformemente a ciò, la frase Et in Arcadia ego cambia ancora quanto all'enunciatore e al suo senso: è ora Iside stessa a pronunciarla, esprimendovi il fatto che la tradizione che la concerne è stata importata in Arcadia dall'Egitto. Io, Iside, sono venuta anche in Arcadia.

Ma - domandiamoci - se i due quadri parlano veramente di tutto ciò perché un titolo così fuorviante come "I pastori d'Arcadia"? Secondo noi la soluzione è come sempre semplice, lineare, e risiede ancora nella tradizione ermetica. Abbiamo visto che quando Félibien, nel suo libro, vuol parlare dell'amico Poussin, sceglie come interlocutore quel "tale Pymandre" di cui abbiam discusso più sopra. Ora, Pimandro in greco vuol dire esattamente pastore. Ecco cosa ci dice in proposito Françoise Bonardel, docente di filosofia della religione alla Sorbona, nel suo La via ermetica (Atanòr, Roma, 1998):

"Uno dei primi commentatori moderni dell'ermetismo, Louis Ménard, ha evocato <<quella sorprendente chimca intellettuale il cui laboratorio principale si trovava ad Alessandria>>. I libri ermetici avrebbero rappresentato l'elemento unificatore tra gli gnostici (sia le sette conosciute con questo nome sia la scuola ebraica di Filone l'Alessandria) e i neoplatonici Plotino e Ammonio Sacca. Ménard pone anche l'accento su quella sorta di tradizione "pastorale" - il Pimandro è in effetti un pastore - derivata dalle scuole dei terapeuti egiziani (Ménard rinvia al De agricultura di Filone, al Pastore di Erma e al Timeo di Platone). L'insegnamento di questa tradizione si sarebbe tramandato proprio attraverso la rivelazione ermetica, per la quale il trismegisto diviene l'iniziato e l'iniziatore supremo della Gnosi".

E poco oltre:

"Il Corpus Hermeticum offre quindi da un trattato all'altro, da un discorso all'altro, da un incantesimo all'altro, degli esempi di questa catena di iniziati destinata a perpetuare la tradizione ermetica: dal Nous a Pimandro, da Pimandro ad Ermete, da Ermete a Tat, da Iside a Horus ... è sempre il solo e unico Verbo divino che pneumatizza la Creazione attraverso coloro che ne sono i <<pastori>>".

Non crediamo che le due citazioni necessitino di commento: il titolo dei quadri non si riferisce affatto a individui dediti alla pastorizia bensì ai custodi di una tradizione.

E con questo il mio compito è terminato: anche se inusuale l'ipotesi è chiara, coerente, documentata ed esposta nel dettaglio. Ai lettori il compito di giudicarla. Tuttavia resta solo un'ipotesi che - come ho detto - non perderò tempo a difendere. Dopotutto potrebbe darsi benissimo che Guercino sia stato solo un autodidatta ignorante nonché marcatamente bigotto, Poussin un classicista interessato solo alla mitologia letteraria e Pimandro un amico personale di Félibien: al mondo può succedere di tutto!
 


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[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme]

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