Teoria e osservazione

(Alberto Bolognesi)

 

Zodiaco di Dendera

1. L'universo allo specchio

E' come passare la notte sull'albero maestro di una nave che scivola sul mare, dicono gli astronomi. "Un turno di notte nella gabbia del fuoco primario di un grande telescopio ti può cambiare la vita". E non è mica una passeggiata quando il freddo è pungente, la notte è senza luna e la vescica è piena. Te ne stai lì al buio con taccuino, carte celesti e lastre fotografiche che ti sei portato dietro dopo esserti arrampicato come un geko, mani e piedi, fino alla gabbia.

Io ci sono entrato da raccomandato con un cartoncino di plastica appuntato sulla giacca a vento che diceva che io sono io, e sono rimasto nell'oscurità a sbirciare in un gelido oculare come un intruso, come un clandestino che viaggia al termine della notte. Ogni tanto mi alzavo per sgranchirmi e per guardare giù in basso verso lo specchio, che sembrava un'immensa scodella galleggiante di pepite d'oro. L'universo nel pozzo.

Ma i tempi cambiano. Entro pochi anni sarà possibile effettuare sistematicamente anche le osservazioni più estreme standosene sprofondati nella poltrona di casa, alle dieci del mattino, davanti a un cappuccino e a una tastiera. Qualche diligente cliccata e un gigante di dieci metri di diametro ruoterà docilmente su qualche picco innevato a migliaia di chilometri di distanza verso l'oggetto prescelto. L'universo sui polpastrelli delle dita. Ci voleva tanto?

Qualcuno mormora che è la vittoria dei "lavativi" del Cassegrain, ma qui non c'è il temuto allungamento della distanza focale, tutto è assolutamente ottimale, tempo permettendo. Il digitale ha stravinto. Avremo osservazioni sempre migliori stando sempre più comodi, e agli astronomi più romantici - o più bigotti - che si vantavano di aver reni d'acciaio e cervicali bioniche, non resteranno che Osservatori obsoleti e fatiscenti circondati da odorose conifere. Di cosa parleranno, se non dei "bei tempi andati" e degli incredibili seeings che furono?

Il futuro non si può fermare. La speranza è che queste enormi facilitazioni all'astronomia osservativa inducano quei teorici che ammettono candidamente di non aver mai visto una galassia al telescopio (ma che in compenso sanno un'enormità di cose sugli anelli caustici e sui frattali di materia oscura, che dominano a menadito gli algoritmi di Barrabes-Frolov o la compattificazione di Calabi-Yau, e che calcolano con stupefacente approssimazione quanti universi vengono creati quando due buchi neri si fondono insieme), li inducano, dicevo, a dare un'occhiatina ...

Si deve avere rispetto e profonda ammirazione per il talento matematico e la sagacia interpretativa dei professionisti della Creazione, ma quando è in ballo l'universo intero la domanda che torna è sempre impietosamente la stessa. Chi fissa le condizioni "iniziali" e quelle al contorno? E' la teoria che deve precedere l'osservazione o è l'osservazione che deve ispirare la teoria? E, tanto per aggiungere "banalità" a un approccio così scontato, chi ha veramente il coltello dalla parte del manico? L'universo o la mente di chi lo esplora?

E' noto che si possono formulare ipotesi matematicamente corrette ma in conflitto con la natura, capaci di fornire ottime predizioni dei fenomeni: il Sistema Tolemaico, per esempio, è in grado di rappresentare coerentemente le posizioni degli astri nel cielo, di prevedere eclissi, congiunzioni, opposizioni, elongazioni. Eppure è smentito dall'osservazione, dalle sonde e dai satelliti artificiali, dall'aberrazione astronomica e dalla rotazione galattica. Non è solo sbagliato, è spaventosamente sbagliato. Ma ha resistito millecinquecento anni e sarebbe ancora in grado di fornire previsioni attendibili con un raffinato make-up al computer dei suoi epicicli, equanti e deferenti.

