Cari Colleghi,

 

ringrazio tanto Luciano Stramaccia per avermi inviato copia di un articolo apparso sulla Repubblica di ieri 6.3, sul quale mi sembra giusto richiamare la vostra attenzione - anche perche' vi si usa la parola magica BUON SENSO, che ho utilizzato nel mio "programma rettorale", e che potrebbe essere scelta a campione di esso (insieme all'altro concetto: MANDIAMO CERTE PERSONE E CERTE IDEE A CASA). Qui rischiamo di fare tutti quanti la figura dei "pappagalli scemi"! Io diro' sempre, se proprio si e' costretti a fare qualcosa la si faccia, ma senza esagerare in entusiasmi ed eccessi di zelo, come nel caso dell'anagrafe scientifica, che hanno cercato di tramutare nella costruzione di "classifiche" di dubbia significativita'. Se bisognera' "valutare" la ricerca (ma non i progetti di ricerca, che si riferiscono ovviamente, come diceva bene la Regoli, sempre al FUTURO), bisognera' individuare dei criteri sensati, area per area, e in modo democratico, non imposti dall'alto...

 

I consueti cordiali saluti a tutti, il vostro UB

 

 

LINEA DI CONFINE

Berlinguer ci salvi dal "didattichese"

di MARIO PIRANI

 

LEGGO recenti cronache sulla riforma scolastica e sulla possibilita' per ogni studente d'ora in poi, di "personalizzare il proprio corso di studio: se e' particolarmente versato in latino e gli bastera' un quarto d'ora per imparare la lezione, potra' impiegare il tempo che gli resta in altre materie... quindi classi che non sono sempre le stesse, volti nuovi, professori diversi... non piu' a tutti le stesse cose, nello stesso momento, nella stessa quantita'". Forse io sono troppo segnato da modelli educativi antiquati. Mi sono formato ai tempi della riforma Gentile; maestri e professori, quasi sempre gli stessi, ci accompagnavano per anni lungo la nostra crescita; faticavamo, chi piu' chi meno (ma giuro che nessuno imparava la lezione di latino in un quarto d'ora), per assorbire quello che poi fu sprezzantemente battezzato "nozionismo"; il tema, la versione, il problema scandivano le nostre mattine; imparavamo a memoria le poesie, le declinazioni latine e i lirici greci; e soprattutto la storia (anche quella della letteratura e della filosofia) e le sue date fondamentali. Non mi sembra, comunque, che a quelle generazioni ando' didatticamente troppo male. Non uscimmo dalla scuola in grado di predeterminare il nostro futuro lavorativo ma, almeno, non eravamo ignari del nostro passato e delle nostre radici. Per i miei nipotini e nipotine non sara' sicuramente cosi', ma ne verra' fuori una scuola piu' aggiornata o il nuovo corso si risolvera' in un caos, indotto da "quel bisogno di attualita' che, dopo decenni di immobilismo, sembra aver contagiato ampi settori non solo della societa' italiana, ma anche della scuola e dello stesso ministero della Pubblica Istruzione, fino all'altro giorno un dinosauro di immobilismo"? Come spiega Marco Belpoliti sulla Stampa, rifacendosi ad uno stimolante pamphlet di Lucio Russo, un fisico che insegna calcolo delle probabilita' all'Universita' di Padova (Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, ed. Feltrinelli), il quale paventa che un'istruzione incapace di andare al di la' di generici contenuti, priva di ancoraggi nella conoscenza, incentrata sull'angloitaliano dell'informatica, abdichi al suo compito di "far ragionare" e non, semplicemente di "mostrare". Timori passatisti o paura del peggio? Per cercare di farmi un'idea piu' precisa ho chiesto lumi a qualche insegnante. Una professoressa di italiano e latino, con una ventina d'anni di attivita' alle spalle, mi ha confessato: "Siamo sommersi dal didattichese, una specie di linguaggio psico-sociologico d'accatto, sovente incomprensibile, entrato in uso da un po' di tempo per propinarci i cosiddetti nuovi contenuti dell'educazione". E, per farmene convinto, mi ha consegnato le dispense di un corso di aggiornamento per i partecipanti al famigerato "concorsone". Ho esaminato, esterrefatto, questo incredibile malloppo che, per sadica disperazione e anche con la speranza che qualcuno me lo spieghi, vorrei sottoporre per intero ai lettori. Mi debbo, pero', limitare a una emblematica scelta. Comincio da quella che un tempo incombeva sui timorosi scolari e che si chiamava "interrogazione". Troppo semplice. Ora l'insegnante deve scegliere tra "stimolo aperto (consiste nel fornire l'indicazione di una certa area di problemi entro cui orientarsi) e risposta aperta (richiede che si utilizzi la capacita' di argomentare, di raccogliere le conoscenze possedute anche in aree limitrofe), stimolo chiuso e risposta aperta, stimolo aperto e risposta chiusa, stimolo chiuso e risposta chiusa. Sembra un capitolo di farmacologia sull'uso delle supposte. Seguono gli obbiettivi di padronanza, i tipi di conoscenze, gli obbiettivi di transfert, il Programma, del tutto diverso dalla Programmazione, che puo' essere disciplinare, pluridisciplinare , multidisciplinare, interdisciplinare, transdisciplinare. Ognuna di queste specificazioni e' seguita da criteri interpretativi sulla base della docimologia (un settore della conoscenza a comporre il quale hanno concorso elementi originariamente compresi nella didattica, psicologia, statistica e legislazione scolastica). Ad esempio: nell'interdisciplinarita' "il criterio e' intrinseco per il fatto che attorno al problema si organizzano conoscenze diverse aventi una relazione funzionale alla risoluzione di esso". Poveri studenti e poveri docenti, che il buon senso vi salvi dalla docimologia. Berlinguer, ci pensi su: dal suo stesso curriculum di professore, rettore e ministro se ne deduce che nella sua gioventu' non si studiava poi cosi' male. O no?