Come costruire una macchina del tempo

(Paul Davies)

(Mondadori, 2003)


 




Nello sterminato stupidario divulgativo si incontra spesso l'affermazione che il futuro viaggia alla velocità della luce. La natura idealistica dello spaziotempo venne impietosamente rivelata nel 1948 dal celebre Kurt Goedel, il quale dimostrò a un imbarazzato Einstein, equazioni del campo alla mano, che la struttura di Minkowski contemplava la possibilità di percorrere linee temporali che riportavano al passato. "Ciò permetterebbe a qualcuno di ritrovare se stesso - ironizza Goedel - in un certo periodo precedente della sua vita e perfino indurlo a fare qualcosa che a lui non è mai capitata".

Nella risposta a Goedel, Einstein rileva che "la direzione del tempo può essere definita in senso fisico soltanto dall'azione causale e che lo spaziotempo non pretende di avere una sua esistenza propria", ammettendo esplicitamente che il solo modo di salvare la causalità era di attribuire alle linee chiuse di tipo temporale un'esistenza geometrica e non fisica. Sembrerebbe un de profundis per i viaggi nel passato, ma è proprio qui, curiosamente, che Einstein si è giocato tutto il suo futuro: in che modo una fisica relativistica basata sullo spaziotempo - e per la quale gli enti geometrici quadridimensionali sono gli enti fisici stessi - potrebbe sopravvivere se lo spaziotempo non è reale? Che cos'è che si incurva? Lo spazio e il tempo o la struttura di Minkowski? Che ne sarebbe della fisica corrente e della molto celebrata astrofisica dei buchi neri se la geometria ritenuta realtà fosse soltanto una similitudine o un artificio matematico?

Questa terribile domanda tenuta in naftalina da oltre mezzo secolo consente al prolifico Paul Davies di cimentarsi in un'altra impresa editoriale al centro della filosofia del tempo e che ha per oggetto la costruzione di una macchina in grado di andare su e giù per la coordinata immaginaria. Che "immaginaria" poi non è, sostiene Davies, sennò tanti saluti allo spaziotempo, alla teoria einsteniana e ai viaggi di Wells.

La gran questione viene liquidata in poche righe al paragrafo "Ma è davvero il tempo che rallenta?" (p. 29): "Alcuni obiettano che la teoria della Relatività si limita a descrivere il modo in cui gli orologi (e i processi fisici) risentono del moto e della gravità, ma non dimostra l'esistenza di un tempo vero e proprio. Questo è un fraintendimento, - sentenzia newtonianamente Davies - gli orologi misurano il tempo". E se si può perdonare all'Autore di trascurare le affermazioni del padre della Relatività (in una celebre conversazione con Rudolf Carnap, Einstein dichiarò con enfasi che "il tempo è fuori dalla scienza"), è difficile sorvolare sull'ammissione che sfugge nei primi capoversi di p. 143 al fisico australiano: "Il tempo di per sé non scorre da nessuna parte". Che cosa misurano allora gli orologi?

Il resto del libro è alchimia pura, se così si può dire. Spaziotempo elastico, cunicoli di tarlo, antigravità, fusioni di vuoto quantistico, schiume esotiche, corde cosmiche, cavorite, putiput e triccheballacche: quel che serve, in sostanza, è un collisore, un dispositivo di implosione, un dilatatore e un differenziatore. "La macchina del tempo di Wells prendeva parte al trasporto temporale andando avanti e indietro con il guidatore - rileva Davies - mentre la nostra macchina (dello spaziotempo) funziona facendo compiere al viaggiatore uno spostamento nello spazio che termina nel passato".

Eureka? Poiché la tecnologia è inarrestabile e dal momento che nessuno può dimostrare in modo conclusivo la possibilità o l'impossibilità di alcunché, possiamo immaginarci Paul Davies che sbatte questo libro sulla scrivania di H.G. Wells accusandolo di plagio? Ma sì, non facciamo sempre gli intolleranti. Da Herbert Dingle che convince Einstein a riscrivere la Relatività all'inventore pazzo che muore di vecchiaia mentre ritorna al passato, niente in tutto l'universo appare più giustificato del nostro diritto di sognare.
 
 
Come costruire una macchina del tempo

Paul Davies

Mondadori 2003, pp. 154, prezzo 15 €


 

(Alberto Bolognesi)

[Una presentazione dell'autore di questa recensione si trova nel numero 2 di Episteme.]

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