Allora la questione è di decidere se teorie formalmente corrette, ma smentite o non comprovate dall'esperienza, possono pretendere di avere il primato sull'osservazione. "In fisica - mi scrive il Professor Daniele Cattani dell'Università di Bologna - la verità non esiste. Esistono solo teorie che spiegano nell'ambito della teoria stessa i fatti della Natura". Riecheggiano le affermazioni di Stephen Hawking che hanno fatto il giro del mondo: "Io non chiedo che una teoria corrisponda alla realtà perché in definitiva non so quale sia questa realtà: quel che mi interessa è che la teoria predica i risultati di misurazioni" (La Natura dello Spazio e del Tempo, Hawking e Penrose). Io credo che Hawking e Cattani non dubitino realmente che i pianeti ruotino intorno a un sole centrale, ma sospetto che entrambi ritengano questa rappresentazione "un po' parziale" e irrimediabilmente "antropocentrica".

C'è qualcosa di vero, suppongo, ma un simile indebolimento del concetto di realtà dovrebbe vanificare automaticamente tutte le ambizioni cosmologiche di una teoria "universale". Che cosa ce ne facciamo di un sistema del mondo se non è reale?

La domanda si ripropone imperiosa: chi deve guidarci nell'esplorazione o nell'approfondimento della natura, la teoria formalmente e matematicamente corretta o l'osservazione? Se gli stessi fisici dubitano del concetto di realtà, la fede in una teoria riposa essenzialmente nella convinzione che dentro la matematica siano già contemplate le soluzioni che si cercano, un po' come nella teologia è già presupposta l'esistenza di Dio. Se, come dice Gell Mann, al centro del sole non c'è chimica ma fisica (Il quark e il giaguaro), al centro della fisica c'è un dio che parla per bocca di Gell Mann.

Se si accetta il "fallibilismo" delle teorie, come appare inevitabile a qualsiasi epistemologo, è tuttavia legittimo coltivare l'idea che "le nostre ipotesi migliorano se chiunque è libero di discuterle" (G. Giorello). Per i cosmologi del Big Bang sembrerebbe esattamente il contrario: le loro ipotesi peggiorano se chiunque è libero di discuterle. La comunicazione che è essenziale nella formulazione e nella gestione di una teoria scientifica, deve sempre permettere il controllo e il confronto con dati contrari, anche a costo della sua falsificazione. Come ricordava centocinquant'anni fa John Stuart Mill "è proprio la completa libertà di contraddire e confutare la nostra opinione che ci giustifica quando ne presumiamo la verità" (Saggio sulla Libertà). "Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su, altra salvaguardia che un invito e una sfida permanente al mondo intero di dimostrarle infondate".

La sfida è invece sistematicamente evitata, o soppressa, come se la cosmologia, ben consapevole della sua fragilità, optasse per una presunzione di infallibilità. Sto toccando un punto cruciale: messo nell'angolo, qualsiasi cosmologo in buona fede conviene che il Big Bang è un modello meramente matematico, che tutta la teoria della Genesi cosmica e della Grande Esplosione è per definizione una teoria. Ma se chiedete ai responsabili della NASA se la mappa a radioonde ottenuta da C.O.B.E. o dalla sonda B.O.O.M.E.R.A.N.G. rappresenta davvero il residuo di un gran botto che avrebbe dato origine a tutto l'universo ... verrete guardati come imbecilli. Uno di questi, Fred Hoyle, definiva la radiazione di 3° K "temperature of local space": se vi trovate in mezzo alla nebbia, diceva, non pensate all'origine dell'universo ma semplicemente di stare in mezzo alla nebbia! E' pur vero che Hoyle si è sbagliato un'infinità di volte, ma né Hawking, né Lange, né de Bernardis possono negare che i nostri strumenti di rilevazione sono (e saranno sempre) vicinissimi al nostro "spazio locale" e lontanissimi dal "fondo" dell'universo che si pretende di misurare. Quando io scrissi queste cose su un quotidiano, il Direttore di un mensile di scienza e cultura, si affrettò a inviare un avvertimento trasversale alla redazione che mi ospitava.

La mia proscrizione, è ovvio, non ha fatto alcun danno, ma se si considera che "è stata proprio la scoperta della radiazione fossile ad affossare la teoria dello stato stazionario" come ogni buon studente di astronomia apprende dai cosmologi, resterebbe molto da dire sui requisiti di una "scoperta scientifica". Nessuno può dubitare che la radiazione di Penzias e Wilson sia una scoperta scientifica, ma se si dice che la radiazione fossile è una scoperta scientifica si dice una cosa completamente diversa.

Nel suo celebre testo Karl Popper analizza questo "salto" che separa fenomeno da fondamento, notando che "ogni cosiddetta scoperta contiene un elemento irrazionale o un'intuizione creativa" e conclude che qualsiasi scoperta casuale è immediatamente esposta "alla cattura" di un programma o da "un'idea guida" precedente (Logica della Scoperta Scientifica). E' in parte ciò che già aveva portato Ernst Mach fuori dalla scienza, e indotto a trincerarsi in un "fenomenismo" e in un empirismo radicale (Conoscenza ed errore) che lo fece dubitare perfino dell’esistenza degli atomi. Qui, tuttavia, non occorre farla troppo lunga per fissare i termini della questione: se la scoperta di un segnale uniforme rilevato da antenne al suolo o da satelliti artificiali in orbita intorno alla Terra può diventare "il fatto che l'universo ne è completamente avvolto e quindi la conferma che è nato da una caldissima esplosione" (Margherita Hack), la logica della scoperta scientifica è ancora tutta da scrivere. A onore di Penzias e Wilson, che ricevettero il Nobel, va riconosciuto tuttavia anche il merito di essersi sempre mantenuti agnostici, nonostante le enormi pressioni ricevute, rispetto alla natura "cosmologica" della radiazione di 3° K.

Sulla "fossilizzazione" del lampo iniziale ebbi un divertente battibecco con il rinomato cosmologo inglese John Barrow, al termine di una conferenza organizzata dalla Biblioteca di Misano nel 1997. Nel mio stentato inglese gli feci notare che la tanto celebrata energia del vuoto potrebbe essere un ottimo "risonante" per l'emissione di un fondo così uniforme e che comunque, ipotesi per ipotesi, si potrebbe sostenere alternativamente che si tratti della temperatura residua della nebulosa planetaria che ci ha prodotti. "L'importante differenza - lo incalzai - è che la nebulosa ci ha certamente preceduti, mentre il Big Bang è tutto da dimostrare". "Ah, tutto questo è molto interessante - sorrise - ma è meglio avere una soluzione generale che una locale". "Sarebbe disposto a uccidere per questo?" domandai scherzoso. "Sì, naturalmente" fu la risposta.

2. Tutto alla rovescia

Se le teorie non possono dirci ciò che è vero e ciò che è falso, la cosmologia deduttiva assume inevitabilmente i connotati di una disciplina speculativa. Proponendosi come scienza dell'universo fisico nella sua totalità, è obbligata ad assumere in modo del tutto arbitrario la certezza di avere una visione estesa e panoramica del Mondo.

Per gli ammutinati dalla "tuttologia" (quattro gatti e un topolino in via di estinzione), l'unità cosmologica non è che un mito o una grossolana generalizzazione. Se ci si domanda come è nato l'universo si parte con la domanda sbagliata, perché la soluzione cosmogonica deve rappresentare l'atto finale, il coronamento di un percorso di indagine scientifica, e non la sua premessa. L'antinomia kantiana - universo creato o eternamente esistente - scopre impietosamente le pretese idealistiche delle teorie del Cielo, perché creazione ed eternità non possono essere in alcun modo matematizzate. Per ogni eretico che palesa l'impossibilità di arrivare a un inizio a partire dal nulla c'è un ortodosso che sostiene che l'eternità è priva di senso. Un dialogo fra sordi, che sembra ridurre la cosmologia a quella scienza parzialmente burlesca e parzialmente tragica, "la patafisica", immaginata da Alfred Jarry e teorizzata dal suo Dottor Faustroller sotto il nome di "fisica delle soluzioni immaginarie".

L'alternativa di una cosmologia induttiva e "locale", dedotta interamente dalle osservazioni, ha in Viktor Ambartsumian (1908-1996), astronomo armeno dell'ex Unione Sovietica, il suo antesignano. Ebbe momenti di grande celebrità e contese con l'Occidente nei lunghi decenni della guerra fredda il primato per l'interpretazione della struttura cosmica. Se ci sarà una controriforma in cosmologia, Ambartsumian dovrà essere ripescato dall'oblio e posto sul gradino più alto come l'Aristarco della modernità.

Poiché l'antinomia finito-infinito è indecibile, l'unico universo di cui abbia senso parlare è quello osservabile o potenzialmente osservabile. Non è nemmeno il caso di accostare l'epistemologia alla cosmologia: per Ambartsumian le enormi variazioni di densità nel cosmo vanificano ogni possibilità di far funzionare le equazioni di base della fisica, mentre l'osservazione ottica, la radioastronomia e l'emergente astronomia delle alte energie arricchiscono senza sosta l'evidenza della diversità qualitativa delle galassie. Il suo empirismo è estremo e improntato alla massima economia logica. La conoscenza dei fenomeni cosmici è ridotta alle loro trasformazioni: voler introdurre modelli matematici che già assumono la spiegazione che si vuole trovare, equivale a contaminare e a stravolgere le osservazioni stesse.

Se si rinuncia drasticamente al metodo dei modelli - nota Ambartsumian - la più ovvia delle constatazioni è che le età delle diverse galassie sono molto differenti tra loro. Ma, questa è già una reductio ad absurdum per la cosmologia del Big Bang che è costretta a giustificare la diversa composizione chimica e stellare delle galassie con l'ipotesi delle fusioni e delle collisioni continue, che provocherebbero in questo modo nuove formazioni di popolazioni stellari. "Questa semplice evidenza - dice con ammirazione Halton Arp - era disponibile già con il telescopio Hooker di Monte Wilson, e avremmo dovuto accorgercene: il fatto che Ambartsumian l'abbia sostenuta proprio sulla base delle surveys effettuate da astronomi americani agli inizi degli anni Cinquanta, dimostra che lui e i suoi collaboratori guardavano le lastre più attentamente di coloro che le avevano ottenute".

Ambartsumian ha inizialmente fissato la sua attenzione sullo studio e sulla classificazione delle stelle e in particolare su quelle dei primi tipi spettrali (0 e B), molto splendenti e molto azzurre, sparse in grappoli e spesso mescolate al centro di popolazioni meno recenti. Si consolidò in lui l'idea che le associazioni stellari definissero un processo a senso unico volto nella prospettiva del divenire e che questa fosse la chiave di volta più generale per la comprensione delle stesse galassie e in definitiva di tutto l'universo osservabile. "E' sorprendente che sia così semplice - confidò ai suoi collaboratori di Bjurakan - ma lo è!".

Prendendo in contropiede tutte le interpretazioni accettate dagli astrofisici occidentali, generalizzò questo processo "genetico" agli ammassi di galassie concludendo che l’"età" dell'universo è in flagrante contraddizione con le osservazioni, e che proprio dalle galassie a struttura anomala si potevano estrarre le informazioni più cruciali su come viene continuamente ad organizzarsi su larga scala la struttura cosmica. Definì "ridicola" l'ipotesi delle collisioni e ne constatò l'inadeguatezza proprio attraverso l'analisi accurata di quei casi che venivano considerati "emblematici": il calcolo delle masse fluide sottoposto a reciproca attrazione mostrava con evidenza schiacciante che i filamenti e gli effetti di marea dovevano essere considerati invece "come l'ultimo legame che ancora unisce due galassie formatesi per scissione da un nucleo primigenio e che ora sono in via di completa separazione" (On the evolution of galaxies, 1959). La formazione delle galassie in gruppi e in ammassi doveva compiersi attraverso la moltiplicazione e la frammentazione di oggetti originariamente unici, da separazioni ed espulsioni secondarie, come un processo macroscopico di creazione e di fissione continua. Ciò implicava a sua volta uno stato più diffuso di tutta la materia, una "premateria" in grado di condensarsi in masse che Ambartsumian, derogando alla sua economia logica, denominò ipoteticamente "corpi D".

3. Le osservazioni di Arp confermano le "fissioni" di Ambartsumian?

Eliminando ogni modello aprioristico dell'universo, Ambartsumian identifica di fatto le leggi dell'astrofisica con le osservazioni stesse. Nessuno può dire a quale spaventosa potenza negativa del numero dieci sporofonderebbe la possibilità di dedurre "il tutto" dalla mente pura: solo l'induzione a partire dal dato sensibile ci può dire qualcosa sulla struttura osservabile (La Méthode en Cosmogonie, 1959).

Questa tentazione, anzi questa scelta è evidente anche in Arp. Dopotutto nessuna fisica teorica avrebbe mai potuto predire la scoperta del fuoco o la forma delle galassie a spirale, i quasar o i bursts di raggi gamma, e il sistema copernicano sarebbe stato stravolto dagli stessi addetti ai lavori (T. Brahe) senza le osservazioni al telescopio di Galileo. Ciò non significa che se le teorie sono potenzialmente fallibili devono essere sempre sbagliate: gli universi-isola erano già stati intuiti ai tempi di Kant così come il sistema eliocentrico era già stato presagito da Aristarco, ed è fuor di dubbio che senza l'ausilio della matematica, della geometria e del metodo delle ipotesi, nessun approfondimento della conoscenza sensibile sarebbe mai stato possibile. E' un dilemma irrisolto, ne abbiamo già accennato a proposito della correttezza formale del sistema tolemaico: l'epistemologia dovrebbe dire più chiaramente se le teorie non comprovate dall'esperienza sono già scienza.

Ciò che Arp e Ambartsumian non sono disposti a concedere alle potenzialità della conoscenza è la soluzione aprioristica del Mondo e considerano una sorta di "pervertimento scientifico" l'assumere come già note tutte le leggi della fisica. "Ci si inventa la soluzione possibile dell'universo - lamenta Arp - e si cercano ... prove indiziarie". Prendete la costante cosmologica - rincara un altro illustre dissidente, l'indiano Jayant Narlikar -: è stata bandita dalla fisica relativistica come il più grande errore di Einstein e poi ripescata con tutti gli onori per tenere in piedi l'incoerente distribuzione dei redshift delle galassie ospiti di supenovae Si vuol forse dire che la costante cosmologica è adesso una scoperta scientifica?".

Pochi anni dopo le comunicazioni di Ambartsumian, Arp pubblicò il suo primo Atlante delle Galassie Peculiari (1966). Le galassie selezionate mostravano evidentissimi stati di non equilibrio, erano frequentemente coinvolte in discordanze di redshift e quasi sempre associate a un eccesso di radiosorgenti e a sorgenti di raggi X, che risultarono poi essere quasar "del lontano sfondo". "E' evidente che si tratta nella stragrande maggioranza di sistemi giovani, ma la notevole attenzione che riscosse questa raccolta declinò bruscamente non appena le conseguenze cosmologiche divennero chiare" (Arp, Pasadena, 1980).

E allora, in conclusione, ci si può chiedere se le sue osservazioni confermano quelle di Ambartsumian? La teoria del Big Bang è presa così sul serio che anche questa semplice domanda può risultare provocatoria, così io mi limito a mostrare alcune di queste galassie peculiari nello spirito dell'indagine scientifica di un tempo, sollecitando chi le guarda a darsi una risposta da solo. Quei lettori di Episteme che hanno seguito con sospetto o con irritazione la mia rivisitazione della controversia non hanno nulla da temere. Sanno bene che i redshift anomali non esistono e che si tratta semplicemente di effetti di prospettiva. Sanno che non ci sono galassie che si spaccano, che si frammentano, che si sdoppiano o che si separano da un corpo originariamente unico, e che vi sono soltanto fusioni e collisioni. Non ci sono le "separazioni" di Ambartsumian, né galassie compagne che emergono dai bracci delle spirali. E non ci devono essere "catene" di oggetti che non siano configurazioni accidentali, perché gli allineamenti, per potersi conservare, richiederebbero la formazione di galassie in tempi estremamente recenti e quindi una creazione continua della materia cosmica nell'universo.

Guardare per credere le immagini delle galassie che ho selezionato dall'Atlante di Arp.

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[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 2 di Episteme.]

guervitt@virgilio.it

 

 

 

 

 

 

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